martedì 29 ottobre 2013

C’ERA UNA VOLTA……. Quale senso nella Medicina Narrativa? EDITORIALE DEL BOLLETTINO DELL'ORDINE DEI MEDICI DELLA PROVINCIA DI PERUGIA N.3/2013

C’ERA UNA VOLTA…….        Quale senso nella Medicina Narrativa?

Con l’espressione c’era una volta, la nostra mente rimanda a ricordi della nostra infanzia. A storie lette da un viso di donna ancor giovane che con amore e passione ci leggeva, ci entusiasmava, ci preoccupava,  ci rallegrava……. Passa il tempo e cambiano le situazioni. Passano eventi, passano uomini e fatti, ma in fondo in fondo se uno ci prova, se uno si mette in posizione d’ascolto le storie sortiscono  sempre lo stesso effetto.  Entusiasmano, preoccupano o  rallegrano, ma ora che siamo “dottori” adulti, mai vecchi, le storie aiutano a capire. Eccone una.
Sono oramai quasi le venti e se Dio vuole non c’è più nessuno.  Siamo a oltre un’ora di ritardo rispetto al previsto orario di chiusura dell’ambulatorio. Sono alle prese con gli invii telematici delle certificazioni di malattie e, come sempre accade quando hai fretta, sbagli qualche tasto e ti tocca ricominciare daccapo la procedura. Arriva, come se fosse la cosa più normale di questo mondo a quest’ora, il signor Ludovico di 80 anni che trovando la porta aperta, incurante di tutto, si siede e comincia a dire che ha una specie di nodo allo stomaco che da diverso tempo gli toglie del tutto l’appetito. Lo guardo, d’istinto vorrei rispondergli in malo modo, invece, vuoi per il rispetto della sua età, vuoi perché è rimasto vedovo da poco più di un anno e insieme abbiamo percorso  tutto il doloroso cammino della moglie morta di cancro, faccio al volo qualche domanda di rito: da quanto tempo precisamente, se è dimagrito e se ha nausea e vomito. Non aspetto nemmeno le risposte, gli stampo una richiesta di analisi del sangue vedendo che sono oltre tre anni che non le fa e lo licenzio a denti stretti per evitare che una sua ulteriore permanenza in studio mi faccia superare la soglia della buona creanza.
Passa qualche giorno e Ludovico ritorna con i risultati delle analisi e mentre le sto interpretando, mi dice: ”Sono molto preoccupato, pensi dottore, che per far passare il nodo allo stomaco che le dicevo l’altra volta, sono costretto a mangiare sempre qualcosa....” “ Aspetti, aspetti!” rispondo io “ ma la volta precedente mi aveva riferito che non aveva più appetito e ora invece mi dice il contrario? C’è qualcosa che non quadra! Facciamo una cosa, Ludovico, l’ambulatorio è quasi vuoto, abbiamo tanto tempo per cui mi racconti tutto per bene dall’inizio per farmi capire, mi dica tutto, anche i suoi stati d’animo e quello che pensa possa nascondere o essere questo sintomo che mi riferisce. Le analisi vanno bene, c’è  solo un pizzico di trigliceridi e qualche altra piccola sfumatura senza nessun significato”.
“ Dottore mio, lei sa bene che oramai è quasi un anno che sono rimasto vedovo. Mia figlia vive a Verona ed il figlio maschio è come se non ci fosse…passo la maggior parte del tempo da solo. Gli amici da vecchi non si fanno e quei pochi che sono rimasti stanno peggio di me. Ogni tanto provo a tornare al mio paese natale di Gualdo, dove ho ancora una casetta, ma è peggio!  E’ come se fossi uno straniero, non conosco più quasi nessuno e il nodo alla gola, allo stomaco aumenta. Tutte le volte la stessa storia . Quando si avvicina l’ora del pranzo e della cena, mentre mi trovo ai fornelli per cucinarmi qualcosa e parlo da solo o con la televisione, lo sento arrivare, è come un qualcosa che mi consuma, un groppo che mi logora e che passa per un po’ dopo che ho mangiato qualche boccone  e bevuto un bicchieretto di vino…..” Mentre parla lo osservo. Gli occhi sono lucidi ed evitano il contatto visivo con i miei, il tono della voce mesto, la mimica è rigida e la gestualità ridotta al minimo, la barba non fatta…….penso proprio che a questo punto la diagnosi del nostro nodo allo stomaco sia fatta.
Mi perdonino i veri esperti del settore, ma questo è un piccolo esempio  su come un approccio narrativo riesca a far arrivare alla diagnosi senza dover ricorrere a tante tecnologie o ausili diagnostici. Oramai non ci sono più dubbi, a fianco dell’Evidence Based Medicine  (EBM )in maniera parallela, non alternativa, si colloca la Narrative Based Medicine. (NBM).L’origine della medicina basata sulla narrazione o medicina narrativa come preferisco chiamarla, di fatto, si perde nella notte dei tempi: Ippocrate nel V secolo avanti Cristo definisce un modello olistico di approccio al malato. Però, è alla fine degli anni ’70 che lo psichiatra statunitense George Limban Engel, forte dell’eredità di Martin Heidegger e della filosofia ermeneutica che sancisce l’inseparabilità fra Soggettività ed Oggettività, teorizza l’approccio biopsicosociale  da  affiancare a quello biomedico. Il passaggio successivo è quello dell’antropologo medico Byron Good che per primo parla di NBM come modello per interpretare il “ vissuto di malattia “ del paziente, per arrivare ai giorni nostri con Rita Charon che definisce  nello storico articolo del 2001 su JAMA gli obiettivi della medicina narrativa: “La Medicina Narrativa fortifica la pratica clinica con la competenza narrativa per riconoscere, assorbire, metabolizzare, intepretare ed essere sensibilizzati dalle storie della malattia: aiuta medici, infermieri, operatori sociali e terapisti a migliorare l’efficacia di cura attraverso lo sviluppo della capacità di attenzione, riflessioni, rappresentazione e affiliazione con i pazienti e i colleghi “ .  Da allora la Medicina Narrativa ha acquisito, soprattutto negli Stati Uniti, la piena dignità di disciplina scientifica e viene insegnata all’Università e anche da noi sta suscitando molto interesse con progetti finanziati dall’Istituto Superiore di Sanità, la nascita di una società scientifica e tante altre iniziative. Mi preme però porre l’accento come questa non debba essere considerata  solo un modo per facilitare una diagnosi, sarebbe troppo riduttivo. Mettere in pratica la narrazione significa per certi aspetti un rovesciamento di paradigma sulla possibilità della nostra stessa conoscenza: non più un soggetto ed un oggetto in un rapporto lineare, ma due soggettività in rapporto circolare. Ma c’è ancora di più. Come dice il mio amico Sergio Boria, psicoterapeuta sistemico-costruttivista,  autore del magnifico saggio:” Verso una Medicina della Complessità” che consiglio a tutti i medici di leggere,  la NBM diventa una “pratica di etica per eccellenza. Significa basare l'idea di rispetto sul riconoscimento dell'altro, e quest'ultimo sulla consapevolezza di sè, e di come ogni nostra descrizione del mondo diventi in sostanza un'autodescrizione.”  In parole più semplici con la Medicina Narrativa impariamo a riconoscere non solo le emozioni dell’umano che ci troviamo difronte, ma anche le nostre stesse emozioni, diventando di fatto degli esperti in “umanità”. Come dice ancora il mio amico Boria ” la medicina narrativa rappresenta un modo di procedere isomorfo al funzionamento dei sistemi viventi.
