mercoledì 18 giugno 2014

IO, LA MONTAGNA E IL RESTO..... pubblicato sulla rivista IN CAMMINO n.10 del CAI seniores anno II n.10

IO, LA MONTAGNA E IL RESTO......

A ben pensarci sino a quel momento la mia vita scorreva come scorrono le immagini di un film visualizzate in modalità "avanti veloce"  di un VHS o di un CD. Tutto scorreva senza possibilità di soste, di ripensamenti e riflessioni. Era giusto e normale: il lavoro, la carriera, il dover provvedere alla famiglia, i bisogni dei pazienti, preparare un futuro.......poi......fermo!
Tutta quella corsa, tutto quel turbinio.....in un attimo. Un dolore violento al petto. Una sudorazione fredda. Una sirena che suona ed il mio corpo che va ancora veloce, ma non sono più io che vado e conduco. Ora sono trasportato e condotto, chissà per quale direzione e viaggio, ma che importa oramai.
Per volontà del Buon Dio o della sorte, non lo so, sono di nuovo a casa mia. Tutto però è diverso. Mi è stato detto di stare a riposo, mia moglie mi ha sequestrato le chiavi dell'automobile, i miei colleghi mi hanno trovato un sostituto. Tutto è passato e andato per il meglio, però...però! Va bene, va bene: via le sigarette, mettiamoci pure a dieta, restiamo per un periodo lontano dallo stress e vediamo di fare anche un po' di movimento e attività fisica, sarà proprio il caso di cominciare.
Il "percorso verde" del Pian di Massiano di Perugia sta lì oramai da diverso tempo. E' senza dubbio l'ideale: pianeggiate, ombroso, pieno di gente.....tanta gente, anzi, troppa gente. Ogni dieci passi sono costretto ad una sosta per salutare questo o quell'altro: conoscenti, vecchie compagnie che non vedevo da anni, miei pazienti cardiopatici che mi danno il benvenuto fra loro. Non è possibile! Tutto questo mi infastidisce, starò per diventare misantropo, ma è meglio allontanarsi un po'. Proviamo a prendere la strada che sale su per monte Pulito, è in salita, è vero, ma che sarà mai! Non senza timore arrivo sul pianoro di Città della Domenica e davanti a me si stende il panorama della mia Perugia che sembra non si sia minimamente accorta di quello che mi è capitato.....alla mia destra scorgo San Sisto  e Madonna Alta. il familiare profilo ondulato della città è interrotto dai campanili di San Pietro, San Domenico. Sulla sinistra il quartiere di monte Grillo e ancora più a sinistra l'arrotondata cresta del Monte Tezio......quante volte avevo detto a me stesso di andarci e non ho mai trovato il tempo. Quasi, quasi! Appena fatto l'elettrocardiogramma sotto sforzo, se i cardiologi mi danno il via, mi organizzo.
Sono con Ettore, in montagna è bene non andare da soli. Parcheggiamo l'auto nei pressi del cancello dove inizia il Parco del Monte Tezio: scarponi che fasciano le caviglie, abbigliamento a "cipolla", zaino con dentro di tutto e di più, bastoncini telescopici e l'avventura può iniziare.
La salita è sempre la salita, anche se non eccessivamente ripida, lo stradone che arriva sino a quel casotto di pietra  da dove poi si dipartono tre percorsi, sale su "diritto per diritto" e senza un minimo di riscaldamento le gambe sembrano troncarsi, anche il respiro si fa pesante e senti il cuore battere nelle tempie......speriamo bene! Con la scusa di bere mi fermo e cerco di riprendere fiato e tranquillizzare me stesso....va tutto bene e possiamo seguitare a salire su per la carrabile che si inerpica a serpentone per il fianco del monte. Man mano che si susseguono i tornanti il fiato migliora, non si sente più il martellare del cuore e l'ansia sparisce lasciando il posto ad una sensazione di piacere. Il piacere dato dalla vista degli alberi e degli arbusti, dal profumo di bosco che sa di muschio umido della guazza del primo mattino, dal cinguettio degli uccelli e dall'abbaiare lontano dei cani, il fruscio del vento.....poi tutto sparisce, tutto seguita ad esistere, ma tu sei da un'altra parte: il cervello ritorna a quella sera, all'ospedale, mia moglie, il mio lavoro.....ma non c'è più quell' angoscia di prima, sembra tutto calmarsi, anche le immagini di quella notte sembrano come se sia calata una specie di nebbia, i ricordi sembrano anestetizzati e anaffettivi.....Ma guarda! Siamo arrivati ai prati sommitali. Qualche mucca qua e là, l'erba profuma di verde e quel po' di brezza che in cresta non manca mai rende fredde le tue guance e le tue mani che contrastano con il calore del resto del corpo bagnato dal sudore. Gli ultimi passi e siamo in cima. Che spettacolo! Davanti a me il profilo dell'Appennino: il  monte Nerone, il Catria con il suo Corno, il Cucco ed il Serra Santa e dietro il Subasio si profilano, sfumati dalla foschia, i Sibillini. Mi giro ed alle mie spalle monte Malbe e poi di seguito l'inconfondibile orizzonte del Trasimeno con l'isola Polvese e dietro la sagoma dell'Amiata e del Cetona. E' stata una fatica, ma la visione del mio territorio dal tetto mi ripaga. Il vento muove l'erba come a formare delle piccole onde del mare, il cielo è un celeste timido ed il sole non è ancora alto, i rumori naturali della montagna fanno da sottofondo piacevole e posso rilassarmi....sono soddisfatto. Soddisfatto di essere in cima e soprattutto di avercela fatta. Posso chiedere ancora qualcosa al mio cuore e anzi, mentre inizio a discendere, mi giro ancora a guardare i monti all'orizzonte con sfida: aspettatemi che adesso tocca a voi.
