In un giorno triste come questo per Perugia, tale post potrà sembrare fuori luogo, ma qualche nota di semplice calore umano non guasta.
Questa mattina sono andato a domicilio di una mia paziente ultranovantenne per sottoporla a vaccinazione antinfluenzale. Vive da sola con la badante ucraina e trascorre il suo tempo alternandosi fra letto e carrozzella e, come dice lei, ad ascoltare la tevisione in quanto i suoi occhi hanno smesso di vedere da un bel pezzo. Mentre la vaccinavo mi riferiva che erano due o tre giorni che la notte non riusciva a prendere sonno in quanto la sua mente era occupata dal ritornello di una vecchia canzione di Modugno di cui ricordava qualche nota e pochissime parole. Parole che parlavano di un vecchio in frac...ma questo non ricordo vorticava nei suoi pensieri in maniera ossessiva e questo, oltre a renderla insonne, la infastidiva alquanto. Poiché provava ad accennare questa canzone senza riuscirsi, mi è venuto quasi spontaneo iniziarla a cantare io, dal momento che la conoscevo benissimo essendo un pezzo che ha accompagnato qualche buona stagione della mia prima giovinezza. Come per incanto alla vecchia signora si è riaccesa la memoria e come due ragazzini abbiamo cantato insieme, non certo sottovoce, non solo il ritornello ma anche qualche strofa davanti alla badante che ci guardava stupita ed incredula.
Alla fine la mia paziente quasi piangendo, mi ha ringraziato. Mi ha detto che le erano tornati in mente tanti bei ricordi e che mi avrebbe chiamato a casa sua più spesso per cantare insieme.
Dovrò senza dubbio rinfrescare il mio repertorio!
lunedì 30 novembre 2015
sabato 24 ottobre 2015
APPROPRIATEZZA,PUNIZIONE,SICUMERA. Editoriale pubblicato sul Bollettino dell'Ordine dei Medici-Chirurghi ed Odontoitari della provincia di Perugia n.3/2015
APPROPRIATEZZA, PUNIZIONE,
SICUMERA.
E' di questi giorni la grande
eco mediatica sul problema dell'appropriatezza prescrittiva da parte dei medici
e sulle eventuali ricadute dalla sua inosservanza.
Premetto che non è mia
intenzione affrontare il problema da un punto di vista scientifico, sindacale,
sulla sua opportunità e pertinenza, no! Senza dubbio girano in rete e nella
carta stampata pareri e argomentazioni di colleghi molto più qualificati e
titolati di me: uno per tutti Nino Cartabellotta, presidente della fondazione
GIMBE, che nel suo articolo:" Alla ricerca dell'appropriatezza
(s)perduta" sul Sole 24 ore Sanità del 13 ottobre u.s. esprime concetti ed
opinioni che condivido in pieno e ne voglio riportare alcuni.
"....1) I
criteri di appropriatezza professionale derivano dalle evidenze scientifiche o,
in assenza di queste, da processi di consenso formale.
2) L’inappropriatezza
professionale può essere in eccesso (overuse) o in difetto (underuse): ridurre
la prima permette di recuperare risorse, implementare la seconda richiede
investimenti. Di conseguenza, qualunque strategia per ridurre
l’inappropriatezza professionale deve essere guidata dal principio del
“disinvestimento e riallocazione”, perché in tutti i percorsi assistenziali
convivono aree di overuse e di underuse.
3 Una
prescrizione non può essere dicotomicamente classificata come
appropriata/inappropriata: esiste una categoria intermedia di dubbia
appropriatezza influenzata dalle zone grigie della ricerca, dalla variabilità
di malattie e condizioni e dalle preferenze e aspettative di cittadini e
pazienti.
4 Secondo la scienza che studia come modificare
i comportamenti professionali non esistono evidenze che supportano l’efficacia
delle sanzioni economiche per ridurre l’inappropriatezza prescrittiva.
5. Il
continuo incremento dell’offerta e l’utilizzo indiscriminato delle tecnologie
diagnostiche contribuisce all’eccesso di medicalizzazione della società perché
la tecnologia, profondamente radicata nel nostro concetto di malattia e nella nostra
cultura, genera atti di fede non basati sulle evidenze.
6. È
indispensabile ricostruire un’adeguata relazione medico-paziente, fornendo
informazioni bilanciate su rischi e benefici degli interventi sanitari,
permettendo così al paziente di prendere decisioni realmente informate.
7. Le
Istituzioni devono informare adeguatamente cittadini e pazienti sull’efficacia,
sicurezza e appropriatezza degli interventi sanitari, al fine di arginare
quell’asimmetria informativa tra ricerca e assistenza, che genera aspettative
irrealistiche nei confronti di una medicina mitica e di una sanità infallibile,
aumentando il contenzioso medico-legale.
Il servizio sanitario nazionale non è un supermercato dove
chiunque ha diritto a tutto!"
Quest'ultima affermazione, poi, richiama molto la filosofia che
ha ispirato l'intervento del nostro Ministro della Salute Beatrice Lorenzin
all'ultimo congresso, cui ho partecipato, del mio sindacato FIMMG che si è
tenuto nei primi di questo mese di ottobre. Nella sostanza l'Onorevole ha detto
che tagliare l'inappropriatezza non vuol dire praticare dei tagli lineari, ma
vuol dire semplicemente recuperare delle risorse ed allo stesso tempo
professionalità da parte nostra. Aggiungo che questo suo intervento ha ottenuto
un applauso spontaneo e prolungato da parte di una platea che l'aveva accolta
all'inizio in maniera fredda se non proprio ostile, forse la definirei "mugugnante" tanto per essere
"appropriati".
Posto in questi termini il problema appare risolto, condiviso e
tale da non lasciare tanta preoccupazione, è proprio così? Forse, però, il vero
problema da affrontare comincia quando è giunto il momento di capire come e chi
debba giudicare l'eventuale atto non appropriato.
Non tutti sanno che esiste un gruppo Facebook, gruppo chiuso che
si chiama:" Medici
di Medicina Generale dell'Umbria" amministrato da me, in
cui i vari colleghi che si sono iscritti, per lo più medici di famiglia,
esternano in maniera libera: fatti, aneddoti, perplessità, curiosità. Insomma
c'è di tutto e di più come sa bene che frequenta i social network. E' della
settimana scorsa la condivisione con il gruppo, da parte di una dottoressa di
Medicina Generale del comprensorio del Trasimeno, del referto di un ecodoppler
delle arterie renali rilasciato da un reparto che segue soprattutto la medicina
vascolare della nostra azienda ospedaliera. La collega ha
"scannerizzato" il documento e l'ha "postato" oscurando il
nome del paziente. Lo specialista che ha refertato l'accertamento, dopo aver
descritto la quasi normalità delle arterie in esame ha ritenuto opportuno
aggiungere un commento che trascrivo per intero e fedelmente, rispettando anche
il carattere in grassetto usato dall'autore per dare risalto ad alcune
parole:"...Per completezza
informativa si rimanda a recente studio clinico internazionale (CORAL study, NEJM Nob 2013) che
evidenzia come una " high quality medical treatment" risulti
superiore ad ogni tentativo di rivascolarizzazione, in caso di stenosi
ateromasica dell'arteria renale, e ciò sia
per l'ipertensione che per l'insufficienza renale ( per quest'ultima il
dato era già noto dallo studio ASTRAL).
Il corollario è che la ricerca sistematica della stenosi renale non ha
comunque alcuna ricaduta decisionale, sia che venga confermata oppure esclusa,
sia per l'ipertensione secondaria e sia per l'insufficienza renale."
Ho voluto chiamare in causa quest'episodio perché mi sembra
quasi paradigmatico su come potrebbe evolvere il problema dell'appropriatezza.
