venerdì 29 novembre 2019

SUSSURRI E GRIDA.Editoriale pubblicato sul Bollettino dell'Ordine dei Medici della Provincia di Perugia N.3/2019

SUSSURRI E GRIDA

Questo editoriale è stato scritto sotto il sole rovente dell’estate 2019 dopo aver rivisto il film di Ingmar Bergman :” Sussurri e grida”  e dopo aver letto l’articolo :“ Miseria e nobiltà della medicina generale”  scritto dal collega Francesco Benincasa  e pubblicato il 5 agosto u.s. nella rivista Accademia Italiana delle Cure Primarie, cui rimando la visione originale completa 
Tale articolo, a mio giudizio, rappresenta un’ottima riflessione e spero che venga letto soprattutto dai medici generali giovani, perché definisce una vera cornice ontologica della medicina di famiglia oggi.
E’ un momento di cambio generazionale. Fra qui e quattro o cinque anni quasi il 70% dei Medici Generali attuali sarà andato in quiescenza e sarà sostituito da colleghi giovani e freschi, ma tale cambio sarà del tutto indolore? L’eredità che stiamo per lasciare sarà recepita o nella normale dialettica di contestazione fra vecchi e giovani potrebbe essere stravolta e riorientata in modo tale che la stessa dizione “ medicina di famiglia” non potrà essere più usata come per molti già lo è….famiglia concetto superato e bollito.
Alcuni segnali mi preoccupano. In un comune dell’Umbria al pensionamento di due MG è subentrata una collega che dopo circa un mese ha rassegnato le dimissioni per l’eccessivo carico di lavoro e non c’era subito nessun medico che fosse disposto a trasferirsi lì come primo ambulatorio. In tutta Italia per i piccoli comuni montani non si reperiscono medici. Trovare un sostituto per le ferie o la malattia spesso è un problema. Gli informatori del farmaco in modo quasi unanime mi confessano che con il nostro pensionamento andrà in pensione anche la Medicina Generale, almeno per come la conosciamo ora. Sono molto frequenti, nel gruppo FaceBook Medici Generali dell’Umbria che amministro, i commenti di colleghi giovani che si lamentano e che desidererebbero fare i Medici Generali dipendenti e non più in convenzione. 
Come interpretare tali segnali? Una collega, mia quasi coetanea, alcuni giorni orsono mi ha detto:” I nuovi medici arrivano con lo zaino. Sono presi dal computer, dalla segretaria, chiedono se c’è lo spirometro e l’elettrocardiografo…..noi non eravamo così!”.
E’ ovvio e sacrosanto che siano diversi da noi che siamo partiti solo con lo sfigmo e lo stetoscopio, 
che non abbiamo avuto il Corso di Formazione Specifica in Medicina Generale, che ci siamo dovuti disegnare il nostro ruolo e la nostra specificità con un percorso a ritroso basato sull’esperienza e sulle “ battute di muso”,  credo però che sia  opportuno fissare alcuni concetti derivanti dalla lettura dell’articolo sopracitato. Può servire da testamento morale.
“La pratica clinica rischia di rimanere subordinata alle ragioni della cultura aziendalistica. 
Ci si trova schiacciati tra l’esigenza di ridurre le spese e incrementare la burocrazia, i bisogni della gente, la concorrenza della medicina commerciale-estetica, difronte alle quali si resta come una Cenerentola senza scarpetta, con un ruolo sociale eroso dalle numerose sottoculture del senso comune. Decritto in questo modo il generalista sembra un naufrago su di un’isola deserta; sotto molti aspetti l’immagine non è lontana dalla realtà. Il senso di solitudine e di abbandono che a volte accompagna quest’attività può essere vinto attraverso lo studio, la ricerca e un’alleanza terapeutica onesta e aperta con il paziente”.
E’ proprio vero! Oramai viviamo fra l’incudine e il martello: i pazienti sempre più pretenziosi abbagliati dalle luci della ribalta di una medicina sempre più spettacolo, sempre pronta a spacciare scorciatoie chimiche che dovrebbero risolvere qualsiasi problema: dalla timidezza o dalla voglia di fare l’amore, dal far dimagrire o dall’essere intelligenti e brillanti. Un Servizio Sanitario sempre più sotto finanziato, che contrabbanda il risparmio per appropriatezza ed una Medicina sempre più impostata su percorsi diagnostici terapeutici ed assistenziali che poco spazio danno alla concertazione e alla relazione medico paziente.
Quando alla fine degli anni ’70 iniziai il mio lavoro, si respirava un’aria diversa. Tutti avevano chiaro quali fossero i limiti e le possibilità della medicina e spesso gli obiettivi, le cure e i rimedi per le malattie venivano fissati di volta in volta dalla relazione medico-paziente dentro la cornice della propria storia, del proprio contesto, di quelle che erano le aspettative del malato e della sua famiglia e non esisteva la rincorsa del risultato ad ogni costo. “Ci sono gior­ni in cui sem­bra di sba­glia­re qua­lun­que de­ci­sio­ne si pren­da e in cui ci si sen­te in­ca­pa­ci e igno­ran­ti. La si­cu­rez­za in Me­di­ci­na Ge­ne­ra­le è sem­pre il­lu­so­ria e mo­men­ta­nea; non è fa­ci­le im­pa­ra­re a con­vi­ve­re pro­fes­sio­nal­men­te con la di­men­sio­ne del­l’in­cer­tez­za. Nel quo­ti­dia­no si deve con­te­ne­re l’an­sia con­nes­sa al dub­bio; un’an­sia che pro­vie­ne dal­la re­spon­sa­bi­li­tà del ruo­lo, da de­le­ghe a vol­te poco chia­re, dai con­fi­ni so­cia­li, dai vin­co­li e dai ri­schi le­ga­ti alla pre­sa di de­ci­sio­ne”. Altra grande verità! Il dover imparare a gestire da soli le proprie incertezze! A differenza dell’ospedale dove sei quasi sempre comunque con qualcuno con cui condividere il peso delle proprie decisioni: un collega parigrado o più anziano ed esperto o un infermiere. Io dico sempre che quando sali le scale delle case dei tuoi pazienti e ti si apre la porta della camera con il paziente sdraiato sopra il letto sei solo tu, con la tua borsa, le tue mani e la tua testa e in pochi minuti ti si impongono delle scelte da cui può derivare la vita o la morte di un altro essere umano. L’era dell’informazione alla portata di tutti, informazione rapida quasi ossessiva. Informazione spesso recepita in modo acritico che crea nell’ignorante presunzione, aspettative di risoluzioni veloci di qualsiasi problema. Presunzione, aspettativa, aggressività se l’aspettativa non viene soddisfatta! Come poter rispondere a questi aspetti?” Per man­te­ne­re sal­da l’al­lean­za e la col­la­bo­ra­zio­ne con il pa­zien­te si de­vo­no sfrut­ta­re con­sa­pe­vol­men­te le ca­pa­ci­tà te­ra­peu­ti­che del­l’at­to me­di­co, del­la pre­scri­zio­ne, del ge­sto, del rito. E’ ne­ces­sa­rio tro­va­re un giu­sto equi­li­brio tra pa­ri­tà, pa­ter­na­li­smo, col­la­bo­ra­zio­ne, con­di­vi­sio­ne e pro­fes­sio­na­li­tà. L’at­ten­zio­ne e l’a­scol­to de­vo­no es­se­re mas­si­mi e au­ten­ti­ci dal pri­mo mo­men­to……Tut­ta­via, ascol­to e cli­ni­ca, ti­pi­ci stru­men­ti del­la me­di­ci­na ge­ne­ra­le, sono in cri­si. Ci sono si­tua­zio­ni in cui a tut­ti pas­sa per la men­te che la vi­si­ta è di­ven­ta­ta un inu­ti­le e fa­ti­co­so or­pel­lo . La ten­den­za a non vi­si­ta­re va di pari pas­so con la ten­den­za ad am­mu­to­li­re il pa­zien­te. Come se il mes­sag­gio (a vol­te espli­ci­to) fos­se: “Taci e la­scia­mi la­vo­ra­re. Pos­so fare a meno dei tuoi sin­to­mi e del­la tua voce. La tua opi­nio­ne è ir­ri­le­van­te, le tue im­pres­sio­ni su­pe­ra­te dai fat­ti for­ni­ti­mi dal­la tec­no­lo­gia” .La ten­ta­zio­ne di re­sta­re se­du­ti e pre­scri­ve­re esa­mi è for­te, così come è for­te la vo­glia di va­lu­ta­re la si­tua­zio­ne leg­gen­do i re­fer­ti o guar­dan­do le me­ra­vi­glie del­la dia­gno­sti­ca per im­ma­gi­ni sul­lo scher­mo del com­pu­ter in­ve­ce di aver vi­si­ta­to la per­so­na. Al­zar­si dal­la se­dia e in­vi­ta­re l’as­si­sti­to a sten­der­si sul let­ti­no vie­ne qua­si con­si­de­ra­ta una su­per­flua at­ti­vi­tà, su­pe­ra­ta dal­la po­ten­za de­gli stru­men­ti. Ep­pu­re, la se­meio­ti­ca re­sta fon­da­men­to del­la me­di­ci­na. An­che quan­do si ha la net­ta im­pres­sio­ne che la tec­no­lo­gia po­treb­be fare di più e che le ma­no­vre se­meio­lo­gi­che o i se­gni cli­ni­ci rap­pre­sen­ta­no una per­di­ta di tem­po, è ne­ces­sa­rio esa­mi­na­re il pa­zien­te.”
L’esplosione dell’informatica, della tecnologia tende molto spesso a rinunciare a visitare e a toccare il paziente. Grande errore! Dovremmo conoscere tutti l’importanza della visita e della semeiologia fisica che trascende la semplice funzione diagnostica, ma che assume anche  un significato rituale, quasi ancestrale rimandando ad una “valenza sciamanica” che racchiude in sé una funzione di com-partecipazione, di com-passione, del prendersi cura comunque, anche se non si può guarire.
L’ascolto silenzioso che deve accompagnare la storia e la narrazione che ci fa il paziente  già da solo è terapeutico, il poter conoscere il suo mondo, quello che sa del suo problema o della sua malattia costituisce una risorsa irrinunciabile e è bene che chi comincia questo lavoro, si metta bene in testa che percorrerà tante strade quante saranno gli  assistiti che avrà in cura. 
Saranno strade talora in salita, altre volte in discesa e tortuose. Con poche certezze e il senso di precarietà che costituirà il live motive delle nostre giornate. Certo! Diventare dipendenti potrebbe per certi aspetti togliere il senso della precarietà della nostra vita: avere diritto a ferie pagate, a poter star male con “tranquillità”, a partire da subito con una retribuzione dignitosa senza dover aspettare di vedere crescere giorno dopo giorno un numero di “mutuati” che ti permetta di sopravvivere e tanti altri vantaggi accessori che il medico dipendente ha e neanche immagina….ma non saremmo più il medico di Mario Rossi o di Patrizia Bianchi. Saremmo i medici di quel distretto o di quella struttura con una visione professionale completamente diversa.
Sta a noi scegliere di lavorare come Karin e Maria o come Anna al capezzale di Agnese…ma che dico? Al capezzale della Medicina Generale.  













