mercoledì 7 dicembre 2016

UN NUOVO CONCETTO DI SALUTE PER UNA CURA DEL CORPO E DELLA MENTE. Testo del mio intervento per la vacanza studio AIEMS 2016 che non si è tenuta causa terremoto

 UN NUOVO CONCETTO DI SALUTE Per una cura del corpo e della mente


Dall'articolo III del codice di deontologia medica della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi ed Odontoiatri dello Stato Italiano".......
Doveri del medico sono la tutela della vita, della salute psico-fisica, il trattamento del dolore e il sollievo della sofferenza, nel rispetto della libertà e della dignità della persona, senza discriminazione alcuna, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera.
Al fine di tutelare la salute individuale e collettiva, il medico esercita attività basate sulle competenze, specifiche ed esclusive, previste negli obiettivi formativi degli Ordinamenti didattici dei Corsi di Laurea in Medicina e Chirurgia e Odontoiatria e Protesi dentaria..."
Ho voluto riportare questa citazione del codice deontologico della mia  professione per fare alcune riflessioni in generale su come debba operare un medico e in particolare se la formazione universitaria che ho ricevuto sia stata veramente in grado di garantire questi obiettivi, ben consapevole che la mia esperienza non può essere generalizzata per tutti, soprattutto per le nuove generazioni. Dall'anno in cui mi sono laureato, 1977, si sono succedute diverse riforme dei piani di studi del corso di laurea  e probabilmente la situazione è cambiata, anche se è mia  sensazione che il cambiamento sia molto marginale e non so se proprio in meglio.
Si presume che uno studente in Medicina venga preparato e formato nella conoscenza del corpo, anzi dell'organismo e l'uso di questo sostantivo  è già di per sé tutto un programma.
 Un testo molto ambito quando frequentavo il primo biennio della facoltà di medicina e Chirurgia era senza dubbio l'Atlante di Anatomia Netter. Per i profani si tratta di una serie di volumi che contengono delle tavole anatomiche disegnate in maniera tale da essere considerate eccellenti da un punto di vista didattico. Mentre studiavo sui testi o sulle dispense  di Anatomia Umana consigliate dall' Università, consultare queste tavole costituiva un aiuto fondamentale per poter imparare la morfologia dei vari organi ed apparati. Dirò di più! Sfogliando continuamente quelle immagini, con il passare del tempo nella tua mente si crea la convinzione che quei disegni rappresentino "il corpo" dell'essere umano, con quei colori e schematismi, con quelle forme e posizioni. Si formalizza, insomma, il concetto che quello sia il corpo e, quel corpo diventa quasi, di fatto, il tuo modello di riferimento per tutti gli anni a venire.
Nel secondo biennio di Medicina, attraverso la fisiologia e la fisiopatologia  mi hanno insegnato come funziona il nostro corpo e come si ammala da un punto di vista generale . Nel terzo e ultimo biennio, con le cosiddette cliniche, invece, ho imparato come si ammalano i vari organi e apparati in maniera più specifica e come dovrebbero essere curati. Tutto perfetto? Senza dubbio ci sono diverse criticità. Già quando al V anno per preparare l'esame di anatomia patologica assisti alle autopsie e vedi com’è la reale  anatomia di un corpo entri in crisi...tutti i colori e tutti gli schemi delle tavole anatomiche vanno messi da parte e già il distinguere un'arteria da una vena non è poi così automatico per un occhio non allenato. Quando poi cominci a frequentare i reparti, molte malattie e quadri clinici che ti hanno insegnato o non li ritrovi, o li ritrovi molto spesso modificati in maniera molto sensibile, o ne trovi altri che invece non riesci a collocare.
Quando poi cominci a lavorare nel territorio, come ho fatto io, come medico di famiglia, la dissonanza cognitiva, chiamiamola anche dissonanza formativa, diventa una tonalità quasi assordante.
Che cosa ci hanno insegnato, infatti, sul corpo? Come ci hanno fatto studiare le malattie incasellandole in maniera tale da farcele apprendere e ricordare?