Quest'ultimi sono sistemi storico-evolutivi. Ciò che vive evolve, si trasforma ma sempre all’interno di precisi vincoli organizzativi, così come una storia si muove all'interno di vincoli narrativi.
In particolare ciò che evolve nei sistemi viventi (ad esempio una persona, o la sua famiglia d'appartenenza) è l'organizzazione interna al sistema e i suoi rapporti con l'ambiente.  Inoltre così come i sistemi viventi nascono, divengono e poi muoiono, così fanno anche le storie.
Cosa sto cercando di dire? Sto cercando di dire che  parlare il linguaggio della medicina narrativa (e cioè parlare per storie) probabilmente vuol dire parlare un linguaggio più in sintonia con il funzionamento della vita stessa (in salute e in malattia) e che permette al medico e al paziente di costruire/tessere percorsi terapeutici in grado di dare risposte più adeguate alla complessità del malessere che  si vuole curare”.
 E poi? Lasciatemi chiudere alla mia maniera. In maniera semplice, forse troppo lineare o istintiva, senza andare, apparentemente, tanto in profondità e complessità .
Ma se a Ludovico  avessi somministrato il questionario Hamilton o il test PRIME-Med  come sarebbe previsto per fare diagnosi di depressione. Se avessi usato tali strumenti al posto di ascoltare la sua storia. Chi si sarebbe emozionato? Chi rallegrato? Chi preoccupato? Quali immagini si sarebbero formalizzate nella nostra mente?....


martedì 23 luglio 2013

IL BURNOUT DEL MEDICO: DALL’AIUTARE ALL’ESSERE AIUTATO pubblicato sul Bollettino dell'Ordine dei Medici della Provincia di Perugia n.02/2013



IL BURNOUT DEL MEDICO: DALL’AIUTARE ALL’ESSERE AIUTATO

Questo è il titolo di un convegno organizzato dall’Ordine dei Medici  l’11 maggio u.s. a Perugia presso il teatro dell’ONAOSI maschile. Il programma prevedeva una prima sessione dedicata agli interventi preordinati che hanno inquadrato il problema sia dal punto di vista clinico che epidemiologico, mentre la seconda parte è stata occupata da una tavola rotonda in cui i vari partecipanti, rappresentanti delle varie istituzioni hanno prospettato le possibili risposte al problema, ognuno per la propria specificità.
In questa tavola rotonda il mio intervento si è concretizzato in una lettura che molti colleghi hanno chiesto di poter avere e pertanto la propongo come editoriale.


Sta per iniziare una seduta ambulatoriale come tante. Attraverso distrattamente la sala d’aspetto salutando un gruppetto di pazienti che sarà arrivato anche da più di un’ora con la discutibile convinzione, così, di poter essere ricevuti prima degli altri e risparmiare tempo. Li guardo meglio e capisco subito che ci sarà da soffrire. C’è Maria di 88 anni con i suoi dolori alla colonna che non passano con niente. C’è Cesare che viene per sua madre in fase terminale per un’ascite carcinomatosa. C’è Giorgio, preoccupato perché la ricerca del sangue occulto nelle feci è positiva ( me lo ha anticipato telefonicamente già due e tre volte) e ci sono altri….Mi siedo e inizio a stampare ricette, ma la stampante comincia a fare i capricci. Arriva uno e mi dice che ho sbagliato l’esenzione dal ticket, arriva un altro e mi dice che non ho scritto la nota AIFA prevista per quel farmaco, un altro ancora con fare abbastanza aggressivo mi dice che al CUP gli hanno detto che dovevo applicare un codice RAO di urgenza e non l’ho fatto….si susseguono i volti, le parole, le richieste e intanto il telefono squilla…squilla.
Ho iniziato questo mio breve intervento con una narrazione, la narrazione di una classica e familiare seduta ambulatoriale e credo che molti medici si siano riconosciuti. Perché ho preferito partire da una narrazione? Perché è mia convinzione che per certi problemi, per certe situazioni, probabilmente un approccio narrativo sia più proficuo per comprendere e forse per curare. Assolutamente non vorrei essere frainteso: i numeri, le percentuali, l’EBM, la sperimentazione  restano la base ed i cardini per il metodo clinico, ma qualche volta però si dovrebbe avere la consapevolezza che possono essere  percorse anche altre strade, non è questione pertanto di aut aut, ma se mai di et et.