Tralascio di riportare i commenti che sono partiti in quest'occasione perché,
come ho detto all'inizio, non ho nessun intento scientifico e sindacale. Quello
che mi preme, invece, è enfatizzare la delicatezza e la difficoltà nel dover
giudicare un atto medico non contestualizzato, il grande rischio di
conflittualità che potrebbe derivare con i conseguenti risvolti deontologici e
soprattutto il grave danno ( come se non bastassero quelli già in atto) che subirebbe la nostra figura di medico, a
qualunque categoria essa appartenga.
Non credo che questa " lezione" impartita in maniera
così discutibile, su un referto che è stato consegnato nelle mani del paziente
sia un buon esempio di comportamento appropriato, scientificamente forse si, ma
non certo dal punto di vista relazionale e deontologico.
Speriamo che i " professori" che istituzionalmente
saranno demandati a giudicare, oltre alla competenza scientifica abbiano anche
un minimo corredo di buon senso.
domenica 27 settembre 2015
INTRODUZIONE AI LAVORI DEL CONVEGNO:" VERSO UNA MEDICINA COMPLESSA,SISTEMICA,ECOLOGICA.UNA RIFLESSIONE SULL'EVOLUZIONE DELLA MEDICINA. Perugia sala Sant'Anna 26 settembre 2015
Perché una medicina
complessa, sistemica ed ecologica?
I Servizi Sanitari dei paesi occidentali
sono a rischio di implosione. L'invecchiamento della popolazione con il carico
di patologia cronica che comporta comorbosità e altissimi costi gestionali, lo
sviluppo della tecnologia medica e dell'informatica applicata, la multietnia,
un nuovo concetto di salute sono problematiche che impongono una rivisitazione
dei modelli di pensiero, di paradigma da cui poi progettare la medicina e
l'assistenza sanitaria. non ci possiamo più permettere sprechi di risorse
economiche, risorse umane e tanti altri sprechi che derivano da un procedere a
compartimenti stagno, ognuno per la propria strada curando un paziente come se
fosse un'isola senza contatti con il proprio ambiente, la propria socialità e
psichicità. Ecco che pertanto dovranno essere riprogettati i modelli del
prendersi cura sia nel territorio che nell'ospedale. Quali sono al momento le
risposte che vediamo: cronic care model
nel territorio con la nascita delle Case della Salute e delle Unità di Cure
Primarie. Ospedali progettati sull'intensità di cura, ma questi saranno solo
dei contenitori molto approssimativi se prima non verrà fatto un salto di
metodo, un salto epistemologico, e per fare questo, siamo di fatto obbligati a
ragionare in termini di complessità, di sistema e vedremo perché anche in
termini ecologici.
Mi sia permesso di poter
allargare il panorama della riflessione, superando per il momento l'orizzonte
medico e sanitario per ragionare in termini più ampi e più planetari.
Il periodo storico che
stiamo vivendo sta sperimentando una crisi profonda. Il nostro pianeta è messo
in situazione critica da quelli che sono i problemi cruciali, ne elenco
qualcuno: inquinamento dell'ambiente, l'approvvigionamento dell'energia, la migrazione
biblica dei popoli che però seguitano ad essere studiati separatamente e non si
prova a vederli come problemi sistemici, interconnessi e interdipendenti e
questo perché? Come hanno ben evidenziato
Capra e Luisi nel poderoso "Vita e
Natura una visione sistemica "
questo dipende" soprattutto da una
crisi di percezione, una percezione della realtà oramai obsoleta ed inadeguata.
Si deve pertanto cambiare percezione e infatti l'avanguardia della scienza
contemporanea non vede più l'universo come una macchina composta da tanti
componenti......ma una rete di configurazioni di relazioni inseparabili...La
concezione del corpo umano come macchina e della mente, come entità separata
viene rimpiazzata da un'altra idea che non vede solo il cervello, ma anche il
sistema immunitario, i tessuti e persino ogni cellula come un sistema cognitivo
vivente".
Una concezione
pertanto complessa nell'accezione
etimologica ( da complector) che vuol
dire legata, che unisce, congiunge.
Allo stesso tempo anche sistemica in quanto studia le
relazioni, le configurazioni e i contesti, ma allo stesso tempo anche ecologica.
Anche qui per capire bene dobbiamo rifarci al
significato originario della parola ecologia che è la scienza che studia le
relazioni fra gli organismi e l'ambiente a 360 gradi: relazioni fra organismi
della stessa specie, di diverse specie, con l'ambiente. Ecologica però nel senso di ecologia profonda come l'ha delineata per primo il filosofo ed
alpinista norvegese Arne Naess che distinse
un'ecologia superficiale: un'ecologia che prevede al centro l'essere umano che
manipola la natura a suo uso e consumo e
pertanto deve quasi inventare una scienza per la limitazione dei danni. L'ecologia
profonda, invece, prevede la natura come obiettivo in quanto tutti gli esseri
sono "sfaccettature di una singola
realtà in svolgimento e nessuna specie vivente può beneficiare maggiormente del
particolare diritto di vivere e riprodursi più di qualsiasi altre specie".
Questo concetto rimanda ovviamente anche ad una dimensione spirituale e quasi
metafisica che però, non mi interessa approfondire in questa occasione. Quello
che mi interessa enfatizzare, invece, sono soprattutto le conseguenze pratiche
ed operative che derivano da questo cambiamento di paradigma che colloca l'uomo
all'interno della natura affermando una empatia relazionale, non più quindi una
gerarchia verticale, ma una rete che tende a spingere verso una autorealizzazione
e autoconsapevolezza.....in pratica ad un empowerment,
ed è questo il vero concetto del prendersi cura in un'ottica di medicina
moderna.
Ecco quindi il senso per
noi degli attributi: complessa, sistemica e ecologica della medicina
Mi piace concludere questa
mia breve introduzione richiamando alla memoria il primo scritto sistemico e
ecologico della letteratura italiana. E ‘una poesia e allo stesso tempo una
preghiera che è una lode a Dio, un inno
alla vita e a tutta la natura.
Mi piace ricordare che la
nostra amata Umbria gli ha dato i natali.
venerdì 28 agosto 2015
ERAVAMO QUATTRO AMICI AL.......L'ORDINE DEI MEDICI. Editoriale pubblicato sul Bollettino dell'Ordine dei Medici-Chirurughi e Odontoiatri della Provincia di Perugia n 2/2015
Eravamo
quattro amici al.......l'Ordine dei Medici
Di solito le riunioni del comitato di redazione, piuttosto rare, di
questo bollettino procedono in modo tranquillo e pacato, ma quest'ultima volta
non è stato così.. Il dottor Giuseppe Quintaliani, ha portato alla nostra
osservazione un articolo del BMJ che riportava un racconto del dottor John
Dean, un cardiologo inglese,dal titolo:" L'attività medica privata è
immorale e i medici dovrebbero rinunciarvi".
In pratica, il collega d'oltre Manica esordisce cosi:"
Prova a chiedere a un fumatore: l’ultima persona con cui vorrebbe stare mentre
si sta accendendo una sigaretta è una che ha appena smesso di fumare. Ecco, io
sento un disagio analogo con i miei colleghi da quando ho lasciato l’attività
privata».
