mercoledì 5 novembre 2014

A LEZIONE ....DI VITA. Editoriale pubblicato sul Bollettino dell'Ordine dei Medici della Provincia di Perugia n 3 / 2014

A LEZIONE....DI VITA


Qualcuno ha detto che la vera storia dell'umanità viene scritta dalle gesta degli eroi, dalle scelte dei grandi  statisti e dei re, solo apparentemente. Tutti gli episodi altisonanti  e le epopee famose, infatti, sono rese possibili perché c'è sempre un universo di "piccoli" uomini e donne che con il loro operato silenzioso, con la loro vita fatta di quotidianità semplici ed umili permettono quel contesto, quelle condizioni, quelle coordinate di spazio e tempo insomma, per cui possa emergere il grande personaggio, che poi sarà ricordato dalle generazioni future. Sarebbe passato Giulio Cesare a perenne ricordo senza il sacrificio silenzioso dei suoi legionari che lo sostenevano? Napoleone Bonaparte! Che avrebbe mai fatto senza le lacrime e il sangue dei suoi fanti della Grande Armée? Che ci azzecca con il bollettino dei medici tutto questo, qualcuno a questo punto potrebbe dire.  Questa introduzione, invece, mi serve perché è mia intenzione questa volta raccontare una di queste storie minori, che forse ci azzeccherà anche poco in un bollettino per medici, ma io sono fermamente convinto che qualche volta le testimonianze di vita possano insegnare comunque qualcosa, forse anche a essere dei dottori migliori.
Ho usato la parola dottore non a caso. Dottore deriva dal verbo latino docere, che come tutti sappiamo, significa insegnare, far apprendere agli altri e difatti, se ci pensiamo bene, quante volte ognuno di noi durante una giornata di lavoro insegna qualcosa e impartisce istruzioni e quasi mai accettiamo l'inversione dei ruoli, soprattutto nei confronti dei nostri pazienti, ma qualche volta capita.
Giovanna è una donna quasi novantenne, oramai ridotta......ma andiamo in ordine. E' mia paziente dal 1980 e la prima volta che la conobbi, fu proprio in un'occasione dolorosa: la certificazione di morte di suo marito. In tutti questi anni non le ho mai chiesto come mai tutti in blocco vollero me come medico e proprio in quella circostanza, forse avranno avuto qualche problema con il collega che mi aveva preceduto e forse proprio a causa di quella morte prematura, ma non mi è stato mai fatto un benché minimo  accenno a riguardo e io non ho mai indagato, ma mi ricordo tutto come se fossi ieri. Varcai la soglia di quell'appartamento situato in una palazzina  senza neanche dover bussare, perché la porta, come usava allora in quelle circostanze, era obbligatoriamente aperta con a fianco il tavolino coperto dal tovagliato purpureo con l'orlo dorato  per accogliere il registro delle firme dei partecipanti al lutto. Sfilai lungo il corridoio gremito di gente che si apriva come un sipario al mio passaggio mentre sentivo un brusio di voci che sussurravano l'uno con l'altro:" E' il dottore! E' il dottore". In maniera quasi automatica seguendo la traccia della gente che mi faceva largo, mi ritrovai nella camera matrimoniale stracolma, gli specchi tutti coperti da lenzuola, sul letto matrimoniale la salma vestita in abito da cerimonia con i piedi legati da un fazzoletto e con la mandibola serrata alla mascella superiore da un fazzolettone annodato sopra il vertice a mo' di uovo di Pasqua: un classico. Alla destra del letto, seduta su una poltrona, tutta vestita di nero c'era lei con le braccia aperte, con i capelli grigio neri tutti legati a cipolla come si usava nella vecchia cultura contadina umbra. Sapendo che era stato dimesso dall'ospedale poche ore prima che spirasse in casa, per costatare il decesso feci solo un atto formale e, mentre compivo gli adempimenti di rito, avevo la chiara sensazione di essere giudicato atto per atto dal suo sguardo. Mi rivolsi poi a lei senza proferir parola, mi venne istintivo poiché in quel contesto il silenzio aveva un significato superiore alle parole. Le strinsi la mano e lei sempre senza parole fece un cenno di apprezzamento: capii allora che avevo superato l'esame.
Da quella volta ogni tanto sono tornato in quella casa, ma il più delle volte per visitare i suoi nipoti che la figlia e la nuora le parcheggiavano quando erano febbricitanti poiché loro, non potendo assentarsi dal posto di lavoro, non erano in grado di assisterli. Giovanna mi ha sempre accolto in casa con un atteggiamento austero e poco incline all'aprirsi. Mi faceva visitare i nipoti  e si raccomandava che scrivessi in bella grafia le eventuali prescrizioni con la posologia precisa in modo che non avesse poi problemi nel trasferire le informazioni alle mamme. Poche volte mi è capitato di essere chiamato per lei e quelle poche volte sempre per problemi di febbre alta e infiammazioni delle vie aeree. In quelle occasioni accedevo alla camera da letto che era  una vera testimonianza della civiltà contadina oramai estinta. Le lenzuola di quel cotone bianco opaco, ruvido e al profumo di lavanda. Lei con indosso un camicione da notte che dal collo arrivava sino ai piedi e con i capelli non legati a cipolla ma talora raccolti in un unico treccione oppure completamenti sciolti e non erano facile spostarli per visitare il torace. Le ricette  le compilavo in piedi su di un alto comò, con la lastra di marmo grigio azzurra che faceva da pianale, come da tipica arte povera umbra, facendomi spazio fra una gondola di cartapesta, la palla di vetro con liquido che agitandola liberava in sospensione "la neve" e la classica foto di una coppia con i baffoni all'umbertina per il maschio e un collettone di pizzo per la femmina, forse i genitori di lei. Con il trascorrere degli anni, i nipoti sono cresciuti, i figli hanno costruito una villetta bifamiliare in un altro comune limitrofo a Perugia e lei " è entrata in casa" con il figlio maschio e la nuora. Oramai quelle volte che sono chiamato è quasi sempre per i suoi problemi di salute: ischemia cerebrale cronica, parkinsonismo senile abbastanza limitante, lieve scompenso cardiaco, ma quello che la angoscia di più: una progressiva ipovedenza dipendente da molte cause e un quadro di poliartrosi molto invalidante. Qualche mese fa, mi telefona la nuora dicendomi che la Nostra aveva trascorso tutta la notte vomitando e con dei forti giramenti di testa e, anche se per il momento stava un po' "meglino", avrebbero gradito un controllo da parte mia. Ovviamente se pure a malincuore, fra i tempi di percorrenza e la visita se ne vanno più di 90 minuti, mi sono recato dalla paziente appena ho potuto. Bussa e ribussa non mi rispondeva nessuno, né nuora né figlia, sui familiari di genere maschile nemmeno a pensarci. Mentre stavo a riflettere su come potevo fare ecco che mi viene aperto il cancello e la porta di casa, proprio da Giovanna. Mi apre seriosa come sempre, e mi fa accedere sul "rustico "del piano terreno che, di fatto, ha vicariato il vecchio