Maurizio M. ha 32 anni viene in ambulatorio dicendo che da qualche tempo non digerisce bene e che il mattino si sveglia con la bocca amara. Dopo pranzo si sente la pancia gonfia e con qualche doloretto che si sposta continuamente interessando tutti i quadranti dell'addome. Non calo di appetito, non dimagramento. Esame obiettivo negativo. Richiedo analisi del sangue di routine con prove di funzionalità epatica che vengono negativi. Rassicuro e non prescrivo farmaci consigliando moderazione generica nell'alimentazione. Dopo un mese torna riferendo di stare sempre peggio e non trovando nulla di nuovo, più per farlo contento, lo invio dal gastroenterologo che me lo rimanda con una lunga serie di prescrizioni: accertamenti  ematochimici che spaziano dalla celiachia alla funzionalità pancreatica, markers tumorali, ricerca dell'Helicobacter Pylori, ecografia di tutta l'addome, esofagogastroduodenoscopia. A malincuore faccio le richieste......dopo un mese tornano le risposte che, come mi aspettavo, sono tutte negative. A questo punto cerco di rassicurare nuovamente , ma la risposta del paziente è:
" Fino a quando non troviamo un nome a questa malattia, proseguiamo con gli accertamenti!".
Valentina P. ha 74 anni, vedova senza figli con il marito deceduto qualche anno indietro per un cancro al colon. E' affetta da diabete mellito con scarsissimo compenso metabolico, ipertensione arteriosa, lieve emiparesi per postumi di un’ischemia cerebrale. Grande obesa, entra in ambulatorio con fatica, respirando affannosamente e in visibile stato di agitazione. Le chiedo che cosa le stia succedendo e lei mi risponde che questa notte ha avuto un discreto mal di pancia con un po' di diarrea e forse ha visto anche qualche "traccina" di sangue.
La visito, la tranquillizzo dicendo che avrà avuto un episodio colitico di scarsa importanza e anche il vedere un po' di sangue in tali occasioni è cosa abbastanza normale, ma che sarebbe opportuno, già che era venuta, fare un po' di analisi per vedere anche come andava il diabete...." No, dottore, la ringrazio, al mio diabete ci sono abituata. La mia paura era se avevo un tumore all'intestino come mio marito! Io sono sola adesso, e chi mi avrebbe assistito? Ma lei mi dice che non ho niente e a me basta così!" Mi saluta e senza darmi la possibilità di replica va via.
Queste appena descritte sono situazioni di ordinaria e quotidiana osservazione negli studi dei medici di famiglia, ma che cosa ci è stato insegnato per poterle gestire? Quali strumenti possiamo adoperare o, di fatto, adoperiamo ogni volta ci troviamo a dover condividere questi accadimenti con i nostri pazienti?
Ognuno di noi, di solito si comporta a suo modo: chi nel primo caso proverà ad attivare un'ulteriore consulenza specialistica, magari anche psicologica, mentre nel secondo caso chi lascerebbe perdere o chi reagirebbe in maniera più decisionista. Quali le alternative? E' possibile ipotizzare qualcosa di diverso?
Qualche linea guida che si possa apprendere da studente? Io sono convinto che non sia sufficiente aggiungere nel piano degli studi universitario un corso di psicologia o di comunicazione o di relazione medico- paziente. Senza dubbio occorrerà anche questo, ma il vero problema andrebbe per quanto più possibile affrontato anche in termini d’impostazione e di metodo: una rivisitazione epistemologica dei principi su cui si fonda la medicina e la formazione del medico. Sappiamo tutti come questa si fondi su una visione puramente biomedica del corpo che origina dalla filosofia meccanicista di Cartesio. Il corpo viene pertanto analizzato secondo un'ottica categorizzante, che lo scompone in apparati, sistemi, organi, cellule e molecole, relegato nella res extensa e soprattutto separato dalla res cogitans: l'anima, la coscienza, il pensiero che determina l'esistenza. Anche il malato recepisce, spesso senza rendersene conto, questa concezione in quanto il più delle volte cerca di definire o vuole che sia definito il proprio dolore o malessere in qualcosa di preciso, localizzabile, oggettivabile per poterlo vincere ed eliminare. Questo presupposto, però, se resta forse valido per i problemi acuti, non è assolutamente sufficiente per affrontare la patologia cronica che sta diventando una vera e propria epidemia e sta mettendo a dura prova la sostenibilità dei Servizi Sanitari del mondo occidentale. Dovremo imparare, a mio giudizio, a rivedere il concetto di corpo e molto dovremo imparare dal pensiero fenomenologico-esistenziale di Husserl, Heidegger e soprattutto di Merleau Ponty. Non è mia intenzione, non ne avrei nemmeno la capacità, ripercorrere tutta la riflessione filosofica che deriva da questi nomi, ma mi preme evidenziare come un cambio di paradigma sia diventato oramai un'esigenza inderogabile per la formazione e l'attività del medico, soprattutto per il medico di famiglia.