Prosegue dicendo
che ad un certo momento della sua vita professionale, pur non essendo amante
della vita lussuosa ed agiata, aveva accettato di affiancare alla sua attività
nell'ospedale pubblico anche quella privata. Dover crescere i figli, dover
ristrutturare la casa gli erano sembrati degli ottimi motivi per questa scelta,
ma con il passare del tempo:" Mi
sono reso conto, in coscienza, che non potevo continuare. Non importa quanto
siano alti i tuoi standard morali e etici: non puoi sfuggire al fatto che sei
coinvolto in un business dove la condotta di alcuni - che è al limite del
criminale - è finalizzata a predare i bisognosi». il dottor Dean
sottolinea il concetto che alla fine si verifica la condizione per cui i soldi
contano più della salute dei pazienti ed incidono anche sulla qualità delle
prestazioni offerte dal SSN in quanto
«non si può essere in due posti
contemporaneamente, perciò il tempo speso nel privato priva il servizio
sanitario di una valida risorsa».». Ma soprattutto perché svolgere l’attività
privata cambia, per un medico, il modo in cui pratica la medicina. E lo fa in
peggio. Un esempio?
«È difficile convincere un paziente privato a
non ricorrere a esami e trattamenti non necessari anche se lo fai con i pazienti del servizio sanitario.
Perciò, per evitare lo stress di questa dissonanza cognitiva, devi adottare lo stesso sistema
in entrambe le parti della tua attività». In questo modo le prestazioni
inappropriate vengono incentivate non solo nel privato, ma anche nel pubblico.
Inoltre «l’attività privata crea un
perverso incentivo ad aumentare le liste d’attesa nel pubblico: dopo tutto,
maggiori sono le liste d’attesa più cresce l’attività privata».
Il nostro
Quintaliani ha concluso il suo discorso affermando di essere fortemente in
linea con queste considerazioni e, proprio per questo, a suo tempo ha fatto la
scelta del tempo pieno e di rinunciare a qualsiasi tipo di attività privata.
Come era logico
aspettarsi, la reazione dei colleghi liberi professionisti è stata
immediata......si può avere un comportamento perfettamente etico anche da
medici che lavorano esclusivamente nel privato, come noi
odontoiatri....qualche perplessità ci potrebbe essere in chi come il
cardiologo inglese opera contemporaneamente
nel privato e nel pubblico...no, assolutamente tutto dipende dalla
persona e dalla moralità del collega.....
Ovviamente non
siamo arrivati ad una conclusione, anzi, il giorno dopo c'è stato anche una
coda della discussione attraverso scambio di posta elettronica. Io pure non ho
risposte da dare. Mi congedo da Voi augurando a tutti delle buone vacanze, con
la speranza che questo editoriale possa suscitare qualche ulteriore dibattito e
riflessione in merito e che ci sia un seguito con lettere o email.
martedì 25 agosto 2015
CONFLITTO E CONCERTAZIONE NELLA RELAZIONE FRA MEDICO DI MEDICINA GENERALE E PAZIENTE . Relazione tenuta a Monteluco di Spoleto il 24 agosto 2015 in occasione della IV Vacanza Studio AIEMS ." Approcci sistemici alla risoluzione del conflitto nelle relazioni umane"
Medico di
medicina generale, medico di famiglia, medico di base, medico generico.....di
solito, quando un qualcosa o un qualcuno può essere appellato in tanti modi
vuol dire che non è né carne né pesce.
Vuol dire che manca di una specificità, può essere inteso e interpretato in
tanti modi.
Ovviamente,
se l'attributo principale è generale, non possiamo aspettarci qualcosa di
diverso, se è generale, non può essere specifico o particolare.....ma giuochi
di parole e paradossi a parte, essere medico di medicina generale significa
essere medici in una modalità particolare, senz'altro diversa dal medico che
lavora in ospedale o da qualsiasi altro specialista.
Se
chiediamo a chicchessia chi è e che fa un cardiologo o un urologo abbiamo più o
meno delle risposte simili, tutte
centrate sull'organo del corpo umano di competenza e sulla disciplina che ne
deriva, ma se chiediamo a dieci persone chi sia e che faccia un medico di
famiglia avremo dieci risposte diverse. Perché questo?
Perché la
mia è una disciplina, se la vogliamo chiamare ancora così, che origina per una
parte da un paradigma scientifico codificato, ma per gran parte anche da una conoscenza e da un sapere
difficilmente codificabile in maniera univoca in quanto poggia sulla "
relazione". Appare pertanto scontato che ogni risposta che avremo
rifletterà il tipo di relazione, o meglio, come sarà stata vissuta la relazione
con il proprio medico di famiglia.
Non mi
piace di solito cercare di "ingabbiare" la relazione medico-paziente,
il rapporto che si instaura tra curante e curato in degli stereotipi
comportamentali che si ripetono in modo quasi fisso ed ossessivo....sappiamo
tutti troppo bene come ogni incontro, ogni consultazione rappresenti un
fenomeno irripetibile che si dà una volta sola, ma per comodità esplicativa
ricorrerò ad alcune esemplificazioni di massima che troviamo in letteratura. (
Tab.1)
MODELLI DI
RELAZIONE MEDICO-PAZIENTE ( Tab.1) (
Emanuel 1992)
MODELLI
|
PAZIENTE
|
MEDICO
|
modello
paternalistico
|
ha opinioni
e valori sulla salute analoghi a quelli proposti dal medico. Accetta o non
accetta tutto quello che gli viene proposto
|
E' un
controllore che viglia sulla salute del paziente stabilendo il suo percorso
motivandolo o meno
|
modello
informativo
|
ha i suoi
valori sulla salute e sulla malattia fissi e consapevoli , sceglie e
controlla le cure proposte dal medico
|
E' un
tecnico competente che informa adeguatamente sulle possibili scelte.
|
modello
interpretativo
|
E'
conflittuale sui propri valori di salute, si aspetta spiegazioni e
chiarimenti. Il pz deve acquisire autoconsapevolezza, altrimenti non segue il
percorso indicato
|
Interpreta
i valori di salute in cui crede il pz, porta alla luce conflitti e stimola la
presa di coscienza. E' consigliere e consulente ( counselor)
|
modello
deliberativo
|
E’ aperto
allo sviluppo ed alla revisione delle proprie credenze sulla salute e
malattia
|
Amico e
maestro, informa il paziente e discute con lui le scelte, ne indica i pro e i
contro, precisa la propria posizione senza imporla, ma sostenendola: accetta
le decisioni del paziente
|
Mi piace
pensare come questi modelli proposti non
siano dei copioni precedentemente
scritti ed individuati in maniera fissa, ma che siano
delle recite a soggetto che scaturiscono in maniera spontanea
dall'incrociarci delle dinamiche e dal relazionarsi dei nostri attori tenendo
conto poi di tutte la variabili che di solito intervengono.
CONFIGURAZIONI RELAZIONALI
LE TRE AREE D'INCONTRO
MEDICO-PAZIENTE
domenica 5 luglio 2015
IL MEDICO DI FAMIGLIA CANTASTORIE: LA CONSAPEVOLEZZA DELL’ESSERE PER LA CURA. Pubblicato su Riflessioni Sistemiche N.12 Giugno 2015
Il medico di famiglia cantastorie:
la consapevolezza dell’essere per la cura
la consapevolezza dell’essere per la cura
Nel mese di giugno è stato
pubblicato questo mie breve saggio nel numero 12 della Rivista Riflessioni
Sistemiche, organo ufficiale dell'Associazione Italiana di Epistemologia e
Metodologia Sistemiche. Questo numero della rivista, che ha un carattere
monografico, è intitolato :" Narrazioni" e contiene altri saggi brevi
di autori come Giorgio Bert, Stefania Polvani che sono fra i nomi più conosciuti per la Medicina Narrativa a livello nazionale, come Per Luigi Luisi e
Fritjof Capra che sono dei nomi internazionali nel mondo della sistemica e
della complessità. Io ho avuto l'onore di poter vedere il mio lavoro accanto ai
loro contributi.
Rimando al sito www.aiems.eu la
possibilità di poter visionare on line tutta la rivista.