La sfida è continuata e continua ancora. Il Tezio è stata la mia partenza, il Subasio la mia presa di coscienza e poi sono arrivate in processione tutte le cime dell'Umbria. Ho affrontato anche percorsi impegnativi come le  vie ferrate delle Dolomiti del Brenta e persino il ghiacciaio del Cevedale ed ogni volta si ripete la stessa storia: sfida, ansia, piacere, preoccupazione....insomma è un'ambivalenza continua fra il fare e il non fare, volere e non volere. Quante volte mentre senti mancare il fiato e le gambe spezzarsi ti chiedi perché? Quale motivazione nel  "tribolare" e spesso rischiare? Mio padre quando parlo delle mia escursioni, dei miei pernottamenti nei rifugi fra russamenti e cattivi odori, delle "cappellate" d'acqua durante gli acquazzoni che non ti danno possibilità di scampo e della paura dei fulmini durante un temporale che ti sorprende in quota mi ripete sempre:" Chi te lo fa fare?" Non rispondo. Non rispondo perché non ho risposte razionali, sapendo che probabilmente mi può capire solo chi condivide certe esperienze e certe passioni. Provo a rispondere narrando un'escursione, una delle prime fra quelle un po’ impegnative, che senza dubbio è più eloquente di tante affermazioni astratte e quasi banali, di circostanza.
E' oramai estate inoltrata, ma è una di quelle estati piovose con un caldo vero che non arriva mai. Una di quelle estati tipicamente umbre dove la notte ed il mattino presto fa sempre "fresco" e un maglioncino a portata di mano fa sempre comodo. Insieme a quattro o cinque colleghi parcheggio l'auto a Forca di Presta con l'obiettivo di arrivare daccapo al Vettore. E' la mia prima salita alla cima più alta dell'Umbria, anche se dovrei dire delle Marche, e la cosa sotto sotto come al solito, da una parte mi affascina e dall'altra mi preoccupa. L'aria dei Sibillini a quest'ora di primo mattino è piuttosto frizzante e un po' di nebbiolina rende l'atmosfera delicatamente misteriosa. Mentre saliamo con passo lento e deciso, il silenzio viene ogni tanto  "sfessurato" da un non lontano rintocco di campanaccio di mandria o da qualche colpo di tosse. Ben presto il corpo si riscalda e arriva la mia familiare sudorazione da sforzo, il fiato comincia a stabilizzarsi e tutto il resto del corpo si mette in sintonia con quello che c'è intorno e con quello che devo fare. Ogni tanto uno sguardo indietro per capire quanta strada hai fatto ed uno sguardo in avanti in alto per capire quanta ne devi fare ancora.... ecco,  comincia a far capolino il profilo del rifugio Zilioli, ma accidenti! Quanto è lontano.....forse stavolta non ce la faccio! Me lo avevano detto che era tutta una pettata diritto per diritto, ma non pensavo proprio così! Come al solito io e Sandro che siamo i più pesanti chiudiamo il gruppo, ma vedo che questa volta anche i più bravi non ci hanno staccato più di tanto. Siamo oramai abbastanza vicini alla sella dove si impianta lo Zilioli e la mulattiera si è fatta ripidissima e con il fondo tutto scoglio, spolverato da un brecciolino, che ti fa scivolare che è una bellezza. Con passo cauto arriviamo finalmente al rifugio, dove posso riprendere fiato e bere dalla borraccia. Alla mia sinistra la Cima del Lago, davanti in lontananza la Sibilla con la sua fiancata sfregiata dalla carrareccia che forma la zeta di Zorro, alla mia destra la cima del Vettore vero e proprio. Mentre iniziamo a riprendere il cammino sento che il gruppo discute sulla possibilità di scendere al lago di Pilato e passare per Forca Viola per tornare, ma non si rendono conto  che diventerebbe un giro immenso. Durante la breve salita dalla Sella delle Ciaule  alla vetta si alza un vento abbastanza forte da costringerti ad