Vorrei proseguire questo mio  intervento andando indietro nel tempo, molto lontano, per trovare una traccia delle origini della nostra professione agli albori della nostra cultura occidentale e precisamente nella mitologia greca.
 La prima figura che incontriamo che abbia a che fare con l’attività medica è quella del centauro Chirone. Chi era Chirone? Egli era il più sapiente e il più buono dei Centauri ( creature abitanti dei boschi, su cui corpi di cavallo, al posto del collo, erano attaccati tronchi umani) e per questo era detto anche “dalla doppia natura”. In lui si riassumeva infatti la natura animale: il corpo e l’istinto e quella umana: la psiche, lo spirito. Da questa commistione originò il suo potere terapeutico. Tutti sappiamo come andò: venne ferito per errore da Ercole  con una freccia  avvelenata  che gli procurò dolori e tormenti indescrivibili nonostante le cure o meglio, la propria autocura. Il mito, quindi, pone l’accento sul paradosso di un guaritore, ferito a sua volta, che non riesce a guarire se stesso, sottolineando così la grandezza ed il limite  della nostra attività terapeutica. Jung da Chirone ha ripreso l’archetipo del guaritore ferito: l’archetipo racchiude in sé due polarità opposte, in Chirone infatti si compenetrano medico e paziente, guaritore e ferito. E’ un grande medico poiché conosce la propria ferita che simbolicamente lo unisce al mondo dei malati. Chirone non studia la malattia dell’altro, ma la riconosce.
Da Jung passiamo a Soren Kierkegaard di cui mi preme riportare questo pensiero:” Imparare a conoscere l’angoscia è un’avventura che ogni uomo deve affrontare se non vuole perdersi sia per non averla mai provata sia per esservisi sommerso”.
E’ mai possibile per noi  medici che si debbano o si possano cercare delle risposte ai nostri  problemi nella mitologia, nella psicologia o nella filosofia, perché?
Tutti noi quando apriamo la porta del nostro studio o entriamo nel nostro reparto ospedaliero, sappiamo che da quel preciso istante siamo catturati da un ruolo che, più o meno inconsapevolmente, in qualche modo abbiamo scelto. Ci viene affidato un compito, anzi il compito, che da quando esiste l’uomo è sempre quello, se pure storicizzato in maniera diversa. Parafrasando le parole di Melucci, “ci troviamo, quotidianamente, a dover trattare intrecci di corpo e anima, piccoli e grandi grovigli di dolore fisico, timori ed attese come faceva anticamente anche lo sciamano, senza però avere dello sciamano la fede nelle energie profonde  che governano il cosmo e il contatto sottile con l’umano che soffre e si interroga. Ridotti oramai come siamo a funzionari del sistema del welfare e nello stesso tempo terminali di un apparato scientifico-tecnologico gigantesco, di cui controlliamo appena qualche piccola area, ci troviamo a dover far fronte alla stessa domanda quotidiana che viene dagli strati più intimi della condizione umana: libera nos a malo. Ma per misurarci con l’aspettativa oramai smisurata dei pazienti che vogliono cancellare qualsiasi sofferenza e tacitare qualsiasi paura non possediamo altro che la nostra tecnica sempre più specializzata e settoriale”.
In quanti di noi era la consapevolezza di questo ruolo quando decidemmo di iscriverci alla Facoltà di Medicina? In quanti di noi era la  convinzione che solo una buona preparazione scientifica fosse sufficiente per fare il medico? Preparazione scientifica……. Il problema è proprio questo: preparazione, formazione, scienza.
Tutti noi abbiamo iniziato a lavorare con un camice bianco, immacolato e sempre tutti noi pensavamo che questo camice non si sarebbe mai sporcato. Forti di una formazione fortemente riduzionista eravamo convinti che tutto fosse lineare e che la nostra competenza e professionalità dipendesse esclusivamente dalla nostra oggettività escludendo qualsiasi tentativo di soggettività: la nostra e dei nostri  pazienti. Ma come è mai possibile operare, lavorare, prescindendo da noi stessi? Come è possibile prendere in considerazione solo quello che conosciamo e  pertanto, come dice Galimberti, inseguire come conoscenza solo quella del significato concettuale e ignorare quella del senso esistenziale? Senza rendercene conto nella nostra cura degli altri, come mirabilmente afferma Antonia Chiara Scardicchio nel suo saggio il Medico Claudicante, ci affidiamo ad un paradigma anestetico che molto presto però si rileva insufficiente e fallace. Insufficiente e fallace perché prende in considerazione solo quello che siamo in grado di spiegare ed esclude, con un’operazione che a suo tempo ci è stata insegnata, la storia del paziente e la nostra stessa storia e di conseguenza  la relazione fra noi ed il paziente e la relazione fra la storia mia di medico con quella del paziente.
Ci siamo mai chiesti perché ad un certo punto della nostra vita abbiamo deciso di fare il medico? Ci siamo mai chiesti o domandati quale la motivazione, la finalità o il perché? E ci chiediamo mai quando una volta aperta la porta del nostro studio o entrati nel reparto del nostro ospedale e i nostri pazienti ci sbattono in faccia la loro angoscia di morte come li affrontiamo? Neanche a farlo a posta ho usato il verbo affrontare che ha un forte sapore di gergo militare. Come si relaziona la mia angoscia di morte con quella del paziente che in questo momento magari sto ascoltando, ma probabilmente non sto sentendo? Queste sono domande cui è difficile dare una risposta, ma il semplice fatto di porgersele è senza dubbio un grande passo in avanti.
L’aumentato carico burocratico, i RAO, il budget, il Web 2.0 con la conseguente  consumerizzazione dei pazienti sono senza dubbio una fonte di continuo disagio. “Io se dovessi rendere conto solo al malato del mio operato non avrei nessuna difficoltà nel mio lavoro!” Questa è l’affermazione più frequente che circola nei momenti di dialogo rilassato fra colleghi, ma quanto ci rendiamo conto come queste parole abbiano il sapore della figura di medico onnipotente che basa sull’approccio lineare e paternalistico il proprio metodo e la propria epistemologia? Quanto ci rendiamo conto che questi sono si degli elementi turbativi, ma perché in fondo in fondo turbano la nostra consuetudine di un  approccio basato sulla conoscenza concettuale e nosografica, su una scienza fondata sull’astrazione, sull’incasellamento e che non tiene conto dell’analisi  della complessità, delle relazioni e dei legami che ogni uomo ha con la propria storia e con tutto il mondo che lo circonda.