Sono in ambulatorio alla fine di una normale giornata di lavoro. Il telefono ha smesso di
squillare, la sala d'aspetto si è finalmente svuotata e sto facendo quasi il conto dei
minuti che mi separano dalla sortita dal mio studio. Devo ancora trattenermi, però, per
compilare un paio di certificazioni e per questo sto interrogando molto velocemente il
mio programma informatico che gestisce le cartelle cliniche dei miei pazienti. Le
videate si succedono rapide e, come può accadere per la fretta, un tasto schiacciato per
errore mi dirotta sull'archivio dei pazienti deceduti. Era da molto tempo che non aprivo
questa pagina, quasi mi ero dimenticato dell'esistenza... oramai con il collegamento
telematico, quando l'anagrafe registra un decesso, il paziente muore di fatto anche
virtualmente, così, in maniera automatica, venendo spostato nell'archivio "deceduti".
E' veramente strano come il cervello si comporti con le persone, in questo caso pazienti, con cui hai interagito per anni, una volta che sono venuti a mancare. Spariscono, svaniscono, si confondono e si fondono nella nebbia del ricordo che sfuma, come le immagini che precedono il sonno. Eppure sino a poco o molto tempo prima erano lì, occupavano quelle sedie davanti alla mia scrivania ognuno con le proprie richieste, con le proprie pretese, con sorrisi e pianti. Scorro in maniera quasi automatica il lungo elenco di nomi con a fianco le date di nascita e di morte e la inesorabile crocetta nera, ma ecco che man mano che si susseguono le righe, da quei nomi cominciano a formalizzarsi nella mia mente delle immagini, dei volti..... Ah! Ecco Antonietta che per anni non mi ha dato pace con la sua " pancia gonfia": in ambulatorio almeno due volte al mese, mettendosi di profilo per mostrarmi quanto il suo ventre fosse esuberante e chiedendomi con voce piagnucolosa di poterle risolvere questo problema. Mario, un marcantonio di muratore che non sono mai stato capace di far smettere di fumare e bere. Anna Maria, giovane amica sempre "delicatina" e silenziosa, portata via in pochi mesi da un cancro alla mammella di un'aggressività tale che ha lasciato tutti stupefatti.
E' veramente strano come il cervello si comporti con le persone, in questo caso pazienti, con cui hai interagito per anni, una volta che sono venuti a mancare. Spariscono, svaniscono, si confondono e si fondono nella nebbia del ricordo che sfuma, come le immagini che precedono il sonno. Eppure sino a poco o molto tempo prima erano lì, occupavano quelle sedie davanti alla mia scrivania ognuno con le proprie richieste, con le proprie pretese, con sorrisi e pianti. Scorro in maniera quasi automatica il lungo elenco di nomi con a fianco le date di nascita e di morte e la inesorabile crocetta nera, ma ecco che man mano che si susseguono le righe, da quei nomi cominciano a formalizzarsi nella mia mente delle immagini, dei volti..... Ah! Ecco Antonietta che per anni non mi ha dato pace con la sua " pancia gonfia": in ambulatorio almeno due volte al mese, mettendosi di profilo per mostrarmi quanto il suo ventre fosse esuberante e chiedendomi con voce piagnucolosa di poterle risolvere questo problema. Mario, un marcantonio di muratore che non sono mai stato capace di far smettere di fumare e bere. Anna Maria, giovane amica sempre "delicatina" e silenziosa, portata via in pochi mesi da un cancro alla mammella di un'aggressività tale che ha lasciato tutti stupefatti.
Ogni riga un volto, ogni volto una storia o almeno un pezzo di storia vissuto insieme.
L'ultimo nome che vedo prima di tornare nell'archivio dei pazienti "attivi" è quello di
Paolina, che in modo quasi prepotente si fissa nella mia mente mentre sto proseguendo
in quello che devo ancora fare. Quando mi concentro sulle certificazioni, il suo volto
scompare, ma come allento per un attimo la mia concentrazione eccolo che riappare
come una vecchia ferita che avevi dimenticato, che non faceva più male, ma che adesso
ricomincia a dare qualche segnale, come se stesse per riaprirsi. Mentre sto tornando a
casa, al volante della mia auto, quel suo caschetto di capelli biondi su quel viso
lievemente segnato dalle cicatrici di un acne cistico adolescenziale ogni tanto fa
capolino e riappare. Mentre mi rilasso, dopo la cena, ecco che Paolina riprende il
sopravvento e la rivedo come se il tempo si fosse fermato allora, quando rilevò la
bottega di parrucchiera a poche decine di metri dal mio ambulatorio.
Erano oramai diversi giorni che le varie "comari" che affollano immancabilmente le sale d'aspetto degli ambulatori dei medici di famiglia avevano preannunciato questo nuovo arrivo nel quartiere. Mi avevano anche bisbigliato che si trattava di una ragazza madre, dettaglio che per quei tempi aveva ancora un significato, infatti, quando poco tempo dopo Paolina venne in ambulatorio a presentarsi come nuova paziente portò con sé anche la figlioletta che aveva il suo stesso cognome. Le presentazioni furono come da rito: anamnesi veloce, richiesta di eventuali esigenze, un buffetto alla bambina, però, già da qualche parte sentivo che non sarebbe stata una gestione semplice. Ben presto, infatti, i sospetti furono fondati: in media una o due volte la settimana entrava trafelata, senza nemmeno provare a bussare, qualche cliente della parrucchiera invocando il mio pronto intervento per Paolina. La scena più o meno era sempre la stessa, con la protagonista sdraiata a terra mentre le soccorritrici di turno le tenevano sollevate le gambe e le sventolavano qualche rivista davanti al viso a mo' di ventaglio; lei talora con gli occhi chiusi o aperti sbarrati, in iperventilazione, tutta irrigidita. L'esame obiettivo come da copione: segni vitali conservati, pressione arteriosa normale... insomma i classici attacchi di panico.
Ogni volta da parte mia le stesse risposte:" Tranquilla! Non c'è niente! E' solo tanta ansia perché il cuore va bene, la pressione pure! Cerca di controllarti!".
In effetti, oramai, avevo perso il conto delle volte che veniva in ambulatorio con le sue gambe tremolanti o di quelle in cui venivo chiamato d'urgenza nel suo negozio. Nonostante le mie rassicurazioni, nonostante cercassi ogni volta le argomentazioni più appropriate per cercare di giustificare i suoi sintomi e i suoi disturbi, non riuscivo minimante ad ottenere qualche risultato: "Dottore! Sento la morte che sta arrivando! E' come se la mia testa si staccasse dal resto del corpo ed io non riesco più a capire se sono in grado di controllare le mie braccia e le mie gambe......è una sensazione penosa che mi blocca, che mi impedisce di andare avanti. Penso a mia figlia, a come le sarà possibile andare avanti senza di me". Questo era il mantra che Paolina recitava in modo ossessivo ogni volta che accorrevo in suo aiuto dopo che avevo finito la visita medica oramai sempre più breve e succinta. Ogni tentativo terapeutico di tipo farmacologico durava due o tre giorni per essere poi interrotto a causa di effetti collaterali mai rintracciabili sull’ufficiale "bugiardino". Ogni volta che l'avevo inviata da qualche specialista d'organo con la speranza di convincerla che non avesse nulla di patologico avevo fallito, per non parlare poi delle richieste di consulenza psichiatrica: nemmeno prese in considerazione. Insomma mi ritrovai alla fine in un profondo cul de sac, vuoi per la mia inesperienza di allora che mi portava, sempre e comunque per prima cosa, ad escludere malattie organiche o vuoi per la sua grande capacità a prendere poi lei "in mano" la gestione di tutto, anche di me.