  
  

mercoledì 2 ottobre 2019

EDITORIALE SULLA MEDICINA NARRATIVA pubblicato sul volume 62 numero 3 della rivista SISTEMA SALUTE

EDITORIALE SULLA MEDICINA NARRATIVA SISTEMA SALUTE

Quando ho accettato di curare questa monografia sulla Medicina Narrativa per la rivista Sistema Salute, l'ho fatto senza rifletterci più di tanto poiché ero convinto di "padroneggiare" l'argomento con disinvoltura e tranquillità, ma mi sono dovuto ricredere molto presto. Quando, infatti, sei coinvolto in prima persona nel dover  rendicontare su qualcosa, amplifichi in intensità ed ampiezza l'attenzione e la cura su tutto quello che di questo qualcosa ti passa per le mani. Non pensi che, da quando la rete web è di fatto diventata la fonte più consueta per l'approvvigionamento di notizie e aggiornamenti, il bombardamento continuo di recensioni, di pubblicazioni e di stimoli che ne viene fuori, ti stordisce, ti disorienta e tutto quello che oramai davi per scontato corre il rischio di essere messo  in discussione. La mole delle informazioni, delle suggestioni è tale che non sai mai da che parte cominciare e alla fine prendi la decisione di approfondire solo quei concetti che più ti premono, quelli di cui senti la necessità di affrontare perché, proprio quelli, per te non hanno trovato delle risposte.
Il mandato che mi è stato affidato è quello di provare a rispondere alle seguenti domande:
" Tutto questo fiorire d’interesse nei confronti della Medicina Narrativa  è solo moda? Rispetto al suo esordio ha avuto degli sviluppi ? E, soprattutto per una rivista che ha per argomento l'educazione sanitaria e la promozione della salute, la Medicina Narrativa ha qualche utilità in tal senso o è solo uno strumento di cura per la terapia di soggetti malati?".
Non mi dilungo sull'importanza e sul valore anche terapeutico delle narrazioni da quando l'uomo è comparso sulla terra ad oggi. Si dovrebbe partire dalle raffigurazioni  rupestri del paleolitico, attraversare tutta la mitologia e la filosofia del mondo classico, passare attraverso le leggende e le misture di credenze di santi cristiani con i rimedi alchemici stregonici sino ad arrivare alla "separazione avvenuta tra il XVII e il XIX secolo fra la medicina-tra-la-popolazione ( quella dei cerusici, monaci, apotecari) e la medicina-fra le-mura-ospedaliere. Periodo questo, in cui sono nate le grandi istituzioni ( manicomi, ospedali) contemporaneamente allo sviluppo della rivoluzione industriale e della scienza positivista". (1 ). Da questo momento in poi, l'interesse della medicina si è focalizzato su di un corpo biologico analizzato come un assemblaggio di organi e  i suoi guasti dovevano essere ricercati con delle categorie convenzionalmente concordate: le malattie. Il risultato, pertanto, era lo studio e l'osservazione di un oggetto decontestualizzato dalla propria storia, dal proprio ambiente e dal proprio carattere e dalla propria mente.
Si deve aspettare la fine degli anni ’70  dello scorso secolo perché cambi qualcosa. Lo psichiatra statunitense George Limban Engel, forte dell’eredità di Martin Heidegger e della filosofia ermeneutica sancisce l’inseparabilità fra Soggettività ed Oggettività e teorizza l’approccio biopsicosociale  da  affiancare a quello biomedico. Il passaggio successivo è quello dell’antropologo medico Byron Good che per primo parla di NBM come modello per interpretare il “ vissuto di malattia “ del paziente, per arrivare ai giorni nostri con Rita Charon che definisce  nello storico articolo del 2001 su JAMA gli obiettivi della medicina narrativa: “La Medicina Narrativa fortifica la pratica clinica con la competenza narrativa per riconoscere, assorbire, metabolizzare, interpretare ed essere sensibilizzati dalle storie della malattia: aiuta medici, infermieri, operatori sociali e terapisti a migliorare l’efficacia di cura attraverso lo sviluppo della capacità di attenzione, riflessioni, rappresentazione e affiliazione con i pazienti e i colleghi “ .  Da allora la Medicina Narrativa ha acquisito la piena dignità di disciplina scientifica e è letteralmente esplosa. Sono nate società scientifiche e associazioni e non è più possibile contare i convegni, i congressi e le pubblicazioni sull'argomento tanto, come dicevo all'inizio, da restare disorientati nel cercare di tirare le fila.
A questo punto perciò proseguo con alcune considerazioni  personali  per provare a sollevare alcuni problemi ben sapendo che sarà alquanto difficile trovare delle soluzioni e delle risposte.
Tanta, dovrebbe essere stata l'esigenza di fare ordine sulla Medicina Narrativa, che l'Istituto Superiore di Sanità ha radunato un gruppo di esperti  per dar vita ad una Conferenza di Consenso denominata :"Linee di indirizzo per l'utilizzo della medicina narrativa in ambito clinico-assistenziale, per le malattie rare e cronico-degenerative" che ha partorito un documento definitivo di consenso (2)pubblicato con il contributo incondizionato della multinazionale del farmaco Pfizer. 
In questo documento leggiamo la seguente definizione di MN:
 "Con il termine di Medicina Narrativa (mutuato dall’inglese Narrative Medicine) si intende una metodologia d’intervento clinico-assistenziale basata su una specifica
competenza comunicativa. La narrazione è lo strumento fondamentale per acquisire, comprendere e integrare i diversi punti di vista di quanti intervengono nella malattia e nel processo di cura. Il fine è la costruzione condivisa di un percorso di cura personalizzato (storia di cura).
La Medicina Narrativa (NBM) si integra con l’Evidence-Based Medicine (EBM) e, tenendo conto della pluralità delle prospettive, rende le decisioni clinico-assistenziali più complete, personalizzate, efficaci e appropriate.
La narrazione del paziente e di chi se ne prende cura è un elemento imprescindibile della medicina contemporanea, fondata sulla partecipazione attiva dei soggetti coinvolti nelle scelte. Le persone, attraverso le loro storie, diventano protagoniste del processo di cura.(3) 
Senza dubbio come scrissi a suo tempo (4) " si è sentita l'esigenza di "normare" e "teorizzare" la Medicina Basata sulla Narrazione per evitare che uno spontaneismo incontrollato potesse dar vita ad uno stile salottiero del prendersi cura.
Sono stati esplorati i presupposti, la storia, i modelli di approccio per arrivare ad una definizione e indicare anche gli strumenti. Questa esigenza di normare però, questa volontà di proporre una definizione ed una metodologia, se da una parte origina da un sacrosanto principio di voler portare ordine e chiarezza, dall'altra può incorrere nel rischio di tornare sudditi del paradigma scientifico la cui insufficienza si voleva superare: "Tuttavia, è importante evitare di finalizzare la medicina narrativa al solo contesto della cura di un singolo paziente perché non è possibile eludere la richiesta che essa debba essere sottoposta a stringenti requisiti di validità scientifica" (5), si avverte cioè la tentazione di voler a tutti costi oggettivare e reificare, nel senso di trasformare in oggetto, quello che è un rapporto umano dinamico, di scambio di un qualcosa che molto spesso è impalpabile e non misurabile.
Ivan Cavicchi nel suo saggio breve:" Il linguaggio della salute " (6) afferma che la MN posizionandosi per propria definizione   come del " tutto simmetrica alla medicina basata sull'evidenza...diventa  una ipotesi ausiliaria a sostegno del vecchio e macilento paradigma positivista" e pertanto la liquida come un qualcosa che non va al di là della buona pratica clinica.  Cavicchi portando avanti in modo lucido e coerente tutto il suo discorso  sulla  questione medica, insieme alla Medicina Narrativa bastona  e definisce come mode: le "medical humanities", la bioetica, la medicina basata sull'evidenza e persino la slow medicine che viene relegata al meglio del buon senso che si ferma però solo in superficie. Non condivido i toni estremistici di Cavicchi e molte  sue conclusioni, ma  condivido con lui il fatto che l'approccio narrativo, così come viene rappresentato al documento di consenso, corra il rischio di  perpetuare la scissione cartesiana fra scienze della natura e scienze umane e faccia nascere forte anche il sospetto  che il rapporto medico paziente venga alla fine ghettizzato dentro una cornice di un quadro clinico e di una semplice  trama narrativa.
Quale è pertanto il problema? La MN è solo uno strumento utile e una tecnica da dover meticolosamente studiare? E' di fatto una nuova specialità? Solo una moda del momento o un rovesciamento di paradigma tale da dar vita ad una nuova epistemologia? E' senza dubbio difficile poter rispondere in modo chiaro, esauriente e soprattutto coerente. Se vado infatti a spulciare sul web, magari anche sullo stesso sito, compaiono news e articoli molto spesso in contraddizione fra loro in cui  si rileva una continua oscillazione fra la l'esigenza di "regolarizzare" e "uniformare" la competenza narrativa e dall'altra pare di irreggimentarla il meno possibile. In quest'ultima  direzione va l'intervista rilasciata dal professor Antonio Virzì presidente della Società italiana di Medicina Narrativa (7) in cui afferma che alla MN non servono specialisti ma capacità di ascolto e pertanto si dovrebbe più che altro alimentare un movimento culturale che vada in questa direzione...e allora? Poi sorge spontanea, almeno per me, la domanda su come mai si debba registrare la grande assenza della Medicina Generale in tutti questi convegni, in tutte queste occasioni di incontro e di discussioni sulla MN come se fosse un qualcosa che non la riguardi, insomma "roba da addetti al settore"?
A questo punto voglio rispondere da medico di medicina generale o di famiglia come ancora mi piace definirmi e mi si perdonerà qualche tono un po' irriverente, ma mi preme fortemente puntualizzare alcune considerazioni.
Per un medico di famiglia tutto questo clamore sulle narrazioni dei pazienti lascia un po' perplessi in quanto queste narrazioni, queste storie e queste storielle costituiscono da sempre il nostro pane quotidiano. Sono andato a ricercare nella mia biblioteca il "prezioso" volumetto:" Il giudizio clinico in medicina generale" (8) stampato nel luglio 1998, prima di Charon e tanti altri quindi, in cui il primo capitolo è così intitolato: “La medicina generale: la clinica delle storie. L'importanza del raccontare storie in medicina generale". Tutto il capitolo è una serie di racconti di pazienti calati nel setting tipico della MG in cui il primo passo non è quello di capire il  vissuto di un paziente oncologico, di un paziente con deficit cognitivo o portatore di malattia rara, ma di capire perché il paziente ha deciso di venire questa sera da me e che cosa mi vuole significare: un malessere? Una malattia? Un sintomo senza né capo né coda? Un problema di un suo famigliare?   
Il paziente che capita molto spesso non si sente paziente e  nega storie e narrazioni di malattia e pertanto sono completamente d'accordo con Virzì quando afferma che più   di  formare specialisti in medicina narrativa si dovrebbe  favorire le capacità di ascolto da parte dei medici e degli operatori socio-sanitari, favorire una postura, sospendendo, dico io, la  "pretesa" di oggettivare l'incontro di due soggettività, oggettivare cioè la relazione. Credo che si debba lavorare molto proprio su l'importanza e l'inferenza della relazione in senso di co-costruzione del proprio percorso che si fa insieme ad un paziente. Credo infatti che manchi in tanti, proprio in chi è in trincea tutti i giorni, questa consapevolezza e soprattutto se si vorrà aumentare il raggio di azione della medicina generale in senso preventivo e proattivo, questo  della propria consapevolezza e della propria " ecologia"  dovrà essere quasi un imperativo.
Voglio chiudere riportando per intero alcune frasi del sopramenzionato "Il giudizio clinico in medicina generale".
Qualcuno dovesse chiedere di cosa veramente si occupa il medico di medicina generale, gli si potrebbe rispondere che questo tipo di professione cerca, sulla base delle sue conoscenze scientifiche e delle sue competenze professionali, di dare una risposta a coloro i quali, temendo di essere malati, si recano da lui per avere una valutazione competente riguardo alla presenza di malattie e ottenere indicazioni concrete per superare il malessere percepito.....si potrebbe inoltre  spiegare che il medico di medicina generale si dimostra capace di concepire l'infermità che il paziente gli narra proprio grazie al recupero e alla rielaborazione di tutti quegli elementi di conoscenza che medici ospedalieri, specialisti e cliniche universitarie solitamente gettano nel bidone della spazzatura della scienza".





