mercoledì 22 novembre 2017

"A. F. T. COMMUNITY CARE, APPROCCIO SISTEMICO : sogni e utopie o realtà dietro l'angolo?" Editoriale pubblicato sul Bollettino dell'Ordine dei Medici della provincia di Perugia n.3/4 2017

 A. F. T. Community Care, Approccio Sistemico: sogni e utopie o realtà dietro l'angolo?

Il mese di Luglio u.s. la Regione dell'Umbria ha deliberato il nuovo accordo integrativo regionale, la: " Riorganizzazione della Medicina Generale e Continuità Assistenziale H24: l'Aggregazione Funzionale Territoriale  ( AFT)".
Tale accordo è la normale evoluzione della legge Balduzzi del 2012, del Patto della Salute siglato dallo Stato e dalle Regioni nel 2014, dei piani nazionale e regionali  della cronicità: tutta una serie di normative, insomma,  nate  per garantire la sostenibilità del SSN di fronte alle  sfide che ci stanno aspettando. Dovremmo essere, infatti, tutti consapevoli dei problemi che derivano dall'invecchiamento generale della popolazione, dai costi sempre più crescenti dell'assistenza e dalla necessità di dover tendere sempre più a una medicina umanizzata e che tenga il malato al centro di tutto il sistema. Sarebbe piuttosto inutile dover ripercorrere ora l'intero iter legislativo ed entrare nei particolari dell'accordo, quello che mi preme è di sviluppare una sintesi per  ipotizzare degli scenari che potrebbero essere realizzati partendo da questo contesto.
Cerchiamo di immaginare la solita "rete" i cui nodi sono costituiti da queste AFT che altro non sono che una ventina di medici, generali e di continuità assistenziale, che avendo a disposizione un sistema informativo con la condivisione dei dati clinici, assistono circa 30.000 cittadini 24 ore al giorno  7 giorni su 7. Ogni medico e medicina di gruppo mantiene il proprio studio e la titolarità dei propri. Sono previsti almeno 2 infermieri e è  prevista anche una reperibilità ambulatoriale h12 dalle 8 alle 20 e dalle 8 alle 14  di sabato in ogni AFT .In maniera più specifica i compiti dell’AFT sono:
assicurare, a tutta la popolazione in carico ai MMG i livelli essenziali ed uniformi di assistenza (LEA), partecipare all’implementazione di attività di prevenzione sulla popolazione, favorendo l’engagement della persona con cronicità e la promozione di corretti stili di vita che coinvolgano tutta la popolazione, aderire ai programmi di sanità d’iniziativa organizzati a livello di Distretto, Azienda, USL e Regione. Si dovrà contribuire alla diffusione e all’applicazione delle buone pratiche cliniche sulla base dei principi della evidence based e slow medicine. Si dovrà promuovere e diffondere l’appropriatezza clinica e organizzativa nell’uso dei servizi sanitari, anche attraverso procedure sistematiche ed autogestite di peer review e Audit.
Nelle AFT si dovranno inoltre promuovere modelli di comportamento nelle funzioni di prevenzione, diagnosi, cura, riabilitazione ed assistenza orientati a valorizzare la qualità degli interventi e al miglior uso possibile delle risorse alla luce dei principi di efficienza e di efficacia.
Detto in altre parole, con quest’organizzazione il territorio dovrà assumere quella visibilità e quella capacità di rispondere alla patologia cronica come fa l'ospedale per la patologia acuta e grave. Spero che tutti colleghi si rendano conto che accettare questa sfida e vincerla è uno dei pochi modi per poter garantire la sostenibilità e la salvezza del Servizio Sanitario Nazionale e della nostra stessa figura. Mi sono pertanto risultati incomprensibili tutti i timori e le perplessità che hanno fatto seguito alla sottoscrizione di tale accordo.
Il mondo e la società stanno continuamente cambiando a un ritmo vertiginoso e le innovazioni e lo sviluppo della tecnologia in generale e della ICT (Information Communications Tecnology) in particolare, stanno creando scenari che sino a pochi anni fa sembravano da film di fantascienza.
 La robotica, i Big Data, l'ecommerce, stanno per mandare in pensione intere categorie professionali: gli anatomopatologi, gli specialisti nella diagnostica delle immagini e i chirurghi saranno i primi. I farmacisti...questi hanno perfettamente capito che con l'avvento di Amazon sulla distribuzione e la legge sulla concorrenza hanno oramai le ore contate e pertanto stanno disperatamente cercando sotto il cappello della Farmacia dei Servizi, dei nuovi spazi che sono propri della medicina generale come: gli screening, l'aderenza alla terapia dei pazienti, l'educazione sanitaria e tanti aspetti di medicina preventiva. I miei colleghi di medicina generale dovrebbero tenere, poi, ben presente quello che sta accadendo in Lombardia con l'appalto della patologia cronica a 219 gestori privati che rischia di pensionare a breve tutti i medici di famiglia. Cerchiamo pertanto di considerare in maniera pragmatica questa AFT! Cerchiamo di valutarla come un'occasione per dare finalmente un volto e una connotazione precisa a questo benedetto territorio che scompare sempre di fronte ad un ospedale organizzato verticalmente e con ruoli e funzioni oramai ben definiti. Anzi cerchiamo di rilanciare! Cerchiamo di aumentare le potenzialità assistenziali di queste nuove aggregazioni individuando metodi e obiettivi che in questo momento potrebbero sembrare fantascientifici se non dei veri e propri sogni. Lancio per il momento un'idea che porterò poi come proposta dopo averla discussa con tutta la categoria e poi come progetto presso i nostri amministratori e politici: le AFT diventino il perno, il tessuto connettivo delle cosiddette Community Care. Che intendo con questo termine?