Ed allora cosa conviene?
Ecco pertanto che al medico diventa una condizione necessaria “ ripercorrere la propria formazione nella sua dimensione  autobiografica”, ricostruire la propria “ Autobiografia“ la propria “Auto-Bio-Epistemologia” per imparare a diagnosticare con un’ottica diversa, un’ottica che comprenda la storia e le relazioni dei nostri pazienti e di noi stessi.
Con questa indicazione mi riferisco a delle esperienze ben precise come quella che in questo momento è ancora in fase di rielaborazione come il progetto finanziato  dalla Regione Puglia “Comun-I-care” coordinato dall’Università di Foggia da parte della già citata professoressa Scardicchio oppure le varie  esperienze di Laura Formenti della Bicocca di Milano e tutta la letteratura sulla autobiografia partendo da Jerom Bruner, Erikson, sino ad arrivare Duccio Demetrio e altri.
L’obiettivo del ripercorrere nella dimensione autobiografica la propria formazione è quello di far sviluppare come dice Goleman “un’intelligenza emotiva” che consiste nel poter comprendere e gestire le proprie emozioni sviluppando così una personalità flessibile e creativa capace di adattarsi alle più diverse situazioni con autocontrollo e fiducia in se stessi. Insomma come ci adoperiamo per favorire  l’empowerment dei nostri pazienti, dobbiamo imparare l’empowerment di noi stessi come curatori.
Lasciatemi ,però, chiudere tornando alla mitologia, al nostro Centauro Chirone che non potendo sopportare più il dolore e la sofferenza vuole morire, ma essendo immortale in quanto semidio deve chiedere l’intervento di Zeus il quale lo accontenta scambiando la sua immortalità con quella di Prometeo.
Ma poteva un guaritore della sua portata finire così? Senza lasciare una traccia tangibile? Assolutamente no, allora viene trasformato nella costellazione di centauro e così ancora oggi qualsiasi mortale può osservarlo mentre splende nel cielo.






mercoledì 19 giugno 2013

QUESTA VOLTA E' CAPITATO A ME. RACCONTO AUTOBIOGRAFICO


Non c’era verso di finire l’ambulatorio! Proprio questa sera che devo partire per Firenze dove domani dovrò fare da docente a un corso di aggiornamento per medici di famiglia.
Devo passare a casa a prendere il trolley che mia moglie, come al solito, avrà provvidenzialmente preparato di sua iniziativa. Un breve boccone per cena, un abbraccio ai figli maschi, un bacione all’ultima nata da pochi mesi, uno sguardo pieno di significato alla mia consorte  che come sempre mi raccomanda prudenza.
Gira e rigira è quasi mezzanotte e sto ancora guidando la mia auto lungo i “viali” di Firenze alla ricerca del residence che l’agenzia ha prenotato. Durante tutto il viaggio non ho fatto altro che sudare in maniera quasi innaturale, ma senz’altro sono i primi caldi dell’estate che sta per cominciare. Un dolorino dello stomaco, da riferire senza dubbio al rapido pasto consumato, ogni tanto si fa sentire, ma che sarà mai!
Eccomi finalmente in camera. Ripasso la mia relazione, accendo la cinquantesima sigaretta della giornata quasi automaticamente, forse nemmeno mi andava, anzi a ben pensare quasi mi disgusta il sapore che mi lascia in bocca ma tant’è, oramai l’ho accesa e la fumo tutta.  M’infilo dentro il letto, spengo la luce, abbraccio il cuscino con tutte due le mie braccia e comincio a rilassare tutti i muscoli e i neuroni per addormentarmi……il volto di mia moglie, il volto di mia figlia, la scrivania del mio studio, una diapositiva della relazione…. il mio volto sfuocato….
All’improvviso una scarica elettrica fa trasalire il mio petto, le gambe e le braccia non riescono a stare ferme, che diamine sta succedendo? Provo a mettermi seduto per alzarmi, ma non ce la faccio….una debolezza, mai provata prima, mi fa quasi ricadere all’indietro sul letto. Un sudore immane mi bagna tutto. Mio Dio questa volta ci siamo proprio! Non sento più le braccia, è come se qualcuno me le avesse amputate con un’accetta…. Con difficoltà riesco a trovare il telefono sul comodino per mettermi in contatto con il portiere di notte per dirgli di chiamare il 118. Dopo qualche minuto il mio stato catatonico viene interrotto dallo squillo del telefono, è  la portineria che mi dice che la centrale operativa del 118  mi vuol parlare:” Come mai vuole il nostro intervento?”
 “ Perché mi sto sentendo veramente male! Penso che sia il cuore… ho dolore precordiale, sono tutto sudato  e mi pare di svenire”.
“Presenta qualche fattore di rischio?”.
“ Tutti! Sono in sovrappeso, stressato, ho familiarità per cardiopatia ischemica e fumo come un assassino……”.  
  “ Male !“.
 “Scusate, non voglio pretendere nulla poiché sono un medico, ma se quasi alle 2 del mattino, sto al telefono, è perché mi sento veramente morire!”.
“… Non si preoccupi dottore. Veniamo subito”.