Bibliografia


1) E.Parma : Un ponte tra scienza della natura e scienza umana in " Medicina Generale " a cura di V.Caimi, M.Tombesi, UTET 2003

2) " I Quaderni di Medicina" de Il Sole 24Ore Sanità (Allegato a n.7, 24 feb.-2mar.2015)

3) Ibidem pag 13

4) T.Scarponi: il medico di famiglia cantastorie: la consapevolezza dell'essere per la cura" in Riflessioni Sistemiche n.12 Giugno 2015. Pag 177-178 Website www.aiems.eu

5)  I Quaderni di Medicina" de Il Sole 24Ore Sanità (Allegato a n.7, 24 feb.-2mar.2015) pag 18

6) I.Cavicchi: Il linguaggio della salute. La comunicazione medico-paziente. La questione dei cambiamenti di paradigma in " La professione" trimestrale della Federazione Nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri n. II
anno XVIII- MMXVII

7) Omni-news: Il giornale della medicina narrativa intervista a Antonio Virzì:" Alla medicina narrativa non servono specialisti ma capacità di ascolto" di Viola Rita            8 maggio 2018 website www.omni-web.org

8) di S.Bernabé, F.Benicasa, G. Danti: "Il giudizio clinico in medicina generale " pag XIII XIV,  UTET 1998

 

 


giovedì 18 luglio 2019

I NOSTRI ADOLESCENTI Editoriale pubblicato sul bollettino dell'Ordine dei Medici e Chirurghi della provincia di Perugia n.1-2/19