cucinone della casa contadina con tanto di focolare, tavolone immenso: la vita in comune della famiglia, insomma, si passa qui. " Lo avevo detto a mia nuora di non disturbarlo perché oramai stavo meglio, ma sa dottore, pur di contraddirmi..." Dalla fretta non parlo, quasi la costringo in poltrona, in silenzio raccolgo un sommario esame obiettivo......nulla di nuovo. Sarà stata una sindrome vertiginosa posizionale penso fra me e me...." Già che ci sono Giovanna facciamo le ricette che le servono, così i suoi si risparmieranno un viaggio al mio ambulatorio" rispondo. Si alza per andare a prendere i farmaci. Cammina molto lentamente e con fare incerto, il mento quasi le tocca la pancia da quanto la colonna vertebrale è curva, il respiro è affannoso. Raggiunte le scatole le dico di leggermi i nomi. " Dottore! Ma in tutti questi anni non l’ha capito che sono analfabeta?" mi risponde." No! Mi scusi, non l'ho mai sospettato.... evidentemente non ha mai trovato il tempo perché ha preferito andare a divertirsi!" rispondo in modo molto infelice con le prime parole che mi sono capitate. "Dottore! Beato lei che ci ha ancora la ruzza! Adesso se mi ascolta le dico il perché!.. Lei sa che noi siamo originari di una frazioncina che è in cima ai monti. In famiglia eravamo tutti contadini, il mio povero babbo e la mia povera mamma si alzavano all'alba per andare a lavorare nei campi ed io e tutti i mie fratelli li aiutavamo. Per questo non abbiamo mai trovato il tempo per andare a scuola. Io andavo da piccola sempre dietro a mia madre dai maiali, dalle galline e dalle oche. Quando sono diventata un po' più grande mi hanno anche messo in mano la falce per mietere il grano e il fieno poiché la terra che il padrone ci faceva coltivare, in alcuni punti era talmente ripida che era impossibile usare trattori e persino i buoi ci andavano con difficoltà. C'era poi la spannocchiatura del granturco, la vendemmia, la semina, la raccolta delle olive. Poi quando sono cresciuta non ho più davvero trovato il tempo per andare a scuola. Vede dottore, sa benissimo che quando si è giovani si ragiona poco con la testa e, se  ha pazienza le racconto un altro po' della mia vita!" " Vada pure avanti, Giovanna," rispondo convinto perché se all'inizio facevo attenzione in maniera distratta, forse per farmi perdonare la mia uscita infelice, ora ero veramente incuriosito dal poter sapere come una donna sempre seria ed austera, per come la conoscevo, avesse potuto ragionar poco con la testa.
" Poco prima dei vent'anni quell'essere che poi è diventato mio marito ha cominciato a venirmi dietro. Ha cominciato ad aspettarmi quando venivo via dal lavatoio dove andavo a lavare i panni, ha cominciato a sorridermi per strada quando andavo a fare la spesa alla bottega. Mia madre che se ne era accorta subito mi supplicava e mi scongiurava di lasciare perdere perché era un carbonaio. Figlia mia, mi diceva, tu non sai chi sono i carbonai e che vita ti aspetta se ti confondi con loro. A forza di stare in mezzo alla macchia per mesi e mesi diventano selvatici come gli animali del bosco. Non sopportano più gli ambienti chiusi e non vogliono stare mai in casa, anzi tutto quello che ha a che fare con la casa dopo un po' li infastidisce. Non ti aiutano in niente e quel poco tempo che stanno in famiglia ti fanno rimpiangere i periodi che non ci sono. Sono senza regole, facili al bere, spesso diventano violenti. Li hai sentiti quando litigano fra loro in mezzo al bosco come le urla e le bestemmie arrivano anche in paese e troppe volte i carabinieri devono correre prima che si prendano a colpi di accetta. Lascia stare! Figlia mia, sposa un contadino che è sempre un uomo, ma almeno ha un minimo senso della famiglia e della casa e quasi  tutte le sere ci puoi parlare dei problemi. Ma io dottore dura! Anzi le parole di mia madre sortivano l'effetto opposto. Sotto sotto, me lo facevano ammirare di più, pertanto un po' per dispetto e un po' per l'incoscienza dei venti anni l'ho sposato, ma subito dopo il viaggio di nozze a Venezia tutto quello che aveva detto la mia povera mamma si è avverato. Per farla breve io da sola ho dovuto tirare sui i miei due figli, perché lui non si è mai fatto carico di nulla, non è nemmeno venuto all'ospedale quando la femmina a 10 anni ha fatto l'appendicite. Io da sola, se volevamo mangiare perché i soldi del carbone non erano mai sufficienti, ho preso in affitto un campetto vicino alla casa dove ho realizzato un orto da cui ci tiravo fuori ogni bene di Dio: patate, pomodori, insalata e tutti gli ortaggi possibili. Ho messo su un pollaio, una conigliera, ho allevato il maiale e anche una mucca per il latte, nonostante mio marito mi rimproverasse perché sottraevo spazio a muli che servivano per il suo lavoro. C'è stato un periodo che persino avevo preso in affitto per un prezzo ridicolo, poiché essendo talmente ripido non lo voleva nessuno, un campo dove ci ho piantato il grano....e lo aravo da sola con queste braccia, facendomi prestare i buoi dai miei fratelli. La cosa però che più mi dava fastidio era durante l'estate. In quella stagione le cotture della legna erano ripetute e pertanto spesso trascorrevano anche diversi giorni prima che mio marito tornasse a casa. Verso mezzogiorno, dovevo lasciare tutto quello che stavo facendo per portargli il pranzo su per le creste dei monti. Il più delle volte dovevo correre perché i figlioli molto spesso erano da soli o affidati a qualche vicino. Arrivavo tutta sudata e senza fiato, mai un grazie, invece ogni tanto dovevo sorbirmi qualche rimprovero o lamentela sulla qualità della cucina dei pasti del giorno precedente o peggio ancora, se era molto tempo che non rincasava, ogni tanto pretendeva di soddisfare anche  altri appetiti. Lì in mezzo al bosco, come le bestie.. Per fortuna, poi, con i termosifoni, il carbone di legna non lo comprava più nessuno e quindi ci siamo trasferiti in città dove ci siamo messi a fare le pulizie per i condomini, i figli hanno potuto studiare e la vita è cambiata.......quindi caro dottore, questa è la mia storia, le chiedo scusa se l'ho annoiato, ma ora che sto per morire mi ha conosciuto veramente".  Mentre mi diceva queste ultime parole ho firmato le ricette che erano rimaste incompiute. Mi sono alzato in silenzio, le ho stretto la mano come la prima volta e lei come allora senza parole ha fatto un cenno di apprezzamento. Ancora una volta, nonostante tutto, avevo superato l'esame. Sono salito nell'auto completamente assorto nei pensieri: la donna di allora, le donne di adesso, gli uomini di sempre. Quante Giovanne ci saranno state in Italia! Quante donne come lei avranno retto il tessuto sociale di questa nostra Italia? Non lo so. Io so solo che quel giorno ho avuto una lezione importante, una testimonianza di vita che ho voluto raccontare per suo valore che lascio a voi quantificare.