Erano oramai diversi giorni che le varie "comari" che affollano immancabilmente le sale d'aspetto degli ambulatori dei medici di famiglia avevano preannunciato questo nuovo arrivo nel quartiere. Mi avevano anche bisbigliato che si trattava di una ragazza madre, dettaglio che per quei tempi aveva ancora un significato, infatti, quando poco tempo dopo Paolina venne in ambulatorio a presentarsi come nuova paziente portò con sé anche la figlioletta che aveva il suo stesso cognome. Le presentazioni furono come da rito: anamnesi veloce, richiesta di eventuali esigenze, un buffetto alla bambina, però, già da qualche parte sentivo che non sarebbe stata una gestione semplice. Ben presto, infatti, i sospetti furono fondati: in media una o due volte la settimana entrava trafelata, senza nemmeno provare a bussare, qualche cliente della parrucchiera invocando il mio pronto intervento per Paolina. La scena più o meno era sempre la stessa, con la protagonista sdraiata a terra mentre le soccorritrici di turno le tenevano sollevate le gambe e le sventolavano qualche rivista davanti al viso a mo' di ventaglio; lei talora con gli occhi chiusi o aperti sbarrati, in iperventilazione, tutta irrigidita. L'esame obiettivo come da copione: segni vitali conservati, pressione arteriosa normale... insomma i classici attacchi di panico.
Ogni volta da parte mia le stesse risposte:" Tranquilla! Non c'è niente! E' solo tanta ansia perché il cuore va bene, la pressione pure! Cerca di controllarti!".
In effetti, oramai, avevo perso il conto delle volte che veniva in ambulatorio con le sue gambe tremolanti o di quelle in cui venivo chiamato d'urgenza nel suo negozio. Nonostante le mie rassicurazioni, nonostante cercassi ogni volta le argomentazioni più appropriate per cercare di giustificare i suoi sintomi e i suoi disturbi, non riuscivo minimante ad ottenere qualche risultato: "Dottore! Sento la morte che sta arrivando! E' come se la mia testa si staccasse dal resto del corpo ed io non riesco più a capire se sono in grado di controllare le mie braccia e le mie gambe......è una sensazione penosa che mi blocca, che mi impedisce di andare avanti. Penso a mia figlia, a come le sarà possibile andare avanti senza di me". Questo era il mantra che Paolina recitava in modo ossessivo ogni volta che accorrevo in suo aiuto dopo che avevo finito la visita medica oramai sempre più breve e succinta. Ogni tentativo terapeutico di tipo farmacologico durava due o tre giorni per essere poi interrotto a causa di effetti collaterali mai rintracciabili sull’ufficiale "bugiardino". Ogni volta che l'avevo inviata da qualche specialista d'organo con la speranza di convincerla che non avesse nulla di patologico avevo fallito, per non parlare poi delle richieste di consulenza psichiatrica: nemmeno prese in considerazione. Insomma mi ritrovai alla fine in un profondo cul de sac, vuoi per la mia inesperienza di allora che mi portava, sempre e comunque per prima cosa, ad escludere malattie organiche o vuoi per la sua grande capacità a prendere poi lei "in mano" la gestione di tutto, anche di me.
Un giorno arrivò una telefonata. Era la madre di Paolina, mai conosciuta, che avevo
solo sentito nominare molto sporadicamente, che mi pregava di correre a casa perché la
Nostra si sentiva veramente male. Arrivai in modo abbastanza non sollecito presso la
loro abitazione: una casa in aperta campagna con tanto di galline che razzolavano sul
cortiletto. A ricevermi c'era una signora anziana con il tipico fazzolettone annodato
sotto il collo come si usava nella migliore tradizione contadina umbra, si presentò
come la mamma, scuotendo la testa come in senso di disapprovazione mi accompagnò
al capezzale di Paolina e si congedò. Questa era nella sua stanza impregnata dal fumo di
sigaretta che aveva sempre accesa e, sdraiata sul letto e accoccolata vicino al suo
grembo, c'era la figlioletta che tradiva dal suo viso preoccupazione ed ansia. " Allora?
Siamo alle solite?" esclamai. Lei dopo una pausa di silenzio che non terminava mai,
dopo aver invitato la bimbetta a raggiungere la nonna, sottovoce cominciò a parlare:"
Sono contento che sia venuto a casa, potrà finalmente così vedere dove vivo e
soprattutto con chi vivo. Come avrà capito quella donna che le ha aperto, è mia madre.
Mio fratello molto più grande di me vive a Milano da tanto tempo ed è come se non
esistesse. Noi siamo una famiglia contadina, mio padre è morto da diversi anni e il
terreno che avevamo è stato quasi tutto venduto per tirare avanti e ci è rimasta solo
questa casa che avrebbe bisogno di tanti interventi di manutenzione. Io sono andata a
fare la parrucchiera appena finite le scuole dell'obbligo come apprendista, poi, dopo
aver lavorato alcuni anni come dipendente, ho deciso di mettermi in proprio. Quasi
nello stesso periodo sono rimasta incinta e ho deciso di portare avanti la gravidanza. Da
allora è successo il pandemonio: il mio ragazzo si è volatilizzato e mia madre che già
aveva maldigerito lui, la mia scelta di aprire una bottega mia, ha cominciato a torturarmi
psicologicamente sul fatto che non volevo abortire. E' stata un assillo continuo: stupida,
cretina erano gli insulti più tranquilli che mi faceva, per non parlare poi quasi della
"morte civile" che mi aveva dato, insomma mentre per quasi tutte le donne la
gravidanza è una felice attesa, per me è stata una battaglia ed un logorio continuo. Solo
il sentire questa creatura che si muoveva dentro di me mi ha dato la forza di andare
avanti e non farla finita. Adesso inoltre si sono aggiunti altri problemi. Ho accumulato
diversi debiti con la banca per aprire il negozio vicino al suo ambulatorio e il lavoro non
va per niente bene... come faccio a stare tranquilla come lei mi dice? ". Non mi ricordo
bene come risposi, senza dubbio com’è mia abitudine quasi innata, rimasi abbastanza in
silenzio. Sono convinto, infatti, che difronte a certe situazioni e problemi, dare delle
risposte immediate, magari le prime che ti vengono in mente, sarebbero nella migliore
delle ipotesi banali. Molto probabilmente avrò chiesto scusa, avrò cercato di dare
comunque un senso a quello che faceva, avrò cercato di valorizzare il suo ruolo di
madre e di sottolineare come le sue crisi avrebbero potuto influire sulla bambina...non
mi ricordo! Quello che ricordo bene invece è che da quella volta i suoi attacchi di
panico diminuirono di frequenza per cessare quasi del tutto di lì a poco. La storia di
Paolina è proseguita con un suo matrimonio che poi è saltato dopo pochi anni. La
bottega da parrucchiera è stata in seguito rilevata da un'altra gestione e con il ricavato
ha potuto così estinguere i debiti che aveva accumulato. La figlioletta è cresciuta, è diventata a sua volta una donna ed ha iniziato a lavorare e si è fidanzata. Paolina si è
messa fare la collaboratrice domestica e la situazione sembrava trascorrere in maniera
semplice ma tranquilla ed accettabile, quando un giorno venni chiamato di nuovo con
urgenza alla sua casa. Pensavo ad un ritorno alle origini, per telefono mi dicevano che
aveva tanto mal di testa che le sembrava di svenire. Una volta arrivato però, capii subito
che c'era dell'altro, segni di deficit neurologici...la ricoverai immediatamente.