indossare il giacchetto. Quando sei sul pianoro di cima, il sentiero si perde in mezzo alle rocce basse. Tutto il gruppo che marciava quasi in fila indiana si apre a ventaglio ed il vento diventando più forte crea quell'incantesimo strano di isolamento, non senti più infatti i rumori degli altri, resti solo con i tuoi pensieri, con il vento che fischia negli orecchi, con le gambe che rinvigoriscono vedendo l'approssimarsi della meta. Arrivo al cospetto di una bassa Croce issata su uno speroncino. Alla base qualche fiore appassito, quello che resta di qualche statuetta sacra logorata dalla pioggia ed il gelo...una targa di lamiera su cui è scritto:" Tante strade portano a Dio, una passa per qui".....Sento il respiro tornare affannoso, la muscolatura del viso e delle spalle irrigidirsi...che succede? Mi accorgo che sto piangendo, sto singhiozzando e lacrimando come un bambino! Spero che gli altri non se ne accorgano.....ma poi che mi frega! Il vento ha reso il cielo terso e limpido di un azzurro incredibile, davanti a me si erge maestosa e imponente la parete della Cima del Redentore, alla mia destra comincia a scendere la Cresta del Torrone ed io sento il mio cuore battere forte per l'emozione...E' questa emozione, è questa sensazione di pace e di conquista dopo la tempesta che ti spinge sempre ad andare su, a salire, ad arrivare sulla cima. Ti senti sul tetto, all'apice......più vicino a Dio.







mercoledì 11 giugno 2014

ANZIANI,MEDICINA GENERALE,MEDICINA DELLA COMPLESSITA'. EDITORIALE Pubblicato sullaSISTEMA SALUTE LA RIVISTA ITALIANA DI EDUCAZIONE SANITARIA E PROMOZIONE DELLA SALUTE già Educazione Sanitaria e Promozione della Salute vol. 58, n. 1, gennaio-marzo 2014

Anziani, medicina generale, medicina della complessità
Elderly, general medicine, complexity medicine
Tiziano Scarponi




Sono oramai quasi 40 anni che mi prendo cura dei miei pazienti come medico di famiglia.
Ogni mattina quando attraverso la sala d’aspetto del mio studio li passo in rassegna come fa un capitano con i propri soldati. Li riconosco tutti, uno dopo l’altro: il mio Danilo, la mia Antonia, la mia Elide, il mio Tommaso....... Con tanti abbiamo combat- tuto insieme molte battaglie e siamo oramai dei veterani. Ci intendiamo al volo, basta uno sguardo e cominciano a raccontare storie, ognuno la propria... storie di dolore... di vita vissuta. Sono storie lunghe, interminabili, a volte ripetitive, perché sono storie di vecchi.

Questa breve narrazione rappresenta fedelmente i frequentatori abituali degli ambulatori dei medici di medicina generale: gli anziani.
Mi trovo in difficoltà nell’affrontare quest’argomento perché mentre sto scrivendo, la mia mente si affolla di immagini e di sensazioni che non permettono di esprimermi in maniera pacata e scientifica. Qualche parte di me, senza dubbio, si sente oramai coinvolta. E’ facile parlare di qualcosa o di quel problema per te lontano, ma come quel qualcosa e quel problema cominciano a sfiorarti, anzi cominciano a permearti e a farti sentire parte di quella categoria, allora risulta sempre più difficile categorizzare ed essere oggettivamente riduzionisti, ma ci proverò.
Non è mia intenzione affrontare il problema della prevenzione della disabilità, della differenza semantica fra vecchio e anziano e quelle che sono le norme generali d’igiene, di corretti stili di vita che di solito rimandano a una vecchiaia più fisiologica possibile. Senza dubbio sarebbe in linea con la filo- sofia di questa rivista, ma colleghi e figure molto più qualificate della mia probabilmente lo faranno, quello che a me preme è far emergere cosa significhi oggi per un medico di medicina generale prendersi cura degli anziani.