Non è certo un concetto nuovo e potrete trovarne un'interessante descrizione e contestualizzazione nel documento della sociologa Luciana Ridolfi visualizzabile nel link http://www.clitt.it/contents/scienze_umane-files/sociologia/60017_CommunityCare.pdf da cui ho rubato definizioni e indicazioni.
Nell'accezione originale Community Care stava a significare un modo di organizzare le cure assistenziali a favore delle categorie sociali più deboli, ponendo come esigenza fondamentale la possibilità per queste persone di continuare a condurre la propria vita entro i confini della comunità di appartenenza dove sono sempre vissute, anziché rivolgersi a strutture residenziali. Il nuovo concetto invece è più ampio e rimanda ad " un approccio teorico-pratico che prova a ripensare il sistema dei servizi come reti di intervento che si basano sull’incontro creativo e collaborativo fra soggetti del:
 “settore informale” (vicinato, gruppi amicali, famiglie, associazioni locali)“ settore formale” (organizzazioni sanitarie pubbliche, private e non profit) mediante relazioni di reciprocità sinergica. Un intreccio tra reti formali ed informali, tra professionalità e figure non specialistiche, tra pubblico e privato…, che ha come obiettivo il coinvolgere nelle attività di cure tutte le risorse presenti all’interno della comunità." Nella Community Care  viene realizzato il passaggio da un concetto di comunità intesa come luogo fisico (territorio) destinatario di prestazioni socio-sanitarie, ad un’immagine della stessa comunità come rete di relazioni sociali significative".
Massima integrazione quindi con il sociale! Anche questo deve essere un concetto chiaro, poiché l'assistenza al paziente cronico, anziano e complesso necessita di supporto e di cura non solo da parte degli operatori sanitari, ma molto spesso di " assistenza integrata, incentrata sulla famiglia e sulla comunità, finalizzata a pratiche di autocura, di cure a domicilio, di mutuo aiuto e con obiettivi di cambiamento partecipato da parte dei cittadini"
Sono perfettamente consapevole che questa "visione" comporta un'attenta mappatura del territorio, cercando di superare l'ottica di orti ed orticelli, di autoreferenzialità, di sospetti e diffidenze, ma  lasciatemi concludere con la descrizione del sogno che ho fatto questa notte.
 Paolo 84 anni è sposato con Giulia di 81 anni che è affetta da una grave forma di artrosi dell'anca dx, della colonna, dei ginocchi come conseguenza anche di una poliomielite contratta da ragazza che  ha sconvolto la sua dinamica scheletrica. Vive senza uscire di casa da molti anni in un appartamento al terzo piano senza ascensore, non hanno figli e i parenti più prossimi sono un fratello che vive in un comune delle Marche a 80 km di distanza. Per i lavori domestici hanno una donna che viene 2 volte la settimana per 2 ore il mattino  e i contatti con il mondo esterno sono tenuti da il signor Paolo che mantiene un discreto stato di autosufficienza: va alle poste, in banca e fa la spesa, guida ancora l'automobile per i percorsi noti e che usualmente percorre.
Mi chiamano un lunedì mattina disperati: Paolo è bloccato a letto con un terribile attacco di sciatalgia e mi chiedono che in poche ore sia rimesso in piedi perché deve essere fatta la spesa, devono essere pagate le bollette e si deve passare in banca ...il frigorifero è vuoto, mi fanno "intuire" che non hanno contanti per pagare...Che posso fare? Innanzitutto pratico una fiala intramuscolo di Diclofenac che tengo in borsa, conosco il paziente e posso permettermi questa scelta anche rischiosa. Prescrivo poi un ciclo di terapia farmacologica e telefono subito alla farmacia che è dotata del servizio di consegna dei farmaci a domicilio dicendo che poi dall'ambulatorio avrei messo le ricette in rete. Altra telefonata al servizio sociale per illustrare il problema e mi viene risposto che nel giro di due o tre ore avrebbero mandato un volontario accreditato a casa dei pazienti per prendere le bollette, la lista della spesa e l'assegno bancario che Paolo avrebbe fatto, per permettere all'operatore di fare tutto il giro: banca, posta, supermercato. Giunto poi in ambulatorio scrivo nella cartella clinica elettronica condivisa il caso di Paolo, lasciando in consegna al collega della Continuità Assistenziale il problema aperto per poter rispondere con cognizione di causa ad una sua eventuale chiamata......No! mi sono inventato tutto... nel sogno diventato quasi un incubo, sono stato costretto a ricoverare in ospedale tutti e due, non esistendo nulla che potesse rispondere in modo sistemico.