 Devo provare ad arrivare alla porta della camera per poterla aprire, ma che fatica! La testa mi gira, devo concentrarmi a fondo su me stesso, sul mio schema corporeo, ma alla fine ci riesco e mi metto anche seduto sulla poltrona, a questo punto preferisco evitare di assopirmi, casomai non dovessi risvegliarmi! Quando il 118 arriva, mi sto sentendo meglio, ho smesso di sudare e quell’astenia profonda è diminuita. E’ rimasto un dolore epigastrico che però non mi fa stare tranquillo. L’elettrocardiogramma che riesco a sbirciare, mostra la  tipica onda di lesione del tratto ST non  capisco in quale derivazione e in men che non si dica mi ritrovo incartato dentro un telo, sollevato e caricato in autoambulanza.” La portiamo all’ospedale! In mani sicure!” Mi dicono per rassicurarmi, e non mi viene detto altro. D’altronde non ho per niente voglia di parlare anche se sento dentro di me montare l’ansia, l’angoscia e la preoccupazione. Avrò un infarto? Penso di si, altrimenti che mi portano a fare in ospedale. Ma in questo momento il dolore si è attenuato, non sudo più e l’astenia è quasi scomparsa, quasi quasi dico di riportarmi in albergo. Forse però sarà meglio fare gli enzimi e qualche altro accertamento. Mentre sono assorto in questa concertazione con me stesso, mi ritrovo in barella spinto lungo un corridoio interminabile, dove alla fine trovo un altro collega che evidentemente mi fa la cartella: mi interroga sulle patologie pregresse, stili di vita ed alla fine mi chiede il numero di telefono di casa per ogni evenienza…..! E già, potrei all’improvviso perdere conoscenza, potrei morire, d’altronde basta un’extrasistole fatta bene per innescare una fibrillazione ventricolare letale, come potrebbero avvisare la mia famiglia senza numero di telefono….. la mia famiglia! La rivedrò? Mio Dio che sto dicendo?
 “ Allora collega, se non mi fai perdere tempo con tutte le boiate del consenso informato e della privacy, andiamo subito in emodinamica e ti stappo la coronaria chiusa” mi sento dire da un gigante alle mie spalle che riesco ad intravedere da sdraiato ruotando il più possibile gli occhi all’indietro.
 “Andiamo” rispondo e vengo portato in una sala che sembra una centrale di comando militare, come si vedono nei film: luci e lucette che lampeggiano, fili di tutti i colori e di tutti i diametri. Vengo adagiato, dopo essere stato tutto denudato, su un lettino gelido da intervento chirurgico, altri elettrodi ed arnesi mi vengono applicati al torace, una donna dai capelli rossi con la mascherina al viso mi mette un altro ago in vena dicendomi:” Ma doveva ammalarsi proprio questa notte per  farmi tirare giù dal letto alle 2 del mattino?”
“Allora collega, adesso cominciamo, ti faccio un taglietto sulla femorale per mandarti su il catetere”  mi dice il  gigante che nel frattempo si è messo la mascherina e la cuffia da sala operatoria. A questo punto vengo percorso da un brivido dai piedi ai capelli, l’ansia e l’ angoscia stanno montando in maniera insopportabile:” Basta” dico ” sarà quello che il Padre Eterno vuole” e stacco la spina. Tutto il mio cervello, tutta la mia mente è obbligata a cambiare immagini: il lettino con le sue lucette infernali scompare, il collega e l’infermiera con le mascherine spariscono, tutto l’ospedale svanisce: mi ritrovo sotto un sole accecante a rotolare sulla sabbia con mia moglie e i miei tre figli, giochiamo, ridiamo felici tutto il resto non esiste. C’è un mare azzurro, sento le onde, sento il calore…”Abbiamo fatto, collega, tutto a posto, sei tornato come nuovo” mi sento dire dal gigante mentre vengo trasportato via dalla sala di emodinamica e precipito ancora una volta nella  cruda realtà. Due belle ragazze in divisa da infermiera, spingono la mia barella sino all’Unità Coronarica, durante il tragitto mi sorridono in maniera dolce e cercano di rassicurarmi:” Oramai il peggio è passato, i nostri idraulici stappano bene qualsiasi  tubo, adesso cerchi di dormire. Vuole che telefoniamo  a casa? ” Telefonare ora a casa? Non è proprio il caso. Penso proprio che telefonerò domani mattina personalmente, chissà come reagirebbe Isabella sentendosi telefonare a quest’ora antelucana da un’estranea! Mentre mi parlano collegano gli elettrodi, che oramai sono diventati parte integrante del mio corpo, al monitor del mio letto e se ne vanno.
Finalmente il silenzio….il buio interrotto dal tracciato dell’elettrocardiogramma che scorre sui cristalli liquidi del display. Alla mia destra una tenda tirata a mo’ di sipario mi divide da un altro paziente che sento respirare in modo pesante. Allora vediamo un po’, domani non potrò tenere il mio intervento al corso perché sto qui……sto qui? Ma perché? Ma che mi è successo? Allora  è proprio tutto vero ? Ho avuto davvero un infarto e mi hanno fatto un’angioplastica….Mio Dio! E ora che succederà? Sono diventato un invalido ? Quando si spargerà la voce nella mia città sarà un corri corri generale a cambiare medico......sono finito! Senza rendermene conto sto piangendo, anzi singhiozzando. Cerco in ogni modo di farlo il più piano possibile, ma è più forte di me e probabilmente mi stanno sentendo anche le infermiere, dovrei vergognarmene, ma non me ne importa proprio niente.
" Non te la prendere, vedrai che si aggiusta tutto" mi sento dire da dietro la tenda con un accento tipicamente toscano. " Io è la terza volta che vengo qui....poi vedrai che quasi te ne scordi". Sarà! Penso fra me e me, ma per il momento è come se mi stesse crollando il mondo addosso, mi sento strano, irreale e sfinito.....Mi ritornano le immagini di mia moglie e i miei figli, ma perché non riesco a pregare? Ci sto provando, ci devo riuscire! Tra i volti dei miei cari e le parole pensate di una preghiera arriva finalmente il sonno.
E’ un sonno strano con sogni caotici, prendono forma per un attimo, ma poi si dissolvono, cambiano senza mantenere una traccia, senza una logica per sparire del tutto appena comincia a filtrare la luce del giorno.
E’ l’alba di un nuovo giorno. Questo potrebbe essere il titolo di qualche film o libro, non ricordo bene, che parla dell’inizio di una giornata ricca e radiosa, ma non è più certo il caso mio. Mi sento come Cristo in croce.