Affrontare lo studio del corpo esclusivamente come Korper, vale a dire come corpo anatomico, biologico, corpo oggetto, se da un lato facilita enormemente la categorizzazione e l'apprendimento per organi ed apparati e funzioni biologiche, da un altro lato lo svuota di tanti altri contenuti come le emozioni, l'intelligenza, la propria storia, i propri vissuti che sono appannaggio, invece, del corpo come Leib, corpo vissuto appunto.
E' possibile per un medico poter curare Maurizio e Valentina senza poter entrare nella loro dimensione di "corpo vissuto"? E' possibile fare a meno di una comprensione del loro corpo che vada oltre i loro organi? Penso proprio di no! Senza dubbio "hanno" un corpo che va studiato in un'ottica, ma "sono " anche un corpo che va approcciato in un’ottica più ampia, più complessa, più sistemica. Tutta la nostra conoscenza, tutta la nostra esperienza passa attraverso la nostra corporeità, è attraverso tutto il nostro corpo  che origina di fatto il nostro mondo e dà un senso a tutto quello che accade; il nostro corpo quindi come " carne del mondo" perché  è la nostra carne che sente e si emoziona e, nello stesso tempo, quella che ci permette di capire ciò che abbiamo sentito e ciò che ci ha emozionato come espressione del nostro essere persona fisica e pensante contemporaneamente  nella sua totalità e unicità  di fronte al mondo. A questo punto della riflessione sorge spontanea la domanda su che cosa succeda quando ci relazioniamo  con il "corpo vissuto" dell'altro tenendo conto che anche noi medici, noi osservatori, abbiamo un nostro corpo, una nostra corporeità e un  nostra essere nel mondo che viene a sua volta  plasmato e definito dall'esperienza di vita e del mondo stesso? Da qui scaturiscono tutte le conseguenze e le inferenze che derivano dal nostro agire medico, non solo clinico, ma anche dal tipo di rapporto e di esperienza che si origina dal nostro scegliere e parlare, dal nostro embodiment con l'altro.
Altra domanda che viene spontanea è come sia possibile trasferire tutta questa impalcatura teorica nella pratica della nostra attività lavorativa?
Primo passaggio, convincersi che non ci relazioniamo più solamente con il corpo del paziente come corpo biologico alla ricerca di segni e sintomi di una malattia convenzionalmente definita, ma come un corpo in carne e ossa che prova emozioni, interpretazioni del proprio malessere, esperienza di sé e della sua malattia. Un corpo soggetto che deve essere aiutato ad esprimere la propria intenzionalità, la propria potenzialità e  progettualità attraverso la narrazione di sé, attraverso un intervento educativo centrato su quel paziente e su quel problema, su quell'uomo e sul suo sistema ambiente, sistema sociale e relazionale. Da tutto questo deriva una completa rivisitazione del concetto di salute che non può più essere quello individuato dall'Organizzazione Mondiale della Sanità nell’ormai remoto 1948:" .... non solo l’assenza di malattie ed infermità, ma uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale". Alla luce di quanto esposto, che presuppone una visione sistemica della vita, non potremo trovare mai una definizione precisa della salute, valida per tutti in quanto "la salute è un'esperienza ampiamente soggettiva, le cui qualità possono essere conosciute intuitivamente, ma non possono essere mai descritte o quantificate in modo esaustivo. La salute è uno stato di benessere che si sviluppa quando l'organismo funziona in un certo modo....Il concetto di salute e, pertanto, i relativi concetti di malattia, disturbo e patologia non si riferiscono ad entità ben definite , ma sono parte integrante  dei modelli limitati ed approssimativi che rispecchiano il complesso e mutevole fenomeno della vita"( F.Capra, P.L.Luisi 214). Una definizione di salute che si avvicina ai concetti espressi è quella ipotizzata nella Conferenza Internazionale ( Is health a state or an ability? Towards a dinamic concept of health) tenutasi a L’Aia nel dicembre 2009 di cui ho scritto in passato (T.Scarponi 2012). In quell'occasione venne indicata una concezione di salute "... dinamica, basata sulla