lunedì 22 settembre 2014

ESSERE O NON ESSERE.DIETA O NON DIETA. Esperienza personale con una dieta chetogenetica

Essere o non essere. Dieta o non dieta.

Era stata una breve vacanza, ma molto diversa dalle consuete: tutte nuove conoscenze, tutte giornate trascorse tra un'escursione in montagna e una sessione di studio. Profonde riflessioni sostenute da una buona e abbondante cucina e da passeggiate su dolci cime sotto un tiepido sole autunnale. Il ritorno invece come gli altri...la solita routine: di nuovo in ambulatorio a convincere e curare i pazienti, le visite domiciliari e le solite ricette.
Sarà stata però la nuova compagnia, sarà stata la complicità della bacheca di Facebook che tutt'un tratto mi sono ritrovato a contemplare la mia figura su una miriade di foto che i nuovi "amici" della vacanza avevano "postato".
                                                        
                                                              KG 118

 " Ma per davvero quello sono io ?" mi sono chiesto mentre ingoiavo la mia saliva per l'imbarazzo. " Quel ciccione? Quell'orribile figura con le braccia appoggiate sui bastoncini da trekking che a mala pena riescono a cingere l'addome gonfio e disteso dal grasso?"
Mi è subito venuto alla mente Vitangelo Moscarda, protagonista del romanzo di Luigi Pirandello: " Uno,nessuno,centomila" che dopo una battuta della moglie non era più capace di riconoscersi allo specchio....anch'io ho chiamato mia moglie per chiederle chi poteva essere quel disgustoso individuo e lei con un sorriso che trasmetteva scherno e compassione  affermò  sicura che quello che io definivo disgustoso individuo, null'altro era se non io. Di sospetti e indizi, in effetti, ne avevo e ne avevo avuti anche tanti. Le stesse passeggiate sulle dolci cime fatte durante la breve vacanza mi erano costate tanta fatica, tanto sudore mentre sino a pochi anni prima le avevo cavalcate quasi senza sforzo: ma sarà frutto della mancanza d'allenamento. I pantaloni che non si allacciano più: ma dipenderà che con il lavarli si restringono. I bottoni della camicia che saltano e le asole che si strappano: ma dipenderà che i tessuti e le cuciture non sono più quelli di una volta. Allacciarsi le scarpe è diventata una fatica e si va in apnea: sarà frutto della vecchiaia incipiente...insomma per ogni situazione una risposta, per ogni sintomo una causa rassicurante e tranquilla.....però! Però! " Quello sono io! Non può essere altrimenti, ma dove sono stato sino ad ora? Io medico che non faccio altro che dispensare consigli e soluzioni. Io che per la medicina dovrei essere considerato un cardiopatico a tutti gli effetti avendo avuto un evento coronarico, una quindicina di anni fa, sono proprio un incosciente... e la bilancia?" La bilancia la vedo e la uso quasi tutti i giorni, ma per pesare gli altri. Ogni tanto mi veniva la tentazione di saltarci sopra, perché da qualche parte una certa vocina me lo diceva, ma poi come Pinocchio schiacciava il proprio grillo parlante  anche io tacitavo in un battibaleno il mio. Questa volta però gli tocca: " 118 Kg! Dio mio! Non è possibile! Per me che sono alto 178 cm, fanno 36,9 d’indice di massa corporea, seconda classe di obesità senza tante discussioni!”.
 Sarà capitato a tutti di trovarsi difronte, anzi dentro, a un problema, a una preoccupazione. Quando tutto il tuo cervello è impegnato da un susseguirsi veloce d’immagini, un turbinio d’immagini che quasi ti paralizza. La concentrazione è impossibile, l’ideazione molto difficile e queste immagini diventano per te incomprensibili, non saresti nemmeno più in grado di definirle perché, di fatto, non le vedi, ma senti solo un sentimento penoso di ansia che ti chiude lo stomaco sino alla gola. Si deve fare una grande fatica, bisogna richiamare a sé tutte le energie per cercare di studiare qualcosa, di trovare una via d'uscita al problema. Di solito ai miei pazienti consiglio di mettersi a dieta...ma quante volte, bene o male, c'ho provato con dei risultati molto aleatori. Nei mesi successivi all'angioplastica coronarica ero stato davvero bravo: smesso di fumare e dimagrito di 8 o 9 kg, ma mentre per le sigarette ero stato di parola con i piaceri della tavola non c'era stato nulla da fare e il conto era semplice...da allora, ho incrementato la mia stazza di quasi 30 Kg. Potrei sentire i colleghi che praticano la chirurgia bariatrica: ho mandato loro due donne cannone che ora sono la metà di quello che erano, ma non sono convinto che possa andar bene anche per me, e poi? L'intervento presuppone un fermo del mio lavoro e della mia vita di tutti i giorni che non ho proprio voglia di fare.....non ci resta che piangere, direbbero Troisi e Benigni.
Adesso che ci ripenso, un mio collega, medico di famiglia anche lui, mi aveva parlato di un informatore medico scientifico che, invece di promuovere farmaci, promuove una dieta.
Una dieta che prevede risultati in breve tempo e senza tanta fatica, e che, se avessi voluto, sarebbe potuto venire nel mio studio per presentarmela. In altre circostanze sono convinto che avrei scrollato le spalle, ma quando ci si sente con l'acqua alla gola, qualsiasi appiglio diventa buono. Vi lascio tutti i preamboli e vengo al sodo.