Ho un introduttore sull’arteria femorale destra, ho un cateterino venoso nel braccio sinistro dove sono collegati due bocce di fisiologica con medicamenti e non posso pertanto muovermi più di tanto: le spalle sembrano non far più parte del mio schema corporeo, la colonna lombare è dolente in maniera sorda e continua, ma quello che sta più male è il mio morale. Mi sento a terra, stordito, avvilito, ho paura di morire, ma non tanto per me! Quello che mi assilla è il pensiero di mia moglie e dei miei figli…… che faranno senza di me? Come potranno andare avanti poiché lavoro solo io? Chi si prenderà cura di loro? Per fortuna sono iscritto da sempre all’ONAOSI e ho un’assicurazione sulla vita, è senz’altro qualcosa, meglio di niente!
“Buongiorno, le chiedo scusa, ma devo farle un’ecocardiografia” dice un giovane medico spingendo il carrello con l’ecografo. Rispondo positivamente con lo sguardo, viene tirata la tenda scura alla finestra per fare un po’ di buio per vedere meglio le immagini ed il mio torace viene spalmato con quel gel dove poi viene appoggiata la sonda. Il collega borbotta tra sé e sé, non mi degna di uno sguardo mentre guarda il mio cuore e alla mia domanda se poi vada tanto male mi risponde in maniera evasiva con un giro di parole la cui sintesi è che poteva andare peggio, e va via. A questo punto credo sia giunto il momento di telefonare a casa…..mamma mia……come faccio? Mi faccio coraggio e con il mio cellulare chiamo:” Ciao Isa ti devo dire una cosa……sono ricoverato in ospedale a Firenze perché ho avuto un problema al cuore…no, non sto scherzando è la verità….” e mi metto a piangere “ Comunque stai tranquilla, il peggio è passato, ma mi faresti veramente contento se venissi…….organizzati come puoi.. credo che potrai alloggiare nell’albergo dove tra l’altro ho lasciato l’automobile e la valigia….avvisa anche le mie sorelle che telefonassero ai miei vecchi”. Mia madre…. Fino ad ora non mi era venuta in mente e al suo pensiero piango ancora più forte.
“Tiziano! Per favore non fare così altrimenti non riesco a combinare nulla….. Cercherò di fare il mio meglio, cerca di stare tranquillo, però, ti raggiungerò il più presto possibile, non ti preoccupare..” ma mentre mi parlava sentivo che stava a stento trattenendo le lacrime.
 Adesso devo pensare ad informare la mia società scientifica che non posso tenere il mio intervento, devo pensare a trovare un sostituto devo…… ma basta non ho voglia di fare proprio un bel niente. “Eccolo il nostro collega ” entra dicendo così un medico di qualche anno più vecchio di me  accompagnato dal giovane cardiologo che poco prima mi aveva fatto l’eco cuore. Insieme a loro ci sono due infermiere che  spingono  il carrello con le cartelle ed altro. “ Dunque, fai il medico mutualista vero? Allora ti spiego quello che abbiamo fatto…..” Comincia così a farmi una lezione di fisiopatologia coronarica, di cardiologia interventistica come se a me importasse qualcosa di quelle informazioni. Probabilmente dovrei dare la sensazione di essere interessato, perché seguita a parlare imperterrito, parla di trombi e di cateteri senza minimante preoccuparsi delle mie emozioni e del mio stato d’animo. Seguita a parlare, a parlare, ma oramai non lo sento più. Non si rende  conto che oramai è come se per me non esistesse. Anzi, a dire il vero, è come si mi fossi staccato dal mio corpo e riuscissi a vedermi e a  vederlo dall’alto, come in un fumetto in cui il malato sulla propria nuvoletta ha tanti “punti interrogativi”  ed il dottore tanti “bla,bla, bla”.
Soddisfatto, mia stringe la mano e passa all’altro letto mentre le infermiere mi sorridono dolcemente e lo seguono spingendo il carrello. E pensare che avrei voluto chiedergli tante cose: se ce la potevo fare, che ne sarebbe stato del mio lavoro, della mia famiglia…….ma possibile nessuno si rende conto che in questo momento non sono più un medico, ma semplicemente un essere umano con le proprie ansie ed angosce, con delle richieste normali…che me ne importa sapere dove hanno messo  e che tipo di “stent” mi hanno messo?
Io voglio sapere se mi sarà più possibile correre per la città a fare le visite domiciliari, se potrò più affrontare la fatica e lo stress delle mie sedute ambulatoriali, se potrò più inquietarmi con i miei figli quando non danno retta, se potrò più amare mia moglie…..Ah! Eccola.
“Allora?...Che è successo?”  Mi dice tanto per dire qualcosa in maniera apparentemente decisa, ma non è la solita Isabella. Trucco quasi inesistente, occhiali da sole per nascondere gli occhi che dovrebbero aver pianto per gran parte del tempo, le sue mani  stringono in maniera esageratamente forte  la mia mano del braccio libero da aghi e deflussori.
 “ Ciao Isa “ ma non riesco a dire altro in quanto le mie parole vengono strozzate dai singhiozzi di un pianto che oggi definisco “liberatorio”.
 “ Se fai così…..vado via! Ho parlato con un medico di qui che mi ha rassicurato, ha detto che ti ha informato su tutto e che, anche se è ancora presto per poterlo dire, è andato però tutto bene, ha parlato di danno minimo senza tante conseguenze, sono cose d’altronde  che dovresti conoscere benissimo!”
 E già! Dovrei tutto conoscere benissimo, si dice presto, ma questa volta è capitato a me e non sono abituato a stare dall’altra parte, poi se permetti perché non ho il diritto di lagnarmi, di piangere, di voler essere rassicurato e anche coccolato? Perché per me deve essere tutto scontato e superfluo? Mentre mi sta raccontando come si è organizzata con la casa ed i figli, come i miei colleghi amici stanno provvedendo a trovarmi un sostituto smetto di ascoltarla per osservarla, mi sembra ancora più bella del solito, nonostante tutto! Mi vengono in mente tante idee: mi vorrà più? Mi accetterà ora che sono cardiopatico e malato? Chissà?