I NOSTRI ADOLESCENTI
Una PLS mi telefona dicendo che ha un problema con la figlia di due miei assistiti: C.M. di 12 anni. Questa si presenta continuamente in ambulatorio, accompagnata solo ed esclusivamente dalla madre, lamentando cefalea e dolori addominali oltre a presentare un quadro di timidezza quasi patologica e uno scarso rendimento e inserimento scolastico. Alla fine di ogni visita la mamma manifesta però un’unica preoccupazione: non far sapere nulla al marito, altrimenti questo “si arrabbia”. La collega pertanto mi chiede che tipo sia questo genitore, perché ha anche il sospetto che qualche volta arrivi a malmenare moglie e figlia e pertanto aveva l’intenzione di allertare i servizi sociali. Il padre di C.M. è stato uno dei miei primi pazienti all’inizio della mia carriera. Aveva 18 anni quando mi scelse come medico in una delle mie prime sostituzioni del suo vecchio curante che seguitò invece a prendersi cura di tutto il resto della sua famiglia. Questo è sempre stato definito da chi lo conosce nel quartiere, un gran lavoratore ma una “testa calda”, sempre molto irascibile e pronto alle discussioni tant’è che nel tempo ha litigato con quasi tutti i parenti e i vicini di casa. Con me, però, ha sempre avuto un comportamento tranquillo e in quelle poche volte che è venuto a studio per dei piccoli problemi di salute, eravamo soliti scambiarci le nostre storie di come eravamo scampati, ognuno per la propria generazione, al bullismo che imperava nel rione dove eravamo cresciuti. Una volta sposato ha avuto tre figli di cui C.M. è la più piccola, nata a distanza dai primi due fratelli. Dopo le parole della pediatra non ho fatto altro che convocarlo con la moglie, raccontargli tutto e avvisarlo che se la collega mi avesse riferite il perdurare di questa situazione saremmo stati costretti a mettere in discussione per via giudiziaria il suo ruolo di padre ma che io, prima, avrei anche avuto la voglia di “mettergli giudizio” come si faceva una volta nel nostro rione. Sarà stato un caso, sarà stato perché la mamma aveva capito che aveva degli alleati, ma da allora C.M. ha smesso di soffrire di mal di testa e di pancia, è diventata meno timida anche se il rendimento scolastico ha lasciato sempre desiderare. Attualmente ha più di 20 anni, fa la commessa da qualche parte e l’ultima volta che è venuta a studio mi ha presentato il suo fidanzato.  
Che cosa possiamo imparare da questa vicenda pur nella sua apparente semplicità? La definisco semplicità apparente perché se la pediatra non avesse sentito l’esigenza di contattarmi e cercare di mettere in campo il mio patrimonio di conoscenza della famiglia, gli sviluppi del problema forse avrebbero potuto prendere una piega completamente diversa: con l’intervento delle assistenti sociali e forse del tribunale dei minori avremmo avuto un il probabile aumento della conflittualità e della sofferenza di tutto il nucleo familiare.
Che cosa sarebbe di più semplice far transitare le informazioni fra pediatra e medico di medicina generale? Cosa costerebbe mai consultarsi fra di noi quando ci troviamo a dover gestire qualche problema complesso? Purtroppo però le cose più semplici sono quelle meno praticate.
Chi si prende cura dell’adolescente? Questa è una domanda ricorrente. Non più il pediatra, non ancora il medico di medicina generale. Agli inizi degli anni ’90 una sezione provinciale della Società Italiana di Medicina Generale fece un’indagine con un questionario distribuito nelle sale d’aspetto dei propri ambulatori, in cui veniva chiesto a quale figura si rivolgessero per la prima richiesta di aiuto per un eventuale problema di salute: l’amico più grande di età era quello più consultato, poi il farmacista, il pediatra e il MG occupavano una posizione piuttosto bassa. Qualcuno dichiarava di essere andato dal medico di un amico per problemi che riteneva importanti. Certamente se lo stesso questionario venisse distribuito ora, il web, la Rete vincerebbe alla grande: informazione rapida, immediata, ma con quanti e quali rischi? Navigando nel web leggo da più parti dell’opportunità di dar vita ad un nuovo specialista: l’adolescentologo. “ …una figura capace di intercettare e prevenire le problematiche di salute specifiche di questa età, una figura che guardi alla persona come un tutt’uno di corpo e psiche, e in cui la psiche, molto spesso, è quella che comanda.” (1)
Io non sono in grado di dire se questa sia la strada giusta da percorrere, ma colgo l’occasione per alcune riflessioni. In questo ultimo periodo della mia vita, spero solo professionale, mi sto interessando all’approccio complesso e sistemico in una cornice costruttivista pertanto non posso fare a meno di concepire o studiare un problema se non in un’ottica di relazioni e contesti. 
Un organo fa parte di un corpo che appartiene e è anche una persona, questa vive in una famiglia che a sua volta vive in un contesto sociale che si dà in un certo periodo storico. Di questa relazione con questo periodo storico e con questo contesto sociale fa parte anche la mia persona che co-costruisce insieme all’altro da me il contesto e la narrazione del proprio rapporto medico-paziente. E’ impossibile pertanto riuscire al singolo operatore poter rispondere se non in modo riduzionistico a problemi complessi come quello della gestione del “mondo adolescenza”. Si dovrà pertanto ricorrere ad un approccio multidisciplinare, meglio transdisciplinare, in cui ognuno dovrà dare il proprio contributo.
In quale realtà operativa dovrà essere collocato questo tipo di approccio? Senza dubbio nel territorio, in quelle che dovranno essere considerate delle vere e proprie centrali gestionali della salute, mi riferisco alle cosiddette “ Comunità di Pratica” come sono previste nel  Piano Sanitario della Regione dell’Umbria che sta per essere licenziato.”E’ di piena evidenza che la cronicità (e molte altre situazioni dico io) ha le stesse variabili significative di un sistema complesso e la necessità di una visione olistica d’intervento che tenga conto dei bisogni assistenziali, sociali e psicologici della persona. A tal riguardo e al fine di rispondere adeguatamente alla complessità multifattoriale, bisogna utilizzare modelli adeguati alla complessità e attivare politiche centrate sulla persona, rendendo possibile dare risposte di qualità, sicure ed economicamente sostenibili.Nella presa in carico della complessità si sta diffondendo la buona prassi della Comunità di Pratica, come modello inclusivo e partecipativo e definita come un luogo in cui i componenti, che condividono un obiettivo comune, approfondiscono la conoscenza delle problematiche connesse, sono strettamente interconnessi fra loro con rapporti caratterizzati da una forte reciprocità. Le comunità di pratica vanno considerate come aggregazioni informali di limitate dimensioni all’interno di contesti organizzativi formali più ampi e i loro membri condividono  modalità di azione e interpretazione della realtà”.
Poiché mi si chiede di andare al di là delle parole faccio questa ipotesi. Ho censito quanto il mio Distretto Sanitario del Perugino offre al momento per i problemi degli adolescenti e giovani adulti: due sportelli consultoriali e  uno sportello (SAP) di aiuto psicologico dislocati nelle scuole medie superiori, uno sportello universitario, il progetto YAPS basato sulla metodologia della peereducationsempre nelle scuole medie superiori, progetto YAU per l’educazione sanitaria, progetto COM.PRO sul contrasto dell’uso delle smart drugs. Quanti colleghi sono a conoscenza di queste risorse? Nessuno ha mai pensato di poter metterle in rete? Sarà possibile prevedere che i vari problemi che emergono possano essere indirizzati verso una risoluzione che passi attraverso una transdisciplinarietà di competenze capaci di interagire in un contesto biologico quanto psicologico e sociale? 
Sempre nell’ottica di andare al di là delle parole, però, cominciamo intanto noi!  Partiamo dalle realtà più facilmente percorribili con delle azioni semplici, ma già importanti. Il passaggio del ragazzo dal PLS al MMG è un momento che molto spesso viene vissuto come un semplice atto burocratico da fare all’ufficio anagrafe sanitaria della ASL, si dovrebbe invece costituire un vero trasferimento di informazioni e di dati che lo specialista ha via via accumulato negli anni e d’altra parte, il patrimonio delle conoscenze del MMG sulla famiglia dovrebbe essere più considerato e usato. Non si dovrebbe esitare, poi, difronte a dei problemi che coinvolgono tutta la famiglia, a prevedere un intervento simultaneo, ma per fare questo dovremmo essere preparati per cui, uno sforzo formativo integrato dovrebbe essere previsto, come dovrebbe essere prevista una modalità di comunicazione dei PLS con le  neonate Aggregazioni Funzionali Territoriali della Medicina Generale.
Nel 2009 Wonca organizzò a Roma un workshop dal titolo “L’assistenza alla famiglia. Il rapporto fra Pediatra di famiglia  e Medico di Medicina Generale: discontinuità, contiguità o progetto condiviso?”. Al termine dei lavori è stato prodotto un documento di consenso finale che indicava le aree su cui si riteneva necessario continuare a fare una riflessione che portasse ai miglioramenti delle cure primarie auspicati nel workshop. Nel 2015 il direttivo di Wonca Italia decide di iniziare ad elaborare una scheda con un minimo di data set che il pediatra deve compilare al momento del passaggio in cura del ragazzo al MG, sono state sperimentate in una ASL della Brianza e da un gruppo di pediatri veneti, speriamo che prima o poi questa scheda venga istituzionalizzata rendendola anche informatizzata. 
Voglio concludere citando il grande  Paul Watzlawick che ci ricorda come la nostra comunicazione o non comunicazione costruisca sempre  una realtà :Comunque ci si sforzi, non si può non comunicare. L'attività o l'inattività, le parole o il silenzio hanno tutti valore di messaggio: influenzano gli altri e gli altri, a loro volta, non possono non rispondere a queste comunicazioni e in tal modo comunicano anche loro.” 