  Mi è stata presentata non una semplice dieta, ma un metodo che poggia sul principio di una rieducazione alimentare e un regime dietetico oloproteico ed ipocalorico di base che induce una chetogenesi. Tradotto in un linguaggio più semplice, per un certo periodo si devono mangiare solo proteine in modo da indurre la formazione nel sangue di corpi chetonici: l'acetone dei bambini quando hanno la febbre tanto per intenderci, in modo tale che si perde lo stimolo dell'appetito come appunto notoriamente perdono i bambini con l'acetone. Questo garantisce il fatto di non sentire la fame, cosa di non poco conto. Come si formano questi corpi chetonici? Si formano per azione dell'insulina che non avendo più nessun idrato di carbonio, zuccheri, per fornire energia all'organismo si rifà sul  tessuto adiposo, il grasso, quasi sciogliendolo e metabolizzandolo in corpi chetonici. Questo garantisce un rapido calo della pancia e dei posti, dove il grasso è depositato e altera la tua figura e anche questa non è cosa di poco conto. Dati questi presupposti teorici, vediamo com’è stato nella pratica. Qual è stata la mia esperienza personale, perché ora a parlare si fa presto, ma provare a riassumere quello che è stato il mio vissuto, il mio carico emozionale altalenante fra dubbio e preoccupazione, speranza ed esaltazione non è poi così semplice.
Non nascondo che all'inizio uno si sente abbastanza disorientato: trovarsi davanti a quel foglio con tutta la lista della spesa, dover immaginare e programmare i tuoi pasti, ordinarli cercando di conciliare i tuoi gusti e le tue abitudini non è proprio semplice. Perché altro punto fondamentale da recepire bene, è che per un certo periodo ( fase attiva) vanno consumati solo alimenti confezionati: belli e pronti o liofilizzati da ricostruire con acqua e poi cucinati al microonde e  verdure, alcune a volontà  e altre in quantità controllata, tutto condito con poco olio di oliva, succo di limone o qualche goccia di aceto non balsamico e spezie a piacere. Il fatto che siano previsti con questo metodo, eccezion fatta per le verdure, tutti alimenti già preconfezionati, comporta due fatti molto positivi: il primo che ti è impossibile sbagliare e non c'è da ammattirsi per la pesatura delle quantità degli alimenti, il secondo che a differenza di tutti quei prodotti  che potresti comprare da solo nei supermercati, sei sicuro che i grassi siano del tutto assenti. Importantissimo poi, con questo metodo, sempre in questa fase attiva, sono proibiti qualsiasi tipo di idrati di carbonio: niente pane, pasta, dolci per l'amor di Dio e anche niente frutta, né latte e derivati. Vanno consumati solo i prodotti che ordini che poi ti sono comodamente recapitati tramite corriere. Ovviamente io medico ho fatto quasi tutto da solo, ma senza dubbio per chi medico non è, conviene affidarsi a qualche professionista perché ogni abito va confezionato su misura, e ogni soggetto va valutato attentamente sia da un punto di vista clinico, fisico e psicologico. Sarà pertanto il medico anche a consigliare l'opportuno integratore per garantire l' apporto di vitamine e sali minerali per evitare  che possano comparire quelle, se pur rare, complicazioni. Una dieta chetogenica raggiunge il suo obiettivo ed è sempre ben tollerata se ovviamente non si arriva mai all'acidosi e per evitare questo è bene verificare la funzionalità renale, integrare con sali di potassio e calcio e mantenere un flusso urinario elevato bevendo almeno 2 litri di acqua al giorno.
 Quando il corriere mi ha recapitato il voluminoso pacco con i prodotti, per circa una settimana non l’ho aperto nemmeno. Ogni tanto, quando ci capitavo davanti, mi soffermavo a guardarlo aspettando che mi arrivassero le forze per iniziare. Il mio stato d'animo, come sempre capita in circostanze simili, era molto ambivalente e oscillava fra la voglia e la paura di cominciare. Ho avuto un evento coronarico e chissà se farò bene? Ogni tanto per motivi di aggiornamento professionale o per la mia attività di sindacalista mi trovo a mangiare fuori casa e come potrò fare? Nonostante questi dubbi, anche con l'aiuto e i consigli telefonici di colleghi che l'azienda produttrice ti mette a disposizione, finalmente sono partito. Ritornando indietro con la memoria devo dire che una volta iniziato, questo regime dietetico non mi ha dato nessun problema. Organizzarsi è stato veramente semplice e la fame dopo tre o quattro giorni, quella fame lupina che conoscevo bene, non l'ho sentita più. Dopo la prima settimana ti trovi a mangiare perché è ora di pranzo e cena e tutti quelli intorno a te si siedono a tavola e mangiano, ma tu lo fai solo per consuetudine anzi, te ne scorderesti pure. Certo, quando è domenica e arrivano per il pranzo festivo mio padre anziano e tutti miei figli, provo un certo imbarazzo al momento che mia moglie sforna cannelloni o tortellini mentre io mi devo confrontare con gli spaghettini alle proteine di soia, ma questa sentimento di perdita viene ampiamente compensato ogni volta che sali sulla bilancia. La prima settimana ho perso due chili, la seconda ugualmente, poi è stato un crescendo continuo: in media tre e, se poi cominci anche fare attività fisica, sono anche quattro chili alla settimana. In soldoni dopo 6 settimane ero arrivato a pesare 98 Kg e a questo punto ho iniziato a reintrodurre un pasto proteico normale ( fase selettiva), con un etto di carne rossa magra o 150 gr di pesce o due uova, ma è tutto ben spiegato nelle indicazioni che ti vengono fornite . Seguono poi le fasi di reintroduzione della frutta, dei latticini, del pane e poi della pasta. Per farla breve dopo tre mesi dal giorno zero, mi sono trovato con un peso di 92 Kg, una taglia di pantaloni dalla 62 alla 56 e tanto fiato e agilità in più.
                                                       