 “ Ma mi ascolti?” esclama rendendosi conto che con la testa sono da un’altra parte” Ma non t’importa di sapere come sto sistemando tutto?” E si mette a piangere sommessamente.” Ti prego, Tiziano, reagisci che da sola, senza di te, non ce la faccio a fare niente! Fammi un cenno, dimmi qualcosa!” Mentre dice queste parole, mi sto rendendo conto che qualche parte di me  quasi è contenta di farla soffrire un po’, come se fosse possibile trasferire il proprio carico di angoscia su di lei. Ma che sto pensando?  Devo proprio essere impazzito per comportarmi in modo così cattivo ed egoista…
” Scusa Isa, è un momento, vedrai che passerà tutto!” dico a parole, mentre da dentro penso che oramai sia tutto finito.
 Le ore passano fra un prelievo di sangue, il cambio di una flebo, l’infermiera che spinge il carrello delle terapie, i bisbigli e le parole che provengono dal mio compagno di sventura che si trova dietro la tenda che ci separa. La mia permanenza  nel letto dell’Unità Coronarica trascorre così, con i ritmi cadenzati dai turni del personale infermieristico che si avvicenda, la distribuzione del vitto…..piuttosto quanto tempo è che non tocco cibo? Oramai sono due giorni, è come se non ricordassi più di avere fame, per me che sono sempre stato una buona forchetta sembra quasi impossibile.
“ Ecco per lei un bello yogurt magro, se lo desidera ne appoggio uno sul suo comodino.” Mi dice l’infermiera, la stessa che faceva la notte quando mi ero ricoverato.
“Lo prendo, però lo mangerò quando arriverà qualcuno per imboccarmi” .
“ Se lo scordi, lei non ha bisogno di essere imboccato, è in grado di farlo da solo, non creda che non la osservi…. È ora che la smetta di piangersi addosso e di autocommiserarsi. Va bene, ha avuto un infarto, come la maggior parte di quelli che passano in questo reparto, ma è tempo che asciughi le lacrime, rimbocchi le maniche e cominci a riprendere contatto con la realtà, caro mio dottorino! Alzi il culo, si giri sul fianco sinistro, allunghi il braccio libero e cominci a mangiare questo benedetto yogurt “Mi sorride e se ne va.
Mamma mia, e chi sarà mai questa che si permette di trattarmi così, ma non si rende conto che sto male? Che non ce la faccio più a fare niente! L’unica persona al mondo in grado di capirmi sarebbe senz’altro mia madre,…mia madre, ma perché mi viene in mente tanto poco, adesso la chiamo. Prendo il cellulare dal cassetto, lo accendo e faccio il numero della mia casa paterna, dopo solo due o tre squilli sento: ”Pronto?” E riconosco la sua voce inconfondibile .” Ciao, mamma, non ti preoccupare perché ora sto bene, non posso parlare a lungo, ricordati che ti voglio tanto bene…..” e comincio a singhiozzare.
 “Anch’io te ne voglio, ti aspetto presto a casa  e piangendo riattacca.
E sì. Sono proprio messo male. Le spalle e la schiena mi fanno impazzire, l’arto inferiore dx, quello con l’introduttore sulla femorale è talmente intorpidito che sembra una protesi. Provo a contrarre in maniera ritmica i muscoli dei glutei per cercare di far respirare il sacro e provare un temporaneo senso di sollievo, ma la crisi maggiore è quando devo usare “ il pappagallo e la padella”. Sono convinto che non esista al mondo umiliazione peggiore.
“Coraggio dottorino, i suoi colleghi ci hanno incaricato di liberarlo! Lo trasferiamo dalla terapia intensiva alla corsia normale perché tutto sta filando per il verso giusto”. Per fortuna ci sono le infermiere che ti sorridono, che t’incoraggiano, ti sollevano il morale perché i colleghi! Li ho sempre visti molto sfuggenti, saranno bravissimi tecnicamente parlando ma quanto ad empatia e solidarietà conviene stendere un velo pietoso.  La maggior parte di loro quando ti parla evita di guardarti negli occhi, cerca di limitare il contatto al minimo indispensabile, forse sono inconsciamente turbati dal trovare un loro collega quasi coetaneo  malato, steso sul letto. Sempre forse, da qualche parte sfuggono all’angoscia derivante da una loro probabile immedesimazione nella mia condizione e per questo se non scappano, si nascondono dietro ad un mero ruolo tecnico: ogni visita termina con una lezione di cardiologia…. Chissà? Finalmente mi posso muovere rigirarmi su me stesso, riassaporo il gusto di poter cambiare posizione e postura se pure da sdraiato.  Via l’introduttore femorale, via i deflussori delle flebo, mi ritrovo in una camera con altri due pazienti che discutono di calcio, l’atmosfera è decisamente cambiata. Finalmente posso rialzarmi, infilare le pantofole e tornare al bagno in maniera umana, ma l’entusiasmo sparisce subito. Come provo infatti a tirarmi su, la testa comincia a girare, un’astenia profonda come quella provata la notte dell’infarto mi assale e non ce la faccio a mettermi in piedi. Mio Dio sono proprio finito, non c’è proprio niente da fare. “ Oh! Senza furia” mi dice un infermiere con spiccato accento toscano
” ‘osa pretende dopo esser stato steso per quattro giorni….. faccia adagio adagio!”
Seguo il suo consiglio. Dapprima seduto con il dorso appoggiato al muro, quando la testa smette di girare metto i piedi in terra, ma ricomincia il vortice. Resisto. Quando cessa, mi tiro su appoggiandomi con le mani sulla parete ed aspetto. Dopo qualche minuto, sentendomi stabile comincio a muovere i primi  timidi passi verso la porta della camera, sempre appoggiandomi alla parete. Che fatica, le gambe mi tremano, la testa non gira più ma sembra evanescente. Riesco comunque a uscire dalla stanza e a strisciare come uno zombi lungo il corridoio del reparto.