domenica 8 ottobre 2017

Intervento alla presentazione de "IL NOSTRO OSPEDALE IN FOTOGRAFIA : policlinico di Monteluce Perugia 2007/2008" 8 ottobre 2017



Quando Paolo Menichetti mi ha contattato per partecipare alla presentazione di questo libro fotografico sull' ospedale di Monteluce ho subito accettato, onorato per questo invito, ma poi ho iniziato a provare un certa difficoltà in quanto io non ho mai lavorato dentro questa struttura e forse qualsiasi figura che a qualsiasi titolo vi  abbia operato sarebbe in grado di produrre ricordi e testimonianze più significative della mia. A tal proposito, proprio i giorni scorsi, nel mio ambulatorio è venuto uno dei vecchi portieri in pensione, quelli che stavano alla sbarra che  regolava  l'ingresso delle auto all'interno del nosocomio e che all'occorrenza facevano di tutto,  gli ho chiesto di raccontarmi quello che a suo giudizio di più curioso e simpatico gli fosse capitato. Mi ha raccontato, sghignazzante, che senza dubbio era stato quando gli fecero trasportare per una mattinata intera pacchi di documenti dal meccanografico alla ragioneria con la "Carolina", l'auto dei servizi funebri per chi non la conoscesse con questo nome. Mentre svolgeva questo compito  e percorreva le vie all'interno dell'ospedale tutti quelli che lo  incrociavano e conoscevano facevano l'italico scongiuro.
Il Policlinico di Monteluce! Che valore e che significato ha avuto per Perugia e per tutti noi Perugini? E ' facile in queste situazioni perdersi in rievocazioni nostalgiche dal sapore dell'Amarcord, se non altro perché per molti di noi coincide con la nostra gioventù o con un periodo significativo della propria vita...per me, come per moltissimi di noi, il proprio corso di formazione universitaria, per chi l'inizio della propria vita professionale. Per molti rievoca occasioni felici di nascite di familiari, per altri, momenti tristi o drammatici di malattie e lutti.
La mia posizione è abbastanza neutra nei ricordi: per fortuna nessun episodio di particolari crisi di salute mia o della mia famiglia e anche il percorso universitario è stato tranquillo e tutto sommato  anche abbastanza monotono. Negli anni '70 la goliardia era finita e salvo qualche screzio con qualche professore universitario in occasione di un paio di esami non mi vengono in mente particolari ricordi.
A vedere queste foto ti vengono spontanee alcune considerazioni. La prima dal  punto di vista dell' edilizia sanitaria . Di come Monteluce  rispecchiasse l'idea della sanità , dell'assistenza sanitaria di quei  tempi, una sanità, cioè, che nasceva e poggiava sulle  discipline scientifiche e sui dettami dei relativi primari. Una sanità per certi aspetti anche chiusa e protetta verso il territorio e la città, per cui  c'era quasi l'esigenza di munirsi di mura di recinzione e con le varie cliniche paragonabili a dei castelli, a dei feudi, governate, passatemi la metafora ma poi non  tanto pellegrina, dai vari feudatari  o baroni che dir si voglia. Non fraintendetemi, per carità! La mia non vuole essere un'affermazione polemica, che esprime giudizi di merito, ma solo una constatazione e  sarà poi la storia che ci dirà se il periodo dei baroni  sia stato migliore o peggiore di quello attuale. Ma come sarebbe possibile pensare l' ematologia perugina separandola dal suo fondatore professor  Larizza o la nostra diabetologia senza il professor Brunetti? Molto spesso le cliniche venivano chiamate con il nome dei primari o dei direttori stessi e  queste foto dei loro studi rendono bene l'idea dell'importanza austera  e quasi regale di chi vi abitava...incutono quasi timore e mi rimandano allo stato d'animo che provavo quando da studente dovevo andare a parlare con qualcuno di loro.
Quale è stato il mio personale rapporto con l'ospedale di Monteluce, come medico di famiglia? Come l'ho vissuto? Se devo essere sincero, devo rispondere in maniera ambivalente, il classico " odi et amo", da una parte è stato un punto di riferimento obbligato, volente o nolente ci dovevo fare continuamente i conti anche talora  in modo sofferto...la medicina specialistica si è sempre rapportata con il territorio in modo gerarchico dall'alto verso il basso. Quando sei giovane e si rapportano con te i tuoi maestri, alla fine è anche abbastanza naturale adeguarsi, ma quando avviene il cambio generazionale e al posto dei tuoi vecchi maestri ti ritrovi specialisti coetanei o più giovani, diventa meno facile. Comunque sia, il Policlinico ha rappresentato e  ancora rappresenta un punto di indiscutibile riferimento per tutti noi medici del territorio: riferimento culturale, riferimento assistenziale soprattutto quando, passatemi la metafora, non abbiamo più cartucce da sparare.
 Dice il padre della fotografia giornalismo Henri Cartier Bresson:"La fotografia non è come la pittura. Vi è una frazione creativa di un secondo quando si scatta una foto. Il tuo occhio deve vedere una composizione o un'espressione che la vita stessa propone, e si deve intuire immediatamente quando premi il clic della fotocamera. Quello è il momento in cui il fotografo è creativo. Oop! Il momento! Una volta che te ne accorgi, è andato via per sempre" . Questa considerazione probabilmente  è  valida per scatti dinamici, per le foto che fissano un movimento, una espressione del volto di un soggetto, un sorriso di un bimbo,  forse è meno valida per queste fotografie statiche che fissano delle stanze e dei percorsi oramai vuoti. Forse, però, a ben riflettere  è valida anche per queste. Queste aule, quegli ambulatori, quelle cliniche e quelle strade e quei corridoi oramai svuotati rendono bene lo stato di abbandono, lo stato di fine imminente e Nicolini è stato veramente bravo nel cogliere e nel dare questa emozione.
Ma lasciatemi però fare un'altra citazione, di un altro artista, questa volta della penna, una citazione che forse per qualcuno potrà risultare troppo forzata ed esagerata , ma a me viene bene così: Marcel Proust  quando nel suo " Le temps retrouve' " afferma:
"Basta che un rumore, un odore, già udito o respirato altra volta, ( o un'immagine aggiungo io)  lo siano di nuovo, a un tempo nel presente e nel passato, reali senza essere attuali, ideali senza essere astratti, perché subito l'essenza permanente e ordinariamente nascosta delle cose venga liberata, e perché il nostro vero 'io', che talvolta sembrava morto da un pezzo, ma che non lo era interamente, si desti, si animi, ricevendo il celeste nutrimento che gli viene offerto. Un attimo affrancato dall'ordine temporale ha ricreato in noi, per percepirlo, l'uomo affrancato dall'ordine temporale."