                                                              Kg   92


 Non solo, anche parametri come colesterolo e trigliceridi si sono abbassati al punto che probabilmente  deciderò  di cessare i farmaci che sto assumendo. A questo punto però si deve mantenere, meglio se migliorare ancora tali traguardi. Devo dire che a distanza di un anno sono tornato al peso di 96 Kg, ma in mezzo c'è stato un Natale, una Pasqua, un'estate con vacanza in villaggio turistico e tante sagre dove il mangiare è l'occasione socializzante e pertanto mi sento ancora soddisfatto.....ma non mettiamo limiti alla provvidenza. Sto pensando di ricominciare per un po', l'obiettivo è quello di arrivare sotto i 90 Kg, perché al contrario di Vitangelo Moscarda di Pirandello che alla scoperta della propria immagine, meglio, di come lo vedevano gli altri, reagì ritirandosi in se stesso e allontanandosi dalla vita reale in un isolamento patologico, a me è successo il contrario: mi sono buttato nella vita sociale e relazionale ancora di più.

                                                             

                                                                        Kg 96

martedì 2 settembre 2014

IO MEDICO, TU PAZIENTE. LA TUA STORIA, LA NOSTRA STORIA....DALLA NOSTRA RECIPROCITÀ LA NOSTRA CURA. Mio contributo alla III Vacanza Studio AIEMS . Spoleto 1 settembre 2014