Dopo qualche giorno andai a trovarla all'ospedale, i colleghi mi parlarono di metastasi
cerebrali partite da un tumore polmonare che sino a quel momento era stato
completamente asintomatico, la tosse per lei, fumatrice accanita, non aveva rivestito
nessuna importanza. Quando entrai nella sua camera mi accolse sorridendo,
innaturalmente tranquilla:" Lo vedi dottore, che alla fine avevo ragione io! Adesso ci
credi che sto male?" Oramai mi dava del tu da anni. Anche allora a casa sua
probabilmente risposi con il silenzio, mi ricordo poi che parlammo di sua figlia che
oramai era autonoma e mi congedai da lei dicendole che ci saremmo rivisti a casa...fu
così, ma per redigere il certificato della sua morte.
Questa è una storia, una narrazione che riguarda la vita di una mia paziente, ma senza dubbio anche la mia vita, sia quella di medico sia quella di uomo, se fosse mai possibile segnare un confine fra il mio essere uomo ed essere medico. Io penso però proprio di no. Sono perfettamente in armonia con quello che dice Mauro Ceruti nel suo:" La fine dell'onniscienza" in cui afferma che non può esistere lo scienziato, l'uomo di scienza, il professionista che possa scegliere ed operare in maniera atemporale, decontestualizzata, avulsa cioè da tutte quelle coordinate di spazio e tempo in cui si trova di fatto a lavorare (Ceruti, M., 2014). Come potrei adesso io, dopo questa esperienza, dopo questa co- costruzione di questo percorso e relazione poter essere neutro e neutrale e oggettivo? Il mio scegliere, il mio indagare sarà sempre e comunque condizionato: dall'esperienza, dalle informazioni avute, dal contesto in cui mi trovo. Avrò i miei pregiudizi in senso "Gadameriano" che condizioneranno di fatto l'evoluzione delle scelte e potrei quindi provocare il dispiegamento di una realtà oppure di un'altra realtà. Pochi si rendono conto come quella che dovrebbe essere una scelta oggettiva e sequenziale rispetto ad un dato iniziale: sintomi, subisce spesso dei cambiamenti, degli spostamenti talora coscienti talora inconsapevoli derivanti dalla soggettività del medico e del paziente. Senza invocare la sorte, il destino o il caso alla sliding doors si deve prendere atto che il nostro "metodo" è equiparabile a quello che in fisica sarebbe definito un vettore, ad una forza cioè che ha una direzione e che può senza dubbio determinare poi l'evoluzione di un sintomo verso una quadro clinico o un altro quadro clinico. E' estremamente importante che questo concetto sia capito e metabolizzato, tante, infatti, sono poi le ricadute in termini di etica e responsabilità professionale. Basti pensare alla scelta di medicalizzare o meno la paura di crescere di un adolescente, la solitudine di un anziano o la "semplice" somatizzazione di un'ansia. Sergio Boria nel suo breve ma prezioso saggio:"Verso una medicina della complessità" scrive :"il medico di famiglia partecipa alla vita dei suoi utenti e all'evoluzione dei loro sistemi sociali d'appartenenza nell'arco di molti anni. Ha inoltre accesso alle dinamiche familiari attuali nel contesto delle quali si realizza l'esistenza dei suoi utenti. E' infine alle prese quotidianamente con il labirintico intreccio delle relazioni mente-corpo, muovendosi molto spesso al confine tra la dimensione somatica e quella psichica. E' quindi il medico di famiglia che meglio di qualsiasi altro professionista della cura è nella condizione di cogliere la natura sistemica e storico- processuale dei sistemi viventi" (Boria S., 2013). Ovviamente sono affermazioni che sottoscrivo, ma voglio aggiungere alcune considerazioni di carattere generale sulla cornice epistemologica dentro cui noi medici di famiglia ci muoviamo e sulle specificità e peculiarità della medicina narrativa in medicina di famiglia.
Il metodo basato sull'approccio bio-medico, dando per scontato che esista davvero, è quello che ci viene insegnato all'Università. La malattia è convenzionalmente individuata in un'ottica riduzionista come uno scostamento dalla norma di varianti biologiche misurabili a prescindere dagli aspetti psichici e sociali del paziente, è poi anche di quest'ultimi decenni l'altare della Evidence Based Medicine su cui viene sacrificato tutto quello che non è numericamente oggettivato. Non voglio essere frainteso! Nessun'obiezione sull'utilità del rigore e della numerosità degli studi controllati che permettono di valutare l'utilità di quel farmaco o di quella procedura, ma il medico di famiglia è l'operatore sanitario che sperimenta per primo, sulla propria pelle, l'insufficienza e l'incompletezza di tale approccio. Come spiegare i sintomi senza malattia? Quale bussola ci può orientare nel pianeta che viene definito illness, quando cioè il paziente esprime un quadro di disagio, quando dice che non si sente bene senza presentare però una clinica ed una sintomatologia tale da configurare una disease, una malattia cioè nosograficamente connotata? Senza dubbio per noi medici di famiglia il paradigma che vale è quello che poggia sulla relazione perché come afferma McWhinney:"l'oggetto della nostra conoscenza non è la malattia, ma il paziente" (McWhinney,1993) e cioè l'uomo e, pertanto, ecco che per noi la malattia non è più una categoria, un capitolo della patologia medica o chirurgica, ma diventa un costrutto, un puzzle formato da tanti pezzi assemblati volta per volta attraverso la relazione medico- paziente. La relazione, pertanto, se nella prassi specialistica è quasi irrilevante ai fini dei risultati clinici e rientra nel campo dell’etica e della deontologia, nel momento in cui diviene fattore capace di modificare la malattia considerata come illness, assume un ruolo centrale, un ruolo che partecipa alla dinamica del processo di cura, un ruolo di metodo con cui giochiamo sovente la nostra professionalità. Quali strumenti pertanto occorrono per praticare questo ruolo di mediatori fra la soggettività dei nostri pazienti e la presunta oggettività della scienza medica? Quale mezzo e strategia per penetrare meglio la weltanschauung dei nostri pazienti se non la medicina narrativa? Quante diagnosi sarebbero possibili e quanti accertamenti strumentali sarebbero evitati se ai pazienti fosse sempre data la possibilità di esprimersi, di raccontarsi e di raccontare. Troppe volte ci "allacciamo il camice" e dopo aver fatto parlare il nostro paziente per soli dieci o venti secondi, lo dirottiamo verso quella ipotesi diagnostica che abbiamo formalizzato nella nostra mente corroborandola con una lunga lista di analisi e prestazioni.