“ Forza dottorino, vede che cominciamo a ripartire, mi raccomando sia deciso e se cerca il bagno lo trova in fondo a sinistra” mi dice la solita infermiera che mi aveva
“ strapazzato” quando volevo essere imboccato. Si fa presto a dire di essere decisi quando si sta bene, ma quando si sta male  come me è tutta un’altra musica. Adesso poi mi tocca attraversare il corridoio senza che mi possa appoggiare alla parete, e se cado? Via lasciamo perdere e comincio a tornare indietro. Ma devo allora usare ancora il pappagallo! A no! Preferisco piuttosto rischiare di cadere, ma che strazio! Con questo mio contraddittorio mentale arrivo alla porta del gabinetto da dove sta uscendo un paziente attempato che traffica in maniera quasi furtiva sulle tasche della vestaglia che indossa. Attraverso l’antibagno e già comincio a sentire un odore che mi è familiare. Entro dentro il bagno e l’odore del fumo di sigaretta appena fumata è fortissimo, neanche la finestra lasciata completamente spalancata riesce a smaltirlo, come se evidentemente si fossero avvicendati diversi fumatori. Mi sembra di essere tornato ai tempi del liceo, quando la pausa fumo dentro i gabinetti per non farsi vedere dai professori era regola quotidiana. Ma guarda un po’! Mi ero completamente dimenticato delle sigarette, adesso quasi mi sta tornando la voglia, in quale camera starà il paziente che mi ha preceduto per farmene dare una? Ma che sto pensando? Mi gira la testa per camminare figuriamoci se riprendo anche a fumare…..Dio che fatica a stare in piedi, non vedo l’ora di tornarmene in camera. Mentre “rincaso” lentamente, strisciando lungo la parete del corridoio, incrocio un collega che mi saluta con un rapido buongiorno e fugge via. Arrivo a letto che sono completamente esausto, è veramente impossibile tornare come ero prima e mentre penso questo mi giro verso la parete voltando le spalle ai miei due compagni perché non voglio farmi vedere che sto piangendo. Non c’è niente da fare sono proprio diventato un invalido, un peso per la società e per la mia famiglia. Sonnecchio un po’ e mi alzo nuovamente facendo finta di sbadigliare per evitare di ricominciare a piangere. Le gambe tremano, ma la testa non gira più come prima. Vado alla finestra della camera. Siamo all’ultimo piano, quasi a sotto tetto. La primavera non è ancora finita sul calendario, ma di fatto è già estate. Un sole abbagliante picchia e riscalda tutto quanto. All’orizzonte le sagome sfumate di montagne che non riesco a censire: Alpi Apuane? Appennino? Non mi rendo conto in che direzione sono orientato. Qua e là s’intuiscono agglomerati urbani avvolti da una sottile cappa grigia: probabilmente per l’inquinamento. Più vicina la pianura anch’essa sotto la cappa grigia. Chissà quanta gente in questo momento sta correndo in questo pezzo di mondo, si sta affannando per qualcosa che nemmeno saprebbe definire e poi, con quale scopo? Ne vale la pena? Corri, ti agiti, cerchi di costruirti uno spazio e poi? Arriva una mazzata com’è arrivata a me e finisce tutto…..Mi stanno per tornare le lacrime. Non me la sento proprio di seguitare a lottare, sono stanco, malato, con le gambe che quasi non mi reggono. Come sono disgraziato….quasi quasi….  volo giù, sono veramente in alto, più in alto delle chiome dei pini marittimi che fanno ombra al piazzale di sotto. Il parapetto della finestra è veramente basso, non mi arriva all’ombelico e se mi appoggio e mi sbilancio in avanti precipito senza neanche sforzarmi più di tanto. E’ un attimo e mi tolgo il pensiero…chi  ha voglia di ricominciare? Basta! Ma chi è che si è alzato in piedi dalla panchina giù in basso sul piazzale?  I rami degli alberi che si interpongono fra noi impediscono di vedere bene. Sta sorridendo e sta sbracciando verso di me e sta chiamando qualcuno poco distante. Ma è mio figlio Emanuele, il più grande dei tre e subito arriva anche mia moglie che agita la mano per salutarmi, sorride e si guardano e sorridono. Perché tanta felicità? Ma certo, mi vedono in piedi, alla finestra pensano che sono guarito……Mi vengono le lacrime, senza singhiozzi però, ma che stavo pensando? E  loro? In pochi attimi rivedo tutta la mia vita. Rivedo anche l’altro figlio e l’altra figlia…… non posso certo arrendermi. Devo andare avanti e mi rendo conto che sto piangendo di nuovo, ma di gioia.
Sono passati 13 anni da allora, ma mi ricordo tutto come se fosse accaduto ieri. Lo confesso, non ho idea di come sarebbe andata a finire se quella mattina non avessi incrociato  con gli occhi i miei cari. Probabilmente non sarei comunque volato giù, ma la tentazione è stata forte.
In questi 13 anni ho fatto e ho ricevuto tanto, non mi piace fare l’elenco delle soddisfazioni professionali ed esistenziali che ho avuto, ma quello che mi preme sottolineare è il fatto come da un’esperienza drammatica e negativa come quella di una malattia  si possa trarre un bilancio molto positivo. Ancora mi commuovo al ricordo di come piangevano i miei pazienti nel sentire la mia voce quando ho ripreso a rispondere al telefono, le lettere e i biglietti di auguri e di solidarietà che ho avuto da loro, da amici e colleghi. Quanta gente mi è stata vicina e quanta gioia e quanto calore mi hanno dato. Quanto ho imparato! Quanto è cambiato il mio modo di valutare e giudicare la vita, ma  soprattutto ho imparato quello che a voce tutti dicono, ma che nessuno capisce fino a quando non ci batti il muso di persona: le battaglie più dure da combattere non sono contro gli altri, ma con se stessi.