Ancora ricordo perfettamente l'inizio della mia avventura. Era il mese di febbraio 1978, uscii di casa indossando un " Principe di Galles" comperato la settimana prima. Una cravatta in tweed su una candida camicia, la borsa che odorava ancora di pellame appena uscito dalla conceria riempita con tutto lo strumentario. Salito sulla mia " Fiat 127", regalata dai miei genitori qualche mese prima, per la laurea, mi voltai un attimo  per guardare la mia casa paterna senza pensare che quella sarebbe stata l'ultima volta che l'avrei vista con quegli occhi. E già, mentre la vita scorre con flusso continuo e inarrestabile non sempre si riesce a " fermare l'attimo", non sempre, anzi quasi mai si ha la percezione, chiamiamola storica, dell'istante che stiamo vivendo. Come la nostra vita in quel momento subisca le nostre scelte, le conseguenze e le inferenze che si producono quando decidiamo, il più delle volte in modo inconsapevole, ciò che in quel momento è giusto fare o non fare, oppure con quale persona in quel momento decidiamo di parlare, ascoltare o evitare.
Il mio amico Boria nel breve ma pregnante saggio :" Il ricordo inventato che noi siamo" chiarisce come la nostra memoria, il senso della nostra identità, non siano qualcosa di perennemente consolidato e stabile, ma variano costantemente con il trascorrere del tempo, con l'intersecarsi delle esperienze e delle relazioni con gli altri umani. E' proprio così. Rivediamo un film già visto, andiamo sulla stessa spiaggia di qualche anno prima, incontriamo per caso un vecchio amore o una vecchia amica....quali emozioni? Quali sensazioni? Non certo quelle di allora, di qualche anno fa. Qualche parte di te le ricerca, vorrebbe forse riviverle, ma nulla da fare! Il libro, la spiaggia, l'amica forse no, sono quelli di allora, ma tu sei sicuramente cambiato, sei diverso. Non sei più quello di prima. La mia casa paterna è sempre là, nella sostanza i muri ed il tetto sono sempre quelli, ma da quella mattina, un lunedì del febbraio '78 non è stata più la stessa.
Nel passato l'ingresso in società, l'ingresso nell'età adulta e nel mondo del lavoro era preceduto da un periodo abbastanza lungo di "iniziazione": apprendistato, tirocinio che ti preparava ad affrontare i "perigliosi" itinerari successivi. Di solito seguivi un maestro che ti insegnava qualcosa che andava oltre la preparazione di base: i trucchi del mestiere, come affrontare gli imprevisti, come risolvere situazioni critiche e poi era lui che decideva quando era giunta l'ora di sganciarti, quando era arrivato il momento di farti andare avanti da solo con le proprie gambe. Adesso invece ci sono, almeno per noi medici, dei traguardi ufficiali: laurea, specializzazione, tirocinio pratico ospedaliero o dal medico di medicina generale che sanciscono un titolo formale che però molto spesso può non corrispondere a uno stato di fatto. Avere una laurea in medicina non corrisponde sempre ad "essere" un medico. Per il mondo sei un professionista abilitato a risolvere i problemi di salute della gente mettendo in pratica tutte le teorie e le tecniche che hai appreso in maniera scientifica e che sempre in maniera scientifica dovrebbero essere applicate, ma qui "casca l'asino" direbbe la mia vecchia insegnante di lettere del ginnasio.
Lasciando la casa paterna, per me così è stato, lasci dietro alle tue spalle una realtà: la tua realtà fatta di cose a te note, ovvie, semplici e lineari. Tutto il tuo mondo e le tue relazioni, sino a quel giorno,  erano comprese nell'ambito familiare e con le persone che condividevano i tuoi vissuti per contiguità sociale o cronologica. Ad ogni parola corrisponde una categoria precisa e indiscutibile nella sua essenza, nel nostro discorso, pertanto, categorie come la salute e la malattia avevano per te un significato, un concetto da cui deriva un comportamento chiaro e limpido come la luce del giorno. Credi di sapere quello che è giusto, hai la convinzione che l'orientamento indotto dai tuoi punti cardinali per te incarnati, non possa essere messo in discussione e pertanto vai sicuro e fiducioso. Passano i giorni, si avvicendano le sedute ambulatoriali, si susseguono le visite ed i contatti con i malati, con i pazienti, con la gente e il tuo Principe di Galles è sempre più sgualcito, la tua camicia sempre meno candida e hai sciolto il nodo della cravatta per toglierla e buttarla, non ti ricordi più nemmeno dove. Sui libri e anche in ospedale ti sembrava tutto ordinato e logicamente allineato: i sintomi, i segni, la diagnosi e la terapia. Questi sono i presupposti e queste le logiche conseguenze. Questa è la malattia e questa la terapia, una risposta ad ogni domanda ed un comportamento coerente reciproco: io sono il dottore e tu sei il paziente, io detto le regole e tu le esegui e ti comporti di conseguenza. Più passa il tempo, però, più ti accorgi che non è così. I sintomi non tornano, spesso non coincidono con i segni e sempre più spesso ti congedi dal paziente senza aver capito, scusate il giuoco di parole, che cosa hai capito, sull’opportunità e la pertinenza delle scelte fatte, perché? Perché fra la teoria e la pratica spesso c'è un abisso e spesso non si riesce proprio ad avere una comprensione della malattia del paziente. Col passare dei giorni ti accorgi che non esistono veramente le malattie, ma i problemi che i pazienti ti propongono, anzi molto spesso ti trovi il paziente che non è neppure in grado di proporti il problema ed ecco allora che sei costretto a comportarti in maniera diversa da quello che ti avevano insegnato, da quello che avevi imparato e da quello che eri. Ti rendi conto come talora il trucco consista  nel far parlare il paziente mentre tu lo guardi e lo ascolti e lo lasci raccontare e gli lasci dire la sua storia.