Questa emozione e sensazione, questo affrancamento temporale l'ho avuto nel vedere, anzi nel rivedere l'immagine del corridoio mediano che originava nel lato sinistro del piazzale d'ingresso, a fianco della Clinica Medica. Si allungava per un discreto tratto al chiuso e poi continuava  in un portico che costeggiava la Chirurgia "nuova" che non lo era più da un pezzo, ma  era chiamata così per distinguerla da quella vecchia, e poi la particolare Cappella  Salus  Infirmorum affrescata dal nostro Gerardo Dottori.  Orbene ,questo corridoio ho cominciato a vederlo animato. L'ho visto popolarsi di tanta gente: parenti dei ricoverati con gli immancabili pacchi e pacchetti per i ricambi e i vettovagliamenti, studenti allegri con i libri sottobraccio, infermieri che fumavano e scherzavano, degenti incappottati con sotto il pigiama che tornavano dal bar con fare furtivo forse dopo aver acquistato qualche pasterella o sigaretta proibita, medici con passo svelto, allieve ostetriche, manutentori dal viso annoiato e così via. Ho sempre visto quel corridoio come l'aorta pulsante del nostro organismo, l'arteria principale in cui transitava tutta l'umanità per distribuirsi poi in tutti i luoghi del nostro ospedale.
Una delle ultime foto riporta una scritta: " Addio, caro vecchio policlinico! Chissà se il peggio verrà dopo?" Sarà la storia che potrà rispondere a questa domanda, per il momento però cerchiamo assolutamente di essere ottimisti, lasceremo ai nostri figli e nipoti. quando noi non ci saremo più, il compito di commemorare l'attuale Policlinico Silvestrini quando sarà dismesso.