Questa è una storia, una narrazione che riguarda la vita di una mia paziente, ma senza dubbio anche la mia vita, sia quella di medico sia quella di uomo, se fosse mai possibile segnare un confine fra il mio essere uomo ed essere medico. Io penso però proprio di no. Sono perfettamente in armonia con quello che dice Mauro Ceruti nel suo:" La fine dell'onniscienza" in cui afferma che non può esistere lo scienziato, l'uomo di scienza, il professionista che possa scegliere ed operare in maniera atemporale, decontestualizzata, avulsa cioè da tutte quelle coordinate di spazio e tempo in cui si trova di fatto a lavorare (Ceruti, M., 2014). Come potrei adesso io, dopo questa esperienza, dopo questa co- costruzione di questo percorso e relazione poter essere neutro e neutrale e oggettivo? Il mio scegliere, il mio indagare sarà sempre e comunque condizionato: dall'esperienza, dalle informazioni avute, dal contesto in cui mi trovo. Avrò i miei pregiudizi in senso "Gadameriano" che condizioneranno di fatto l'evoluzione delle scelte e potrei quindi provocare il dispiegamento di una realtà oppure di un'altra realtà. Pochi si rendono conto come quella che dovrebbe essere una scelta oggettiva e sequenziale rispetto ad un dato iniziale: sintomi, subisce spesso dei cambiamenti, degli spostamenti talora coscienti talora inconsapevoli derivanti dalla soggettività del medico e del paziente. Senza invocare la sorte, il destino o il caso alla sliding doors si deve prendere atto che il nostro "metodo" è equiparabile a quello che in fisica sarebbe definito un vettore, ad una forza cioè che ha una direzione e che può senza dubbio determinare poi l'evoluzione di un sintomo verso una quadro clinico o un altro quadro clinico. E' estremamente importante che questo concetto sia capito e metabolizzato, tante, infatti, sono poi le ricadute in termini di etica e responsabilità professionale. Basti pensare alla scelta di medicalizzare o meno la paura di crescere di un adolescente, la solitudine di un anziano o la "semplice" somatizzazione di un'ansia. Sergio Boria nel suo breve ma prezioso saggio:"Verso una medicina della complessità" scrive :"il medico di famiglia partecipa alla vita dei suoi utenti e all'evoluzione dei loro sistemi sociali d'appartenenza nell'arco di molti anni. Ha inoltre accesso alle dinamiche familiari attuali nel contesto delle quali si realizza l'esistenza dei suoi utenti. E' infine alle prese quotidianamente con il labirintico intreccio delle relazioni mente-corpo, muovendosi molto spesso al confine tra la dimensione somatica e quella psichica. E' quindi il medico di famiglia che meglio di qualsiasi altro professionista della cura è nella condizione di cogliere la natura sistemica e storico- processuale dei sistemi viventi" (Boria S., 2013). Ovviamente sono affermazioni che sottoscrivo, ma voglio aggiungere alcune considerazioni di carattere generale sulla cornice epistemologica dentro cui noi medici di famiglia ci muoviamo e sulle specificità e peculiarità della medicina narrativa in medicina di famiglia.
Il metodo basato sull'approccio bio-medico, dando per scontato che esista davvero, è quello che ci viene insegnato all'Università. La malattia è convenzionalmente individuata in un'ottica riduzionista come uno scostamento dalla norma di varianti biologiche misurabili a prescindere dagli aspetti psichici e sociali del paziente, è poi anche di quest'ultimi decenni l'altare della Evidence Based Medicine su cui viene sacrificato tutto quello che non è numericamente oggettivato. Non voglio essere frainteso! Nessun'obiezione sull'utilità del rigore e della numerosità degli studi controllati che permettono di valutare l'utilità di quel farmaco o di quella procedura, ma il medico di famiglia è l'operatore sanitario che sperimenta per primo, sulla propria pelle, l'insufficienza e l'incompletezza di tale approccio. Come spiegare i sintomi senza malattia? Quale bussola ci può orientare nel pianeta che viene definito illness, quando cioè il paziente esprime un quadro di disagio, quando dice che non si sente bene senza presentare però una clinica ed una sintomatologia tale da configurare una disease, una malattia cioè nosograficamente connotata? Senza dubbio per noi medici di famiglia il paradigma che vale è quello che poggia sulla relazione perché come afferma McWhinney:"l'oggetto della nostra conoscenza non è la malattia, ma il paziente" (McWhinney,1993) e cioè l'uomo e, pertanto, ecco che per noi la malattia non è più una categoria, un capitolo della patologia medica o chirurgica, ma diventa un costrutto, un puzzle formato da tanti pezzi assemblati volta per volta attraverso la relazione medico- paziente. La relazione, pertanto, se nella prassi specialistica è quasi irrilevante ai fini dei risultati clinici e rientra nel campo dell’etica e della deontologia, nel momento in cui diviene fattore capace di modificare la malattia considerata come illness, assume un ruolo centrale, un ruolo che partecipa alla dinamica del processo di cura, un ruolo di metodo con cui giochiamo sovente la nostra professionalità. Quali strumenti pertanto occorrono per praticare questo ruolo di mediatori fra la soggettività dei nostri pazienti e la presunta oggettività della scienza medica? Quale mezzo e strategia per penetrare meglio la weltanschauung dei nostri pazienti se non la medicina narrativa? Quante diagnosi sarebbero possibili e quanti accertamenti strumentali sarebbero evitati se ai pazienti fosse sempre data la possibilità di esprimersi, di raccontarsi e di raccontare. Troppe volte ci "allacciamo il camice" e dopo aver fatto parlare il nostro paziente per soli dieci o venti secondi, lo dirottiamo verso quella ipotesi diagnostica che abbiamo formalizzato nella nostra mente corroborandola con una lunga lista di analisi e prestazioni.
Su questo punto credo, però, che sia opportuno fare alcune considerazioni su certi
possibili sviluppi delle medicina basata sulla narrazione e sulla sua specificità nella
medicina di famiglia.
La medicina narrativa attualmente sta diventando come un fiume in piena che si ingrossa sempre più: tutti ne parlano, tutti ne sono entusiasti e tutti sono convinti in un certo qual modo di conoscerla e praticarla. Questo fatto ha senza dubbio stimolato l'Istituto Superiore di Sanità a costituire un gruppo di esperti per dar vita ad una Conferenza di Consenso denominata :"Linee di indirizzo per l'utilizzo della medicina narrativa in ambito clinico-assistenziale, per le malattie rare e cronico-degenerative" che ha partorito un documento definitivo di consenso che è stato pubblicato nella collana " I Quaderni di Medicina" de Il Sole 24Ore Sanità (Allegato a n.7, 24 feb.-2mar.2015) con il contributo incondizionato della multinazionale del farmaco Pfizer. Senza dubbio si è sentita l'esigenza di "normare" e "teorizzare" la Medicina Basata sulla Narrazione per evitare che uno spontaneismo incontrollato potesse dar vita ad uno stile salottiero del prendersi cura. Sono stati esplorati i presupposti, la storia, i modelli di approccio per arrivare ad una definizione e indicare anche gli strumenti. Questa esigenza di normare però, questa volontà di proporre una definizione ed una metodologia, se da una parte origina da un sacrosanto principio di voler portare ordine e chiarezza, dall'altra può incorrere nel rischio di tornare sudditi del paradigma scientifico la cui insufficienza si voleva superare: "Tuttavia, è importante evitare di finalizzare la medicina narrativa al solo contesto della cura di un singolo paziente perché non è possibile eludere la richiesta che essa debba essere sottoposta a stringenti requisiti di validità scientifica" (documento cit pag 17), si avverte cioè la tentazione di voler a tutti costi oggettivare e reificare, nel senso di trasformare in oggetto, quello che è un rapporto umano dinamico, di scambio di un qualcosa che molto spesso è impalpabile e non misurabile.
La medicina narrativa attualmente sta diventando come un fiume in piena che si ingrossa sempre più: tutti ne parlano, tutti ne sono entusiasti e tutti sono convinti in un certo qual modo di conoscerla e praticarla. Questo fatto ha senza dubbio stimolato l'Istituto Superiore di Sanità a costituire un gruppo di esperti per dar vita ad una Conferenza di Consenso denominata :"Linee di indirizzo per l'utilizzo della medicina narrativa in ambito clinico-assistenziale, per le malattie rare e cronico-degenerative" che ha partorito un documento definitivo di consenso che è stato pubblicato nella collana " I Quaderni di Medicina" de Il Sole 24Ore Sanità (Allegato a n.7, 24 feb.-2mar.2015) con il contributo incondizionato della multinazionale del farmaco Pfizer. Senza dubbio si è sentita l'esigenza di "normare" e "teorizzare" la Medicina Basata sulla Narrazione per evitare che uno spontaneismo incontrollato potesse dar vita ad uno stile salottiero del prendersi cura. Sono stati esplorati i presupposti, la storia, i modelli di approccio per arrivare ad una definizione e indicare anche gli strumenti. Questa esigenza di normare però, questa volontà di proporre una definizione ed una metodologia, se da una parte origina da un sacrosanto principio di voler portare ordine e chiarezza, dall'altra può incorrere nel rischio di tornare sudditi del paradigma scientifico la cui insufficienza si voleva superare: "Tuttavia, è importante evitare di finalizzare la medicina narrativa al solo contesto della cura di un singolo paziente perché non è possibile eludere la richiesta che essa debba essere sottoposta a stringenti requisiti di validità scientifica" (documento cit pag 17), si avverte cioè la tentazione di voler a tutti costi oggettivare e reificare, nel senso di trasformare in oggetto, quello che è un rapporto umano dinamico, di scambio di un qualcosa che molto spesso è impalpabile e non misurabile.