mercoledì 24 aprile 2019

RICORDI DI ADELAIDE SUSTA. Pubblicato sul Bollettino dell'Ordine dei Medici della provincia di Perugia n 1/2019

RICORDI DI ADELAIDE SUSTA

Penso che sia capitato a tutti di eludere un impegno o un appuntamento. Incoscienza? Paura? E' difficile dirlo, anche perché cercare di capirne le cause, sarebbe comunque un modo di affrontare la questione e pertanto scatta quasi automatico il meccanismo della freudiana rimozione. Cara Ade, è passato più di anno da quando ci hai lasciato e solo ora trovo il coraggio e la disponibilità mentale di parlarti.
Non me ne volere! Provo anche un senso di colpa...ho visto come i tuoi e nostri amici ti hanno commemorato al Centro Fiere di Bastia insieme ai tuoi pazienti e concittadini, e si! C'ero anch’io tra il pubblico e mi sentivo crucciato per non averti dedicato nemmeno una riga da condividere con te insieme a tutti gli altri sul palco, ma ero come immobilizzato, come quando nei sogni cerchi di scappare via da chi ti insegue per prenderti, ma più corri e più resti nello stesso punto. 
La prima volta che ci parlammo in modo più personale fu in occasione di una manifestazione contro l'allora ministro della salute De Lorenzo, in cui quasi tutti i medici italiani marciarono su Roma per protestare contro l'aziendalizzazione della sanità. Ci trovammo per caso vicini di poltrona nell'autobus che ci portava verso la capitale e dopo che ci presentammo a vicenda, senza tanti convenevoli, incominciammo a parlare a briglia sciolta. Era come se ci fossimo conosciuti da sempre. Fui colpito dalla tua fierezza e determinazione nell'esporre la tua visione della vita, ti ponesti subito nuda senza minimamente preoccuparti di chi avevi davanti, indifferente ad eventuali giudizi e critiche. Mi ricordo che in quei giorni scioperavano i Monopoli di Stato e i tabaccai non venivano riforniti dei normali quantitativi di sigarette e pertanto compravamo quello che trovavamo. Durante una sosta scendemmo dall'autobus per fumare, io accesi una sigaretta dopo aver strappato il filtro perché troppo leggera, mentre tu accendesti un vomitevole "sigarino" esclamando:" Guarda come ci hanno ridotto questi pezzi di m...a!".
Da quella volta è nato un rapporto di stima reciproca, almeno credo, per cui spesso ci sentivamo per problemi soprattutto legati alla Società Scientifica e al Sindacato. Quante volte telefonavo a casa tua dopo le ore 21 e mi rispondeva Mimmo che con tranquilla rassegnazione mi diceva che eri ancora in ambulatorio.
Quella volta che andammo, sempre a Roma, a frequentare un corso sul colloquio motivazionale legato al cambiamento degli stili di vita deridendoci a vicenda, in quanto tu non eri mai riuscita a smettere di fumare e io a mettermi a dieta. 
E quell'altra volta ancora al teatro dell'ONAOSI, in occasione di un convegno nazionale della Società Italiana di Geriatria in cui noi, unici medici di Medicina Generale della faculty,dovemmo sostenere le tesi della Medicina di Famiglia nei confronti dei più illustri geriatri del momento: non arretrammo di un centimetro.
Mentre scrivo sto scorrendo le foto del tuo profilo FaceBookche i tuoi figli giustamente hanno mantenuto e seguitano ad alimentare. Vedo le tue immagini: una di ragazza, qualcuna di donna giovane, la maggior parte di donna matura che è come ti ricordo. I tuoi abbracci con il tuo adorato Domenico. I tuoi capelli nero corvino di un tempo man mano sempre più grigi e anche l'espressione del volto sempre più stanca...la tua malattia. Oramai ci avevi abituato a ritenerti quasi invincibile e quando mi arrivava la notizia di un’ennesima recidiva quasi quasi non ci prestavo neanche più attenzione, convinto della tua ennesima remissione.
Non voglio perdermi nella ripetuta descrizione delle tue immense qualità umane e professionali, altri meglio di me lo hanno fatto: il tuo attaccamento alla professione e ai tuoi pazienti che spesso anteponevi anche ai tuoi famigliari. Il tuo essere moglie, madre, donna.
La tua veemenza nel prendere la parola durante le assemblee e le riunioni professionali che spesso, soprattutto in chi non ti conosceva, poteva scatenare qualche punta di irritazione.
Ti voglio salutare, pertanto, con lo stesso post che pubblicai sul tuo profilo FaceBook nel luglio del 2014 poco dopo l'uscita della tua raccolta di poesie "L'oltre", che meglio di tante altre parole rappresenta chi eri, anzi, chi sei!