domenica 20 agosto 2017

Post FB 19/08/2017

Questa mattina il canto dei galli degli orti viciniori, l'abbaiare dei cani e il rumore dell'acqua schizzata dagli irrigatori mi hanno svegliato all'alba. Sono uscito fuori a godermi il fresco e intanto osservavo la mia casa: troppo grande oramai! Dei tre figli: Aurora in Terra Santa ma anche in procinto di andare a studiare fuori, Alessandro a Firenze da anni, Emanuele oramai che fa la sua vita. Certo! Un velo di malinconia mi prende, ma poi penso subito che per i figli i genitori devono essere solo occasione di vita e non possono pretendere che loro siano in funzione nostra. Anzi è bene facilitare il loro distacco anche se sotto sotto un po' si soffre e mi piace dedicargli questi versi di Langston James Hughes
LA SCALA DI CRISTALLO
Bene, figliolo, voglio dirti una cosa
la vita per me non è stata una scala di cristallo.
Ci furono chiodi
e schegge
e assi sconnesse
e tratti senza tappeti sul pavimento,
nudi.
Ma per tutto il tempo
ho continuato a salire
e ho raggiunto pianerottoli
voltato angoli
e qualche volta ho camminato nel buio
dove non c’era uno spiraglio di luce.
Quindi, ragazzo, non tornare indietro.
Non fermarti sui gradini
perché trovi che salire è difficile.
Non cadere adesso
perché io vado avanti, amor mio,
continua a salire
e la vita per me
non è stata una scala di cristallo.

giovedì 6 luglio 2017

UMANO,TROPPO UMANO.Editoriale pubblicato sul Bollettino dell'Ordine dei Medici di Perugia n.02/2017