Subito dopo la laurea, appena cominciano i primi contatti con i malati, qualsiasi medico inizia a tirar fuori dalla propria mente tutte quelle categorie, chiamate malattie, apprese durante il proprio corso universitario. Con queste stesse lavora, nel senso che cerca tutte le corrispondenze di queste con quello che osserva o viene riferito: questo è pertinente, questo non è pertinente, anzi questo è proprio impertinente. L’obiettivo è di una diagnosi e conseguentemente di una terapia. Il nostro giovane medico, però, si rende presto conto che questo metodo non lo aiuta più di tanto, soprattutto se si trova a lavorare fuori dall’ambiente “protetto” dell’Ospedale e con pazienti che sono pieni di affermazioni non “congruenti” con le categorie apprese durante gli studi universitari. Più si va avanti e più il Nostro deve districarsi tra storie e narrazioni di dolori non ben inquadrabili, racconti di paure e di sogni, di fallimenti esistenziali e di traguardi raggiunti. Ben presto si rende conto che il diabete, l’ipertensione, il cancro erano una cosa mentre ora, il diabetico, l’iperteso ed il paziente neoplastico sono un’altra cosa e se poi tutte quante queste cose abitano tutte insieme in un unico individuo si crea ancora un’altra cosa.
Quello che intendo dire è che il paziente anziano oggi ha determinato il capovolgimento di quasi tutti i paradigmi che hanno inspirato, sino a pochi decenni fa, tutta la scienza medica e la modalità assistenziale, anzi, l’anziano rappresenta oggi il paradigma: il paradigma della complessità.
La complessità è oramai la realtà quotidiana. Una realtà che sta imponendo il dover riscrivere cosa significhi fare il medico e prendersi cura oggi, anche se non si tratta di una rivoluzione, ma di una naturale evoluzione.
Non ci sono più, infatti, i malati di una volta con un’età media di 50 anni, con un’unica o al massimo due patologie, ossequiosi e quasi timorosi nei confronti di medici ed infermieri. Ora il paziente medio ha oltre i settanta anni di età, è acculturato per studi o almeno ben informato sui suoi diritti, è portatore di più patologie contemporaneamente e con molteplici possibilità terapeutiche da poter esperire. Anche il concetto di salute è ontologicamente cambiato: non più l’assenza di malattia, ma una soggettiva percezione di benessere e sufficiente fun- zionalità di se stessi nel proprio ambiente. In altre parole il saper convivere con la propria comorbidità anche in relazione ai propri vissuti e alle proprie narrazioni di vita ed al proprio grado di resilienza. Un approccio complesso, pertanto, manterrà fede all’etimologia stessa della parola, dal latino complector che significa cingere, abbracciare, legare, tenere insieme. Complesso, quindi, non significa complicato, ma un approccio che tende a legare in modo multidimensionale condizioni morbose diverse tra loro ma interagenti, che danno un quadro clinico che non corrisponde alla somma delle parti, ma ad un quadro clinico unico per quell’individuo e solo per quello. Ne consegue che l’approccio complesso non è solo evidence based ma anche patient oriented. Nella visione meccanicistica e riduzionistica, l’uomo ridotto ad organismo, viene smontato in tante parti, organi, ed ogni malattia corrisponde ad un guasto di quell’organo che deve essere aggiustato e poi rimontato. In una visione complessa, invece, l’umano è visto come una quantità di sistemi interagenti ed interferenti fra loro in modo auto-regolante e che tende ad un equilibrio omeostatico difronte alle varie perturbazioni che si presentano nel tempo. E’ logico pertanto che durante il divenire del sistema, ci saranno dei cambiamenti, degli aggiustamenti che porteranno a livelli di complessità crescente pur mantenendo i livelli di coerenza del sistema stesso e “... la maturazione di questo nuovo approccio ha come conseguenza l’evoluzione da un modello di medicina basata sulle evidenze, di tipo essenzialmente “reattivo”, a una medicina pro-attiva, basata sull’individuazione dell’intera rete di relazioni che comporta l’espressione nel tempo delle varie manifestazioni patologiche e sull’inclusione degli effetti dell’interazione e perturbazione reciproca tra medico e paziente nella costruzione della cura.
Appare evidente, a questo livello di osservazione, che l’intervento terapeutico è mirato alle proprietà organizzative dei sistemi complessi che esprimono coerenze di “salute” o “malattia” e diventa essenzialmente preventivo...” (C. Pri- stipino 2013).