resilienza e sulla capacità di difendere, mantenere o recuperare il proprio equilibrio e senso di benessere. Salute quindi come capacità di adattarsi e autogestirsi. Particolare importanza, quindi, al processo di resilienza che in psicologia viene individuata nella capacità degli uomini di affrontare le avversità della vita, di superarle venendone fuori rafforzati. Si tratta pertanto di un processo dinamico che parte da un nuovo modo di valutare il proprio concetto di sé, degli altri e del mondo che ti circonda. E’ un processo individuale, personale che scaturisce dalle proprie reazioni difronte agli eventi traumatici della vita e pertanto  un percorso che è valido per una persona potrebbe non esserlo per un'altra in quanto legato al proprio vissuto, alle proprie concezioni e alla propria cultura di riferimento..."  Ecco pertanto rafforzarsi il concetto di salute come un processo in divenire di un essere che continuamente si deve adeguare ai continui cambiamenti della vita e pertanto
è davvero impensabile ad un netto confine fra salute e malattia. "La vita non è solo una dimensione biologica, ma comprende anche una dimensione cognitiva, sociale ed ecologica, cui corrispondono altrettante dimensioni della salute"
A questo punto possiamo parlare di una concezione sistemica che prevede in particolare tre livelli di salute tra loro interconnessi: individuale, sociale ed ecologico continuamente interagenti. Salute pertanto come bilanciamento dinamico, salute come:" Un'esperienza di benessere risultante da un equilibrio dinamico che implica gli aspetti fisici e psicologici dell'organismo, oltre che le sue interazioni col suo ambiente naturale e sociale"  ( Capra 1982) Appare a questo punto automatico che ogni malattia comporta degli aspetti mentali, cognitivi in un'ottica sistemica, quindi ammalarsi e guarire devono a loro volta essere considerati dei processi cognitivi.
Come posso concludere queste considerazioni? Senza dubbio con l'invito e l'impegno con chi ne ha potere e possibilità di cominciare a far passare certi concetti e riflessioni nella formazione dei futuri medici, meglio, in tutti coloro che in qualche modo hanno un qualche ruolo nel prendersi cura. E' poi importante capire che questo è solo l'inizio di un processo che dovrà essere sviluppato e reso percorribile. Ma tornando al nostro Maurizio e alla nostra Valentina? Come medico di famiglia devo dare comunque delle risposte subito. Risposte certe? Credo di no! Ma il medico di famiglia è abituato all'incertezza e all'indefinito. Per Maurizio ho aspettato che si sentisse stanco nei suoi "pellegrinaggi verso i santuari degli specialisti" e ho cominciato a chiedere come gli stesse andando la vita in generale, lo sto facendo narrare e un po' alla volta si sta aprendo. Vedremo. Per Valentina al momento ho ritenuto opportuno di non "infierire" sulla cognizione che ha di se stessa e sul suo essere abituata al " suo diabete".....molti colleghi storceranno il naso, ma ho fatto così! Più vado avanti con gli anni e con la professione e più maturo esperienze e ,in teoria, dovrei acquisire sempre più certezze e sicurezza, invece forse si sta verificando il fenomeno contrario, come ho scritto nell'ultima recensione che ho fatto per il libro: di Silvano Biondani, Paolo Malavasi e Sebastiano Castellano “I medici si raccontano. Voci dal confine del sapere”, il sottotitolo voci dai confini del sapere è quello che definisce meglio la situazione della medicina di famiglia "…sono le persone con problemi di salute irrisolti quelle che ci coinvolgono maggiormente. Ci chiamano ad essere interpreti di malanni complessi, stagnanti o aggressivi, in cui molto spesso non ci sono risposte… Molto spesso le risposte mediche, diagnostiche e terapeutiche, sono prerogative degli specialisti… Quando le prognosi sono oscure tocca a noi, medici di famiglia, guidare i malati, insieme a chi è loro vicino, nel difficile percorso di adattamento ad una vita peggiore”.


giovedì 27 ottobre 2016

IO SONO DEMATERIALIZZATO. Editoriale pubblicato sul Bollettino dell'Ordine dei Medici della Provincia di Perugia 3/2016

Io sono dematerializzato!