UMANO,TROPPO UMANO

Mi sarà perdonato l'aver richiamato alla memoria con questo titolo il famoso libro di Nietzche per "spiriti liberi",  ma l'ho voluto fare perché probabilmente queste considerazioni potranno dare adito a sospetti e fraintendimenti che  a qualcuno faranno dire che sto negando, anzi, rinnegando tutti i principi di umanità e del prendersi cura che sino ad ora ho affermato ed enfatizzato.
Non importa! A 65 anni compiuti mi sento nella libertà di poter scrivere quello che penso, talora anche con riflessioni a prima vista rischiose, ma sono convinto che il principio di coerenza talvolta vada interpretato "guardando oltre" la circostanza e il fatto del momento.
T.M. sesso maschile classe 1926 affetto da mielodisplasia che "sopravvive" con tre o quattro trasfusioni di sangue intero alla settimana, con il mento che oramai quasi tocca i ginocchi e con la maggior parte del tempo trascorsa fra letto e carrozzella.
S.C. sesso maschile classe 1929 affetto da marasma senile che con PEG "sopravvive" accartocciato su stesso sul materassino antidecubito con lettino reclinabile con sponde di contenimento.
M.M. sesso maschile classe 1930 affetto da tante malattie che nemmeno un manuale di patologia medica sarebbe in grado di contenere, " sopravvive" in uno stato simil catatonico per mezzo di sondino naso gastrico, anche lui accartocciato su stesso sul materassino antidecubito con lettino reclinabile e con sponde di contenimento.
La lista sarebbe ancora lunga. Fatta per lo più da ultraottantenni in condizioni più o meno sovrapponibili che alternano oramai frequenti periodi di ricovero ospedaliero a periodi trascorsi in casa con l'assistenza continua di caregiver e infermieri dei centri di salute.
Mentre scorrono le immagini di questi pazienti, come quasi in un film che proietta scene parallele, scorrono le immagini dei quotidiani in edicola di questi giorni che riportano:" Chiuse le sale operatorie per mancanza di sangue. Sempre più letti e brande nei corridoi per mancanza di posti letto. Non ci sono più garze e materiale per medicazioni. Ospedali al collasso.......".
E' oramai quotidianità vivere la professione da parte mia con un senso di fastidiosa impotenza nel dover subire scelte operative che non riflettono più la propria scienza e coscienza, ma è come se tutti quanti noi medici e operatori sanitari, da un po' di tempo a questa parte, fossimo soggiogati da un moloc cui tutti dobbiamo obbedienza e sacrifici.
Eppure quando alla fine degli anni '70 ho iniziato questa professione non era così! Tutto si chiamava per nome: medico, malato, malattia......morte! Proprio la morte era considerata un evento naturale, come normale conseguenza di tutto quello che c'era stato prima, ma da un po' di anni sembra  diventata una parola impronunciabile, una cosa inaccettabile e improponibile.
Non fraintendetemi, non sono per niente favorevole all' eutanasia, ma lasciatemi proseguire con una serie di considerazioni.
In questi ultimi mesi ho partecipato ai tavoli di lavoro per la stesura del Piano Regionale della Cronicità che ogni regione ha attivato per l'attuazione di quello nazionale, pubblicato il dicembre dello scorso anno. Sono stati giustamente individuati i percorsi diagnostici terapeutici assistenziali (PDTA) per importanti capitoli di patologia con l'obiettivo di " ....un disegno strategico comune inteso a promuovere interventi basati sulla unitarietà di approccio, centrato sulla persona ed orientato su una migliore organizzazione dei servizi e una piena responsabilizzazione di tutti gli attori dell’assistenza". In altre parole difronte all’esplosione delle patologie croniche che stanno letteralmente divorando il Servizio Sanitario pubblico, si cerca di porvi rimedio uniformando i comportamenti, ma come spesso capita, la coperta che si cerca di cucire, qualche volta, può venire paradossalmente anche più grande di quella che occorre. Già il presupporre un approccio unitario e che sia personalizzato nel medesimo tempo, è forse una contraddizione in termini logici poi, comunque confezionato l'abito, andrà poi a pennello per tutti? Quando durante la plenaria dei vari tavoli di lavoro ho alzato la mano e ho chiesto se un PDTA per un paziente con uno scompenso cardiaco di 50 anni fosse  identico  a quello per un ultraottantenne non ho avuto alcuna risposta ufficiale. Dove voglio andare a parare? Voglio solo affermare che non si può affrontare la complessità con risposte di tipo riduzionistico e non si può pensare ad una riorganizzazione e responsabilizzazione dei servizi senza "fare sistema".
Esempio pratico. C.P. maschio di 87 anni affetto da demenza, oramai costretto a letto e con tutte le caratteristiche di una fase terminale. La famiglia mi chiede che venga fatto solo l'indispensabile, ma durante un ennesimo episodio febbrile avvenuto però di domenica pomeriggio, la badante rumena senza consultare nessun altro chiama il 118 che " carica su" il paziente, che viene ricoverato e anche qui, senza sentire il parere di nessun familiare, viene introdotto il catetere in  vescica e il  sondino naso gastrico perché? Perché così dicono le linee guida viene risposto poi alla figlia che poneva il quesito. Non c'è niente da fare! Anche se a chiacchiere siamo tutti contro un certo modus operandi, quando poi ci troviamo veramente difronte al problema, scatta in molti una specie di vortice  prestazionale alimentato forse da medicina difensiva, da autoreferenza, da rimozione del proprio senso di morte, insomma da un qualcosa che risucchia e fagocita qualsiasi considerazione sul perché di certe scelte e certi passi. E gli effetti di questo vortice si fanno vedere e sentire con il continuo e progressivo consumo di risorse che fra breve determinerà l'implosione di tutto il Servizio Sanitario.
Sorge a questo punto spontanea la domanda:" Quale rimedio? Quale ricetta?
La risposta non è semplice perché prima di tutto vanno fatte delle scelte di non facile metabolizzazione, scelte impopolari come quella di affermare che non è più possibile garantire dei PDTA uniformi per tutti i pazienti, ma non per una motivazione solo economica, ma anche perché non sarebbe etico e morale garantirli. Gestire la complessità e la personalizzazione delle cure richiede scelte complesse e personalizzate, scelte fatte  con onestà intellettuale e che guardino oltre, che guardino al futuro. Prima di tutto va sancito un vero patto fra i professionisti della salute, un patto che nasca dal principio di dover far "sistema", con la consapevolezza che il totale è diverso dalla somma delle singole parti e che ogni criticità di una singola parte si ripercuote su tutto il sistema. E' impensabile che l'ospedale non tenga conto di tutta la storia del paziente vissuta insieme al proprio curante com’è assurdo che quest'ultimo ignori i capitoli della storia vissuti in ospedale, com’è altrettanto assurdo che tutti i professionisti non siano capaci di una vera integrazione "trandisciplinare".
Da quale modello conviene partire? Una risposta potrebbe essere quella della " organizzazione empatica a geometria variabile" di cui ho parlato nell'editoriale del Bollettino n.4/2014 (http://tizianoscarponi.blogspot.it/2015/01/organizzazioni-empatiche-geometria.html)  e di cui potremo parlare in seguito, ma quello che mi preme ribadire in questa occasione è che sono arrivati i tempi in cui si devono dismettere i toni demagogici della politica, i comportamenti autorefenziali della propria disciplina, le scelte etiche umane del presente, ma "troppo umane" per il futuro dei nostri figli.




sabato 4 marzo 2017

SCIENZA O UMANITA? Editoriale pubblicato sul Bollettino dell'Ordine dei Medici della Provincia di Perugia n.4/2016-01/2017

SCIENZA O UMANITA'?