Cara Ade, ho letto e riletto la tua raccolta di poesie "L'oltre" pubblicata da Morlacchi Editore, come ho provato e riprovato a scrivere qualcosa di commento. Ogni volta comincio e poi mi fermo. Che vuoi che ti dica? Mancanza di coraggio? Preoccupazione di come potresti interpretare le mie considerazioni? Probabilmente si, ma questa notte ho deciso di vincere questa mia resistenza. Ade, ti conosco da quando io, tu e Domenico abbiamo cominciato a muovere i primi passi della nostra vita professionale, oramai tanto tempo fa, e da subito mi colpisti per il tuo impeto con cui affrontavi qualsiasi problema. Con te non esistono le mezze misure e i mezzi colori, con te sono difficili mediazioni e concertazioni.....sei fatta così, frutto della tua focosa parte siciliana mescolata con la tua rude parte umbra. O tutta gioia o tutto dolore, tutto amore o tutta disperazione, ed è proprio questo che traspare nel leggere i tuoi versi.
" L'assenza è esplosa" affermi da qualche parte e con questa deflagrazione ammutolisci e fai ammutolire...."sangue sul selciato", "non resta il tempo", "prognosi" sono versi che non danno adito ad altri sentimenti se non al dolore, alla rabbia, alla disperazione. Le parti più belle, quelle che ho letto più volentieri e quelle che danno il senso "all'oltre" sono quelle in cui il dolore e la disperazione cominciano ad affievolirsi, a scemare, a trasformarsi in tristezza, nostalgia, rimpianto.........e mi piace chiudere con quella che sottolinea questo passaggio e che per me è la più bella:

" Le strade"

Ripercorro le strade che tu mi insegnasti, serpenti che attraversano i colli verdi del maggio.
 Macchie di rosso richiamano il sangue dal cuore al cervello. E piango.
 Ripercorro le strade e ti parlo con la voce spezzata, poi taccio e ricordo la tua assenza improvvisa.
 Ascolto il dolore. Ripercorro le strade, mi illudo che tu ci sia, in fondo, ad aspettarmi ridente"

sabato 9 febbraio 2019

LA CURA DEL MEDICO. Editoriale pubblicato sul Bollettino dell'Ordine dei Medici e Chirurghi della Provincia di Perugia N.4/2018

LA CURA DEL MEDICO

Sono quasi le 20 e spero di essere finalmente arrivato alla fine di una seduta ambulatoriale che sembrava non terminare mai. Mentre esce l’ultimo paziente che ho appena visitato, do una sbirciatina alla sala d’aspetto e vedo seduto in un angolo, pallido e con lo sguardo fisso al pavimento, F.D.  Questo è un collega, medico di famiglia anche lui, che abita vicino al mio studio ma non figura nei miei pazienti. Non lo conosco molto bene anche se siamo coetanei in quanto non partecipa quasi mai agli appuntamenti istituzionali di sindacato o di aggiornamento professionale e frequenta giri amicali diversi dai miei. Entra per ultimo con un’aria molto preoccupata e, senza guardarmi negli occhi e senza un mimino di preambolo, dopo un breve saluto inizia a raccontarmi che sono quasi dieci giorni che lamenta un quadro clinico costituito da tosse secca, febbre che di sera arriva a 38°con  poliartralgie, mialgie e astenia. Ha iniziato subito a prendere una compressa ogni 8 ore di amoxicillina con acido clavulanico senza esito, per cui ha iniziato ceftriaxone 2 grammi die, ma con scarsi risultati. Anzi! E’ comparsa una diarrea con feci quasi liquide e una glossite e stomatite veramente fastidiose. Mi confessa che non sa che decisione prendere e prima di ricoverarsi in ospedale avrebbe gradito di “essere visitato da me perché, nonostante ci avesse provato, non era stato in grado da solo di auscultarsi il torace”. Lo visito e non trovo nulla all’esame obiettivo. Cerco di rassicurarlo dicendogli che probabilmente per l’ansia aveva esagerato con gli antibiotici che gli avevano “sconvolto” l’intestino. Non era necessario nessun ricovero e conveniva iniziare ad assumere un macrolide e effettuare eventualmente una radiografia del torace se dopo 72 ore non fosse sfebbrato. Dopo qualche giorno mi telefona per ringraziarmi. Aveva seguito il mio consiglio e ora stava bene e riconosceva che  in effetti si “era  fatto prendere troppo la mano dall’ansia che noi medici proviamo quando ci ammaliamo”.
Ho voluto raccontare questo episodio, che mi è capitato qualche anno fa, perché abbastanza paradigmatico per introdurre l’argomento che abbiamo affrontato Il 24 novembre u.s.nella sede del nostro ordine professionale in occasione di  un interessante convegno dal titolo:” Il medico che cura il medico: la relazione di cura quando il paziente è un medico”. A dire il vero mi sarei aspettato il tutto esaurito, perché il problema è di estrema importanza e ci riguarda da vicino in quanto tutti abbiamo fra i nostri pazienti dei colleghi e a tutti è capitato o capiterà di essere un paziente. Di specifico, poi, sulle modalità di assistere e del prendersi cura dei colleghi in letteratura c’è veramente molto poco, mentre è molto ricca l’offerta di libri, film e racconti di medici che narrano le proprie storie di malattia. Tra queste c’è anche la mia che ho descritto in modo dettagliato nel mio blog (https://tizianoscarponi.blogspot.com/2013/06/questa-volta-e-capitato-me-racconto.html)di cui riporto i passaggi che più mi servono a descrivere i vissuti e le aspettative di un medico che deve essere curato. Tutto è accaduto nel giugno del 1999, all’età di 47 anni allorché mi trovavo a Firenze per fare il docente alla Scuola Europea di Medicina Generale. All’improvviso, di notte, mentre stavo per addormentarmi nel letto dell’albergo: dolore toracico, 118, ospedale Careggi, angioplastica. Mi trovo al mattino “crocefisso” in unità coronarica quando