"Dottore" mi dice Lorenza" è tardi e sono fuori orario ma mi fa ugualmente?" Annuisco in silenzio, vorrei dirle di tornare domani, che sono stanco, ma Lorenza è una donna che non viene quasi mai, la classica lavoratrice autonoma e madre di famiglia che difficilmente trova il tempo da dedicare alla cura della propria salute. “Non le farò perdere tempo dottore, mi serve solo la richiesta per fare tutte le analisi". E' tardi, non ho più voglia di far nulla e quasi meccanicamente cerco la sua scheda sul personal computer per stampare questa benedetta prescrizione senza minimamente chiederle il perché. Di solito non ammetto per i miei pazienti il self service sanitario, ma a quest'ora qualsiasi richiesta è lecita pur di finire alla svelta. Mentre, sempre distrattamente, sto firmando le richieste, Lorenza rilancia:" Sa dottore, è da un po' tempo che ogni volta che passo davanti ad un bar mi viene da svenire, chissà che malattia sarà?". A questo punto, se dovessi raccogliere l'anamnesi come mi hanno insegnato all'università, non credo che potrei avere carte da giuocare se non quella di far finta di niente, mi farebbe anche comodo in questo momento, o quella di dire che ciò che mi sta riferendo non ha alcun senso per me e forse per tutta la Medicina.
Vuoi però per curiosità, vuoi però perché a questo punto  ( sono passati diversi anni da quando ho lasciato la casa paterna)  l'esperienza ti dice di stare attento, non tanto per quello che ti dice, ma per il contesto: paziente che non si vede mai, che capita a fine seduta quando la sala d'aspetto è oramai vuota, che richiede di fare "tutte" le analisi, che reagisco:" La capita davanti a tutti i bar o solo davanti ad un unico bar?" Pensando fra me e me che ci possa essere qualche strana associazione mentale con un bar come luogo o con un barista come persona.
" Davanti a tutti i bar" replica lei. Il discorso si fa ingarbugliato però insisto: " Ha idea per caso su cosa di specifico, che abbia a che fare con il bar, la faccia arrivare al punto di svenire?". " L'odore del caffè "mi risponde.
"Allora non è il bar in sé che la fa svenire, ma l'odore del caffè......... quindi anche a casa se suo marito mette sul fuoco la caffettiera?”. “Proprio così, da circa due o tre mesi a questa parte”.” Ma le verrà nausea, sensazione di vomitare non di svenire addirittura?" replico. "No, no, mi viene proprio da svenire!". A questo punto sono veramente in crisi, non so proprio a che cosa attribuire  questo sintomo, ma mi viene un'idea:" Mi dica signora, ma per lei questo problema che cosa significa?". Qualche interminabile secondo di silenzio e con gli occhi lucidi e sotto voce mi risponde:" Mia cognata cominciò così! Con il fastidio del caffè!". "E poi?" incalzai. " E poi si venne a scoprire che aveva un cancro all'intestino". " E allora?". " Ed io sono circa due o tre mesi che vedo del sangue nelle feci....". A questo punto il ragionamento clinico "ortodosso" acquista "dignità" e parte tutto il percorso previsto per una rettorragia.....
Rettorragia: parola tecnica, scientifica, ogni medico conosce il valore clinico di questo sintomo, ma è sempre consapevole di quali siano i vissuti e la comprensione del paziente rispetto a questo sintomo e la comprensione del medico rispetto a questo paziente? Quale il significato poi per quel paziente, quale significato nel nostro caso per Lorenza? Proviamo ad affrontare alcune ipotesi.
Lorenza è una donna di una cinquantina d'anni, sposata ad un artigiano con un figlio oramai laureato che vive ancora in casa. Gestisce una piccola lavanderia che la occupa a tempo pieno e pertanto non capita quasi mai di vederla in ambulatorio ed il suo rapporto con il mondo sanità è quasi inesistente in quanto per sua fortuna gode di buona salute.
Ha avuto una cognata che è deceduta per un carcinoma del colon e " in famiglia" si è consolidata l'associazione mentale fra questa patologia con l'avversione al caffè, poiché questo, a dir loro, sarebbe stato il suo sintomo d'esordio. Sono convinto, questa è quasi una regola, che Lorenza abbia fatto passare diversi giorni prima di dare importanza al suo rapporto con il caffè che è diventato poi una vera e propria repulsione "organismica" nel momento in cui si è accorta del sangue nelle feci che ha scatenato la traccia mnestica. Per un medico, soprattutto se indaga sui sintomi degli altri e non sui propri, sarebbe stata la cosa più logica e naturale aspettarsi dalla paziente il riferimento, magari con parole non scientifiche, ma comunque diretto del sintomo rettorragia, ma così non è stato. Lorenza ha preferito  girarci intorno, perché? Perché ha scelto di contestualizzare il sintomo in modo tale da dovermi far fare quasi un'esegesi delle sue immagini mentali? La risposta precisa non l'avremo mai, probabilmente lo ignora anche lei e pertanto possiamo fare solo alcune illazioni.