La seconda considerazione riguarda proprio come la Medicina Narrativa si ponga nei
confronti della Medicina di Famiglia, nel senso che quasi tutti quelli che hanno lavorato
al documento di consenso non conoscono e non vivono la nostra realtà e la nostra
consuetudine lavorativa. Qualcuno forse non è nemmeno direttamente coinvolto in una
relazione di cura o il suo prendersi in carico di un paziente inizia ad un certo punto della
vita del paziente: dopo un ictus, dopo la diagnosi di una malattia diabetica o di una
malattia oncologica o degenerativa. Per noi non si dà questa realtà. L'interazione con i
nostri pazienti comincia spesso quando ancora sono sani, quando ancora non sono dei
malati o addirittura con i genitori del paziente, prima che venga al mondo. Noi partiamo
da un osservatorio privilegiato in quanto del Nostro conosciamo in partenza la sua
ecologia, il suo essere-nel-mondo con le sue prerogative...il cosiddetto approccio bio-
psico-sociale si dà o si dovrebbe dare in modo quasi automatico. Che voglio dire con
questo? No di certo che per noi la Medicina Narrativa sia innata come dote naturale, ma
che mentre per il riabilitatore, il diabetologo o l'oncologo la narrazione inizia con i
capitoli posti a metà o prossimi alla fine del libro del nostro paziente, per noi la storia
comincia con il primo capitolo se non addirittura con la prefazione perché come dice
ancora Sergio Boria nei nostri confronti:" ho spesso verificato in loro una sorta di
"conoscenza sistemica incarnata" (embodied)........e con questa conoscenza possiamo
spesso percorrere scorciatoie impensabili per altri operatori e arrivare a risultati
incredibili. Il vero problema è far acquisire a tutti i colleghi questa consapevolezza che
richiama poi il vecchio concetto di M. Balint su come il medico stesso sia di fatto una
medicina con indicazioni, controindicazioni ed effetti collaterali (Balint. M, 1982).
Considerazioni conclusive
La storia di Paolina costituisce per un medico di famiglia quasi una cronaca di normale quotidianità.
La paziente offre dei sintomi, un quadro clinico di presentazione somatica di disturbi psichici che talora potrebbero essere inquadrati come attacchi di panico, talora come disturbo d'ansia generalizzato, talora come disturbo di conversione. Sono convinto che se si alternassero dieci psichiatri avremmo dieci diagnosi psichiatriche diverse. Per noi, però, medici di famiglia o medici di medicina generale nell'accezione preferita da molti, questo non è un problema, siamo abituati a convivere con l'incertezza e con l'indefinito. Giustamente qualcuno (G. Parise, 2003) ha definito la Medicina Generale come Scienza del Limite:" Lavorare come medico di medicina generale significa seguire nel tempo una popolazione costituita da singoli pazienti ed intessere una relazione unica e irripetibile con ognuno di essi. Significa avere la possibilità di riflettere sui limiti dell'attività medica, conoscere quanto non si può fare: il sapere medico può essere solo contingente, non può penetrare il tempo per quel singolo paziente. Anche se in termini generali le formulazioni diagnostiche e prognostiche sono all'insegna del determinismo, nei termini particolari di quel paziente non esiste prevedibilità: il medico segue il paziente di tratto in tratto. Ogni consultazione è nodo iniziale di una serie di possibilità che si dipanano ad albero e che rispondono alle leggi della contingenza e non a leggi generali. Come la legge di gravità non dice perché la mela cade proprio in testa a Newton in quel preciso giorno e non può prevedere quando cadrà la prossima mela in testa a qualcuno, la scienza medica non dice molto su come si svolgerà la malattia in quel particolare paziente".
Considerazioni conclusive
La storia di Paolina costituisce per un medico di famiglia quasi una cronaca di normale quotidianità.
La paziente offre dei sintomi, un quadro clinico di presentazione somatica di disturbi psichici che talora potrebbero essere inquadrati come attacchi di panico, talora come disturbo d'ansia generalizzato, talora come disturbo di conversione. Sono convinto che se si alternassero dieci psichiatri avremmo dieci diagnosi psichiatriche diverse. Per noi, però, medici di famiglia o medici di medicina generale nell'accezione preferita da molti, questo non è un problema, siamo abituati a convivere con l'incertezza e con l'indefinito. Giustamente qualcuno (G. Parise, 2003) ha definito la Medicina Generale come Scienza del Limite:" Lavorare come medico di medicina generale significa seguire nel tempo una popolazione costituita da singoli pazienti ed intessere una relazione unica e irripetibile con ognuno di essi. Significa avere la possibilità di riflettere sui limiti dell'attività medica, conoscere quanto non si può fare: il sapere medico può essere solo contingente, non può penetrare il tempo per quel singolo paziente. Anche se in termini generali le formulazioni diagnostiche e prognostiche sono all'insegna del determinismo, nei termini particolari di quel paziente non esiste prevedibilità: il medico segue il paziente di tratto in tratto. Ogni consultazione è nodo iniziale di una serie di possibilità che si dipanano ad albero e che rispondono alle leggi della contingenza e non a leggi generali. Come la legge di gravità non dice perché la mela cade proprio in testa a Newton in quel preciso giorno e non può prevedere quando cadrà la prossima mela in testa a qualcuno, la scienza medica non dice molto su come si svolgerà la malattia in quel particolare paziente".
Paolina ha continuato per mesi a richiedere il mio intervento e per mesi ho cercato di
rispondere da medico, non avevo capito, o meglio avevo capito benissimo come del
resto sapeva benissimo anche lei, che "il dente che faceva male" non era nella sua bocca,
ma andavamo avanti tutti e due con una finzione di fatto. Andare nella sua casa,
conoscere anche se in modo succinto il suo ambiente, la sua "ecologia" ha provocato
quel senso di "comprensione" reciproca. E' stato forse sufficiente questo: sentirsi capita,
sentirsi accettata.... ho raccontato la mia storia, mi hai capita, hai accettato e vissuto con
me la mia sofferenza. Mi basta questo, stai convivendo con me il mio dolore e la mia
precarietà.
Questa è senza dubbio prendersi cura e farsi carico.
Questa è senza dubbio prendersi cura e farsi carico.
Infirmorum cura ante omnia et super omnia adhibenda est
San Benedetto da Norcia
Bibliografia
Balint M., 1982. Medico paziente e malattia, Feltrinelli, Milano.
Boria S., 2013. Verso una Medicina della Complessità. Il ruolo del medico di famiglia a orientamento sistemico, Guaraldi, Rimini.
Ceruti M., 2014. La fine dell'onniscienza, Studium, Roma.
McWhinney, 1993 (Why we need a new clinical method, Scand J Prim Health Care 1993; 11: 3-7)
Linee di indirizzo per l'utilizzo della medicina narrativa in ambito clinico-assistenziale, per le malattie rare e cronico-degenerative " I Quaderni di Medicina" de Il Sole 24Ore Sanità (Allegato a n.7, 24 feb.-2 mar.2015).
Parise.G., 2003. Un nuovo metodo clinico, in Medicina Generale; 24-25, UTET Torino.
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