Buongiorno, le chiedo scusa, ma devo farle un’ecocardiografia” dice un giovane medico spingendo il carrello con l’ecografo. Rispondo positivamente con lo sguardo, viene tirata la tenda scura alla finestra per fare un po’ di buio per vedere meglio le immagini ed il mio torace viene spalmato con quel gel dove poi viene appoggiata la sonda. Il collega borbotta tra sé e sé, non mi degna di uno sguardo mentre guarda il mio cuore e alla mia domanda se poi vada tanto male mi risponde in maniera evasiva con un giro di parole la cui sintesi è che poteva andare peggio, e va via. ”Poco dopo:” Eccolo il nostro collega ” entra dicendo così un medico di qualche anno più vecchio di me . Insieme  ci sono due infermiere che  spingono  il carrello con le cartelle ed altro. “ Dunque, fai il medico mutualista vero? Allora ti spiego quello che abbiamo fatto…..” Comincia così a farmi una lezione di fisiopatologia coronarica, di cardiologia interventistica come se a me in quel momento  importasse qualcosa di quelle informazioni. Probabilmente dovrei dare la sensazione di essere interessato, perché seguita a parlare imperterrito, parla di trombi e di cateteri senza minimante preoccuparsi delle mie emozioni e del mio stato d’animo.Soddisfatto, mi stringe la mano e passa all’altro letto mentre le infermiere mi sorridono dolcemente e lo seguono spingendo il carrello. E pensare che avrei voluto chiedergli tante cose: se ce la potevo fare, che ne sarebbe stato del mio lavoro, della mia famiglia...ma possibile che  nessuno si renda conto che in questo momento non sono più un medico, ma semplicemente un essere umano con le proprie ansie ed angosce, con delle richieste normali…che me ne importa sapere dove hanno messo e che tipo di “stent” mi hanno messo?Io voglio sapere se mi sarà più possibile correre per la città a fare le visite domiciliari, se potrò più affrontare la fatica e lo stress delle mie sedute ambulatoriali, se potrò più inquietarmi con i miei figli quando non danno retta, se potrò” più amare mia moglie….
Se dovessi riassumere in una battuta tutto il problema, lo farei cercando di rispondere a questa domanda:” Il rapporto medico-paziente medico è qualcosa di diverso da qualsiasi rapporto medico-paziente? E se si perché?” Ovviamente non ho risposte precise, ma provo a scrivere quello che vedo nella mia esperienza quotidiana, avendo fra i miei pazienti iscritti diversi colleghi appartenenti a quasi tutte le categorie: direttori di clinica, specialisti e medici generali, colleghi in pensione.  In teoria il medico dovrebbe essere un paziente modello perché informato e conoscitore delle reciproche aspettative ma se ci chiediamo come sia la sua frequenza in ambulatorio e la sua aderenza alle terapie, il suo rispetto di eventuali follow-up e il riportare i risultati delle analisi e degli accertamenti per discuterli o annotarli in cartella,  penso che a queste domande ognuno di noi risponderebbe in modo negativo. Secondo la mia esperienza infatti il collega è un paziente problematico perché tende a fare il self service, è molto insofferente per i tempi di attesa e la burocrazia in genere, raramente discute sulle varie opzioni diagnostiche e terapeutiche, ma soprattutto quasi sempre il suo lavoro viene prima della sua salute. 
Molto spesso chi svolge professioni sanitarie parla poco delle proprie condizioni fisiche: una specie di tabù da non infrangere. A lungo è poi esistita una specie di congiura del silenzio per quanto riguarda la salute dei medici e, le indagini epidemiologiche svolte su di loro sono pubblicate con quella specie di ritegno che si addice a chi predica bene e razzola male (1). E’ esperienza quotidiana di noi tutti vedersi come onnipotenti e invulnerabili e l’eventuale malattia costituisce come il contrappasso che ci obbliga a sentirci all’improvviso in una situazione di incertezza e di ansia, tipiche dell’essere paziente. “La competenza diagnostica di un clinico può anche essere eccellente, eppure, se egli tenta di occuparsi da solo della propria salute, può giungere a delle conclusioni sbagliate con un senso dell’urgenza falsato o sottovalutato a causa dell’ansia” (2)
Quali sono gli errori da evitare? “E’ inutile che chieda a me, lui sa benissimo che cosa si deve fare in questi casi”, evitando così di assumersi la responsabilità della cura. Trattare il collega come un perfetto paziente estraneo a cui non si spiega nulla, che non viene messo al corrente del suo stato, anche della prognosi “ tanto lo capisce da solo”. Il medico che cura un collega non ha di fronte un paziente come un altro; ha un paziente tecnicamente più consapevole, ma emotivamente coinvolto come chiunque altro. E’ necessario quindi un atteggiamento di parità per quanto riguarda l’informazione, ma particolarmente attento per quanto riguarda la presa in carico delle emozioni la cui esistenza viene spesso più o meno coscientemente misconosciuta. Attenzione anche nel dire :” So cosa prova!” infatti si pronuncia un’approssimazione, di cui ci si rende conto quando a nostra volta malati, ci sentiamo dire la stessa frase. Pertanto la propria malattia, se pur con tutto il suo dolore e dramma, per il medico può costituire anche un momento di consapevolezza professionale, cioè una palestra di significati:” Il dolore atterrisce oppure rivoluziona” dice la mia amica Scardicchio  nella sua ultima fatica (3).
Come al solito non ho detto nulla che già anticamente non sia stato già detto, già nella notte dei tempi. La prima figura che incontriamo,infatti, che abbia a che fare con l’attività medica è quella del centauro Chirone. Chi era Chirone? Egli era il più sapiente e il più buono dei Centauri ( creature abitanti dei boschi, su cui corpi di cavallo, al posto del collo, erano attaccati tronchi umani) e per questo era detto anche “dalla doppia natura”. In lui si riassumeva infatti la natura animale: il corpo e l’istinto e quella umana: la psiche, lo spirito. Venne ferito per errore da Ercole  con una freccia  avvelenata  che gli procurò dolori e tormenti indescrivibili e questo lo costrinse a provare e studiare terapie e cure, da qui la sua arte terapeutica, senza successo però nel suo caso.. Il mito, quindi, pone l’accento sul paradosso di un guaritore, ferito a sua volta, che non riesce a guarire se stesso, sottolineando così la grandezza ed il limite  della nostra attività terapeutica. Jung da Chirone ha ripreso l’archetipo del guaritore ferito: l’archetipo racchiude in sé due polarità opposte, in Chirone infatti si compenetrano medico e paziente, guaritore e ferito. E’ un grande medico poiché conosce la propria ferita che simbolicamente lo unisce al mondo dei malati. Chirone non studia la malattia dell’altro, ma la riconosce.
Il nostro Centauro Chirone non potendo sopportare più il dolore e la sofferenza vuole morire, ma essendo immortale in quanto semidio deve chiedere l’intervento di Zeus il quale lo accontenta scambiando la sua immortalità con quella di Prometeo.
Ma poteva un guaritore della sua portata finire così? Senza lasciare una traccia tangibile? Assolutamente no, allora viene trasformato nella costellazione di centauro e così ancora oggi qualsiasi mortale può osservarlo mentre splende nel cielo.