Questa visione del prendersi cura di un soggetto, comporta a dover considerare e a “modellizzare” oltre che i determinanti biologici e psichici di una malattia, anche le relazioni e le interazioni dinamiche che questi determinanti possono avere, le loro connessioni e l’importanza che hanno nel condizionare lo stato di salute di un individuo. Tutto questo con l’obiettivo di stratificare una strategia di assistenza per quanto più possibile unitaria, passando da un modello di medicina impersonale centrata sulla singola malattia ad un modello centrato sul malato su cui l’intervento del medico e del sistema sanitario e sociale è quello dell’induzione di nuove relazioni e interazioni che tendano a favorire l’equilibrio omeostatico. Ecco pertanto che il medico con la sua relazione diventa parte integrante della cura stessa ed anche il paziente non è più solo un obbediente ai dettami o ai consigli dei pro- pri curanti, ma diventa protagonista attivo nel mantenimento del proprio stato di sa-
lute. Qualcuno (Hood, L., and Flores, M, 2012) ha definito questo tipo di medicina “P4 medicine” perché basata su 4 concetti: predizione, prevenzione, personalizzazione e partecipazione. Predittiva perché permette di prevedere a quali rischi patologici un individuo possa andare incontro e quale sia la medicina migliore sfruttando tutte le possibilità che la System Biology possa offrire: genomica predittiva e farmacogenomi- ca, studio dei fenotipi complessi. Preventiva significa mettere in atto tutti quegli interventi relazionali e di sistema che mantengano o generino salute secondo anche quelle che sono gli intendimenti e gli obiettivi del paziente partendo anche da una diagnostica “omica”. Personalizzata sta per la reale possibilità di tarare la cura su quella persona partendo dalla sua storia le sue relazioni e le sue caratteristiche genetiche, genomiche e biochimiche. Partecipata, questo è un aspetto basilare. Una partecipazione attiva e di reciprocità fra medico e paziente che possa far sviluppare l’empower- ment, quindi l’autoconsapevolezza e l’autogestione.
Come si traducono nella pratica quotidiana questi concetti? Partendo da questi presupposti, a questo punto, diventa inevitabile dover affrontare l’argomento complessità dal punto di vista organizzativo e di “sistema” assistenza. Qui, però, mi fermo alla definizione dei principi basilari. La realizzazione di percorsi diagnostici assistenziali che garantiscano: un approccio proattivo, una gestione integrata, coordinata, multiprofessionale e la continuità assistenziale ospedale- territorio.
E’ ovvio che a causa della continua evoluzione dell’approccio complesso da un punto di vista scientifico ed attuativo, risulta quasi impossibile proporre dei modelli gestionali consolidati e collaudati.
Per il territorio stiamo aspettando i risultati dell’esperienza dell’Expanded Chronic Care Model della regione Toscana, mentre per quello che riguarda l’area ospedaliera sono oramai in via di consolidamento tutte le varie realtà degli ospedali organizzati per intensità di cura, modellizzati cioè sui livelli di instabilità clinica e di complessità assistenziale e non più sulle discipline scientifiche.
Il sistema delle cure intermedie, che a mio giudizio è la parte a più alta densità di pazienti anziani, costituisce ancora una nebulosa: ospedale di Comunità, nuclei di Cure Primarie, Case della Salute, Medicina di Rete ed altre ipotesi che riflettono sia la creatività progettuale che le risorse e le in- frastrutture presenti in una realtà territoriale. Non mi sento pertanto in grado di indicare un modello preciso e unico e probabilmente così dovrà essere, in quanto assisteremo probabilmente alla coesistenza di 
più strutture differenziate secondo una modulazione dell’intensità di cura ed assistenza. Voglio chiudere con un’esortazione. E’ chiaro che tutto questo ripensamento del prendersi cura rimanda alla consapevolezza dell’impossibilità di proseguire sulla strada di un’assistenza organocentrica, pena l’implosione di tutto il sistema sanitario che occupa una discreta parte del sistema salute. Sia altrettanto chiaro, uso il congiuntivo esortativo di proposito, a noi medici in generale, ma soprattutto a noi medici di famiglia in particolare che tale mutazione epistemologica non sarà del tutto indolore, dovremo prevedere un cambiamento dei nostri comportamenti e competenze, in particolare dovremo imparare a ragionare in un’ottica di sistema e smettere di relazionarci con i pazienti definendoli “nostri”, trincerandosi magari inconsapevolmente dietro l’alibi di un olismo uni- direzionale, ma nei nostri confronti. Dovrò abituarmi a non considerare più miei: Danilo, Antonia, Elide, Tommaso....