Questa mattina, mentre ero intento a leggere una lettera di dimissione dall'ospedale di una mia paziente...." Certo dottore che nel reparto dell'ospedale dove sono stata ricoverata, i pazienti sono del tutto trasparenti!". Ho allora alzato gli occhi dal foglio e le ho chiesto che cosa volesse dire con quelle parole. "Voglio dire che è come se fossimo invisibili, come se non ci vedesse nessuno! Arrivano... ti levano il sangue senza guardarti o dirti qualcosa, ti ficcano quasi le pillole in gola, i medici ti visitano in silenzio e non ti degnano nemmeno di uno sguardo....come se fossimo del tutto trasparenti...che roba però!" L'ho guardata in silenzio e devo dire che fino a quando non aveva detto quello che aveva appena detto, forse anche per me era trasparente!
Questo corsivo è un post tratto dal mio profilo FaceBook che a mia insaputa è stato letteralmente copiato, con tanto di grafica originale, e inserito in un manifesto in occasione di un congresso nazionale sulla comunicazione medico-paziente. Ne è anche stata realizzata una diapositiva che compare spesso in presentazioni su convegni di Medicina Narrativa o che hanno per oggetto la relazione di cura. Perché mi è tornato in mente questo episodio? L'occasione che ha riattivato questo ricordo è stata la lettura recente di un articolo pubblicato sul sito www.saluteinternazionale.info del collega pneumologo e bioeticista Andrea Lopes Pegna dal titolo:" Il conflitto tra razionalità e umanità in Medicina". Tale articolo prende lo spunto a sua volta da un saggio del BMJ, How medicine has exploited rationality at the expense of umanity di Iona Heath che ha presieduto dal 2009 al 2012 l’Associazione dei Medici di Medicina Generale del Regno Unito (Royal College of General Practitioners) che evidenzia come la medicina abbia sempre privilegiato la razionalità a spese dell'umanità. Iona esordisce con:"I medici devono ascoltare e vedere i loro pazienti nella completezza della loro umanità allo scopo di diminuire le loro paure, di dare spazio alla speranza (anche se limitata), di spiegare i sintomi e le diagnosi in un linguaggio adatto al particolare paziente, per testimoniargli coraggio e resistenza e per accompagnarlo nella sofferenza”. Poichè, però nessun medico è stato mai formato all'ascolto e nessuna evidenza medica aiuta in questa competenza si viene a creare di fatto una frattura nel momento della visita  col malato tra la medicina delle evidenze e il ruolo dell’umanità. È compito del medico quello di colmare questa frattura come tutte le altre fratture che si possono presentare durante il colloquio con il paziente per cui devono essere creati dei ponti fra questa separazioni che sono diverse:
 • Malattia oggettiva (Disease) contro malattia soggettiva (Illness)
 • Obiettività contro Soggettività
 • Tecnico contro esistenziale
 • Popolazione contro individuo
 • Utilitarismo contro deontologia
 • Normativo contro descrittivo
 • La mappa contro il territorio
 • I numeri contro le parole
• Quantitativo contro qualitativo
• Razionalità contro emozione
• Scienza contro poesia
Mi piace soffermarmi sulla frattura che esiste "tra i numeri che hanno bellezza seduttiva e purezza, che suggerisce solidità e certezza, e le parole, che sono infinitamente malleabili e adattabili, ma che possono comunicare molto di più. A. R. Feinstein ricorda a questo proposito che “la maggior parte della ricerca rivolta alla cura del paziente è stata più matematica che clinica”. Abbiamo invece necessità delle parole per conoscere e per rispondere alle emozioni, che sono egualmente importanti quando ci si prende cura del paziente. Questo è il motivo per cui i medici necessitano sempre di conoscenze che
scaturiscono da ricerche non solo quantitative ma anche qualitative e che quindi affrontino entrambi gli aspetti."
Mi piace anche evidenziare quello che ha scritto sulla scienza contro la poesia:
 " H. Auden ha scritto molti anni fa ...la poesia non si preoccupa di indicare alle
persone cosa fare, ma di aumentare la loro conoscenza tra il bene e il male… solo portandoci al punto dove ci è possibile fare una scelta morale razionale. Questo autore offre così un altro ponte per colmare la frattura esistente tra la scienza e la poesia, che rappresenta però anche una difesa contro la maggior parte di coloro che vogliono dire al paziente e ai professionisti cosa devono fare. Le poesie ci chiedono di pensare e molti di noi, quando siamo malati, vogliamo proprio un medico che sia abituato a pensare. Health afferma che vorrebbe vedere un giorno in cui i medici, invece di offrire linee guida, diano
semplicemente il sommario delle evidenze, con chiare indicazioni e limiti, parlando anche delle incertezze e facendo sempre conoscere i possibili pericoli. Questo incoraggia i clinici a pensare, senza dire loro cosa devono fare.