BIBLIOGRAFIA

1)Forsythe M et al. Doctors as patient: postal survey examining consultants and general practitioners adherence to guidelines. BMJ 1999; 319: 605.
 O' Connor M et al. Do doctors benefit from their profession? A survey of medical practitioner's health promotion and health safety practices. Irish Medical Journal 1998; 91
2)Marsh B.T. Fare il paziente. In: Il medico quasi perfetto. Roma: Pensiero Scientifico, 1988.
3)A.C.Scardicchio in “La ferita che cura : dolore e sua possibile collaterale
        bellezza” 2018 Anima Mundi  Ed.




domenica 27 gennaio 2019

Post pubblicato su FaceBook il 12 gennaio 2019



Decadimento cognitivo. Demenza aterosclerotica o Alzheimer o a corpi di Lewy...o altri nomi con cui noi medici etichettiamo chi perde progressivamente la memoria di se stesso e quindi del proprio essere nel mondo insieme agli altri. Quando sei coinvolto direttamente con un tuo parente stretto, però, tutte queste etichette non ti aiutano più. Vedi e tocchi con mano la perdita di capitoli e di intere pagine della sua STORIA: prima quella più recente e poi man mano sempre più, anche quella più antica. Giorno e notte, passato e presente, caldo o freddo, mamma o figlia diventano sempre più immagini e categorie che si fondono, si appiattiscono e a te che lo stai guarandoi e lo stai sentendo non ti resta che guardarlo e sentirlo ancora con i ricordi della TUA memoria.