Fra tutte le ipotesi che potrebbero entrare in campo: pudore, scarsa cultura ed altro, quella della paura potrebbe essere la più probabile. La paura di una malattia incurabile per qualcuno comporta una vera e propria incapacità, un blocco, quasi una paralisi ad affrontare il problema anche solo in termini verbali per evitare, poi, anche quelli operativi di diagnosi e cura. La domanda che poi come medici ci viene spontanea è quella se con la raccolta di un'anamnesi "tradizionale", con una serie, cioè, di domande dirette e abbastanza chiuse, ma incalzanti, saremmo arrivati ugualmente al sintomo rettorragia? Probabilmente si, ma solo con un atto di coraggio della paziente e probabilmente non subito ma nei contatti successivi: durante la visita per farmi vedere le analisi o per il persistere o l'aggravarsi del sintomo. Si sarebbe forse perso del tempo, senza dubbio avremmo prolungato lo stato di angoscia di Lorenza oppure, l'angoscia avrebbe prevalso al punto tale che la paura di un’eventuale realtà scomoda avrebbe ritardato, chissà per quanto tempo ancora, il dover affrontare il sintomo.
Passiamo ora sul versante mio, sul versante dell'essere medico e come tale ho gestito o avrei potuto gestire il problema e i significati del problema di Lorenza.
Ho da poco terminato di leggere :" Il professionista riflessivo" di Donald A. Schon e ho trovato molti momenti di riflessione. Dato il titolo non poteva essere diversamente.
L'autore ha chiarito molto bene come ad un vero professionista sia necessario per poter affrontare e risolvere i problemi che si presentano sempre in modo diverso e complesso mettere in campo una "nuova epistemologia della pratica professionale".
Schon afferma che il professionista abile è colui che va oltre il modello della "razionalità tecnica" scientificamente appresa durante la propria formazione, ma sfrutta e sviluppa dei comportamenti basati sull'intuizione e sulla creatività. In altre parole si rafforza il concetto che durante la pratica quotidiana, la risoluzione dei problemi sempre " aggrovigliati e contorti" passa attraverso una " riflessione durante l'azione " che sospende il rigore scientifico perché potrebbe non risultare pertinente per la risoluzione del problema. Bellissima è la similitudine degli abili professionisti con i bravi musicisti che improvvisano mentre suonano il Jazz:" ascoltandosi reciprocamente e ascoltando se stessi, sentono in quale direzione sta andando la musica e di conseguenza adattano il proprio modo di suonare... L'improvvisazione consiste nel variare, combinare e ricombinare un insieme di motivi all'interno dello schema che definisce i limiti dell'esecuzione e le dà coerenza". Quindi il professionista riflessivo non è un mero esecutore di schemi scientifici preordinati e stabiliti secondo dei criteri oggettivi, ma è uno che partecipa attivamente sul problema poiché lo vive e cerca di comprenderlo. Si comporta di fatto come un agente-sperimentatore in un " processo transazionale, indeterminato e intrinsecamente sociale".
Quanto è lontano il modello del medico freddo e volutamente distaccato che ci hanno insegnato all'Università? Chi mai ci ha insegnato a improvvisare? Chi mai ci ha insegnato a condividere il vissuto e il significato del problema del paziente? 
Chi ci ha mai detto come raccogliere le descrizioni dei problemi, le descrizioni delle storie dei nostri pazienti e quale il nostro ruolo e la nostra partecipazione?
Quasi tutti medici, faranno eccezione gli psichiatri, sono convinti che raccogliere un'anamnesi, parlare e stare ad ascoltare quello che racconta un paziente sia un fatto "semplice", monodirezionale: un soggetto narrante che espone la propria esperienza di malattia ( il paziente) ed uno che ascolta ( il medico). Pochi si rendono conto, invece, che chi ascolta non è assolutamente passivo, ma un soggetto che a sua volta partecipa in maniera attiva alla costruzione del racconto dell'esperienza di malattia.
Non voglio addentrarmi in considerazioni troppo specifiche su problematiche filosofiche che in questo momento mi affascinano, ma che non mi sento in grado di poter gestire in modo adeguato. Tuttavia ritengo che ogni medico, ogni operatore sanitario debba avere un minimo di consapevolezza che per arrivare alla vera comprensione della storia, del racconto di un paziente sia necessario partecipare con tutto se stesso e capire come la malattia risulti alla fine come " un testo" da interpretare, nel senso ermeneutico del termine, per cui il medico diventa da semplice ascoltatore ad un co-autore e tutto questo è possibile per mezzo del linguaggio che pertanto "non descrive la realtà ma la costruisce" ( Gadamer U.G.)
Lorenza viene in ambulatorio con il suo carico di angoscia e problemi, io sono lì con i miei problemi e le mie insofferenze. Lorenza, per paura nel dover affrontare i propri sintomi o forse anche intimorita dal mio atteggiamento iniziale, offre in maniera timida il suo problema, io con miei "pregiudizi" sul contesto accetto la sua offerta e mi apro alla sua comprensione. Attraverso il nostro dialogo co-costruiamo una realtà ed alla fine io e lei non siamo più quelli di prima, ma attraverso il linguaggio ed uno scambio empatico siamo riusciti a costruire un legame e dei percorsi che vanno oltre a quelli professionali  di medico e paziente.
Cosa posso dire ora, quando ogni tanto passo davanti alla mia casa paterna, a quel giovane vestito con il "principe di galles" e con la borsa che ancora odora di pelle appena uscita dalla conceria? Non direi niente, un sorriso ed un pensiero:" Gettati nella mischia e fatti le tue esperienze improvvisando anche e ascoltando te stesso il più possibile"



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