Al termine della lettura di questo articolo mi è tornato alla mente l'ultimo saggio che ho letto sulla rivista "Riflessioni Sistemiche" della mia amica Antonia Chiara Scardicchio, ricercatrice in pedagogia sperimentale presso l'Università degli Studi di Foggia. Il titolo di questo saggio è : " Lo strano caso delle competenze mediche fuori dalla lista. Interrogazioni ispirate dalla Ministra della Salute, a proposito di formazione scientifica-ed umana- in medicina". Come dice l'autrice stessa, l’ispirazione per questo saggio è derivata dalle parole proferite dalla nostra Ministra della Salute Beatrice Lorenzin in occasione della 3° Conferenza Nazionale della Professione Medica e Odontoiatrica organizzata dalla FNOMeCEO nel giugno 2016, allorché a proposito della formazione in medicina ha dichiarato:" E' fondamentale la vostra formazione continua. Ovviamente, però, mi riferisco solo a quella relativa alle specializzazioni disciplinari perché quella che riguarda le vostre competenze umane....quelle o le avete o non le avete. L'umanità non si può imparare". La Scardicchio da questa involontaria provocazione ha costruito il suo saggio, dimostrando in maniera mirabile come tale affermazione comporti una serie di inferenze che rimandano a riflessioni sulla conoscenza, sul metodo scientifico di operare e lavorare del medico e sul ruolo dell'osservatore nel determinismo  di un fenomeno: la  malattia nel nostro caso.
Tutta la nostra formazione, tutta la nostra preparazione poggia di fatto su delle "liste" di categorie "..Dentro ad una interrogazione che riguarda la scienza medica, mi ritrovo a esplorare questa particolare attitudine: la volontà di chi conosce un paziente cercando nella sua lista (reale, attingendo alle banche EBM e virtuale, mediante il ricorso alla propria conoscenza ed esperienza professionale) l’item a cui ricondurlo, il punto dove inquadrarlo affinché senza errore possa leggerne sintomo, malattia, cura. Con competenza. Non per ispirazione né per sciamanica intuizione, no: con fondamento e rigore condiviso e condivisibile… grazie ad una stringa di indici, indicatori, parametri oggettivi: dentro la lista, insomma."
Tutto quello pertanto che non è oggettivamente misurabile, tutto quello che è fuori dalle liste viene escluso, ma qualsiasi medico ben presto sperimenta su di sé come questa " matematizzazione della competenze" non sia sufficiente a garantire i risultati della cura, come avviene anche  quando si parla di aggiungere competenze umane o umanità del medico.." il punto è che quella “umanità”, utilizzata per fare sintesi delle competenze comunicative e relazionali altrettanto fondamentali in medicina, finisce così, con questa scelta lessicale, in quella sfera delicatissima sovente fraintesa, dell’aleatorio, sfumato, indefinibile….e persino per taluni in-insegnabile".
Probabilmente fino a quando non verranno cambiati i punti di osservazione anche tutti i percorsi formativi per una umanizzazione della medicina resteranno un qualcosa di impalpabile e di non scientifico.
Non si può più  concepire un metodo di cura che perpetui fedelmente la scissione cartesiana per cui io tengo separati dalla mia osservazione e dalla mia valutazione  una tumefazione del collo di chi sto visitando  dalla sua paura e dalla sua perdita di speranza, oppure un dolore addominale di un mio paziente con  la sua  preoccupazione per la perdita del proprio posto di lavoro. Non è più concepibile un metodo che tenga separati la nostra attività dalla nostra sensibilità e dai nostri desideri o dai nostri fantasmi:" ....Qual è il mio modello di paziente? Di malattia? E qual è il modello di me-in-relazione a questo paziente? Lo scrivo ancora: quello che abbiamo appreso dalle scienze della complessità è che la neutralità nei processi di conoscenza non esiste. Non esiste paziente neutro. Esiste un paziente interpretato. Non esiste un medico neutro. Esiste un medico interpretante. E non v’è natura che non sia ineludibilmente cultura. Sicché ho bisogno di osservare sempre due mondi anzi, tre: quello del paziente, il mio stesso e quello, inedito, della relazione/contesto che si crea tra me e quell’altro mondo."
Approccio complesso, quindi, nel senso etimologico  originario della parola: legato, unito. Approccio complesso che unisce competenza epistemica, filosofica, ermeneutica " e persino estetica nel quadro di competenze per formare un medico non già all’umanità ma... alla complessità dell’umano che lo accomuna all’umano che vuole curare".
Non si tratta quindi solo di formarsi ad una psicologia dell'ascolto e della relazione come una dimensione etica senza dubbio necessaria, ma di disporsi all'ascolto  accettando il principio di indeterminazione di Heisenberg, accettando la dimensione dell'incertezza e il superamento del cosiddetto  " demone di Laplace": la convinzione che sarebbe possibile, conoscendone le cause, prevedere qualsiasi situazione o problema.
Partendo da questi presupposti, da questa cornice ecco che l'umanità entra dentro il processo scientifico della conoscenza stessa e la mia paziente smetterebbe di essere trasparente e invisibile.