Chi mi conosce o chi mi segue leggendo questi editoriali sa benissimo come la penso in merito all'informatica, alla telematica e via dicendo. Anche se sto sempre dalla parte di chi invoca l' Umanesimo in sanità, sono perfettamente consapevole che il mondo va avanti, la società cambia e va avanti e anche la medicina, nonostante qualcuno pensi il contrario come se fosse una categoria dello spirito di gentiliana memoria, va avanti e muta. Ci potrà piacere oppure no, anche il nostro lavoro di conseguenza subisce il cambiamento e a noi non resta che adeguarci e cercare di metterci in maniera pragmatica a nostro agio in una situazione in cui di primo impatto tutto può sembrare ostico e di difficile gestione.
Quando iniziai, il passato remoto è d'obbligo, nel 1978 a lavorare, niente mi faceva supporre che nel giro di pochi anni avrei cambiato in maniera strutturale il mio modo di lavorare. Nel settembre dell'89 acquistai il mio primo personal computer: un "Amstrad" con un microprocessore "AT" e una memoria di hard disk di addirittura 20 mega con cui iniziai a tenere la mia prima cartella clinica informatica orientata per problemi e a stampare ricette con una stampantina ad aghi che  emetteva il suo caratteristico suono da pelle d'oca ad ogni cambio di riga. Da allora anche il mondo dell'informatica si è evoluto a un ritmo vertiginoso, tanto rapido che non si faceva in tempo ad acquistare una nuova " macchina" che dopo nemmeno un anno cominciava ad essere superata.
Dos, Windows in decine di versioni.....per arrivare allo stato attuale in cui ora lavoro in rete con i miei colleghi della medicina di gruppo e on line con l'Agenzia delle Entrate ed il server regionale. In questo momento, dico ai miei pazienti, lo studio del medico di famiglia è diventato come lo sportello bancario o delle poste.......se non va il terminale non si può più fare niente.
Un tempo, compilare una ricetta o un’impegnativa per accertamenti era una  "volata": cognome e nome del paziente, numero di libretto  della mutua,  diventata poi SAUB e poi USL, il nome commerciale del farmaco con la quantità consentita, firma e via. Adesso la compilazione di tali apparenti pezzi di carta è invece diventata un qualcosa di veramente complesso, di articolato quasi inintelligibile. Vediamo tutti i passi ad uno ad uno!
1) Cognome  e nome del paziente, che però per la privacy andrebbe chiesto se metterlo in chiaro oppure oscurato.
2) Codice fiscale
3) indirizzo del paziente, obbligatorio se farmaci della IV tabella.
4)Codice di esenzione dal ticket     oppure
5) Fascia di reddito
6)Sigla provincia e numero dell'ASL di appartenenza
7) Finalmente il farmaco, ma attenzione! Indicare il nome chimico se nuova terapia, nome chimico insieme al nome commerciale se vecchia terapia, solo nome commerciale con la dizione di NON SOSTITUIBILE con la motivazione,  se vuoi che il farmacista dispensi il prodotto che prescrivi.
8) La nota CUF se ricorrono le condizioni per la rimborsabilità del farmaco  e poi, facoltativa, la biffatura della lettera S per indicare che la ricetta è suggerita, vale a dire è una ripetizione di una prescrizione specialistica.
9) Timbro e firma.
Se si tratta di accertamenti la cosa si fa molto più difficile!
Sino al passaggio n.6 le modalità sono le stesse, ma soprattutto da quando è arrivata la dematerializzata il passaggio principale, quello dell'indicazione dell'esame è diventata una specie di labirinto di difficile percorso. Va da sé che in un sistema, in una rete in cui i vari nodi dialogano fra loro si debba usare un linguaggio unico: il nomenclatore regionale nel nostro caso, ma il problema è che la sua stesura ha comportato la rivisitazione della denominazione di molte specialità senza previa informazione e concertazione con chi queste le deve poi richiedere. Un esempio. La richiesta di una visita neurologica legata ad un sospetto diagnostico o a una diagnosi circostanziata dovrebbe essere cosa tranquilla, ma non è così: il CUP rimanda al mittente la richiesta se accanto alla visita neurologica non compare in maniera predefinita e con un codice, la dizione per i disturbi del movimento, per i disturbi della memoria, dei disturbi del sonno o del centro cefalee, delle malattie demielinizzanti, neurologica vascolare, neurologica endocrinologica e chi più ne ha più ne metta. Sono comparse poi richieste nuove di zecca: medicazione non asportativa di ferita, esame senologico clinico-strumentale che esplode tre prestazioni, tutti i profili che esplodono ogni ben di Dio e altro. Risulta scomparso invece l'esame istologico ed altri esami che possono essere richiesti solamente dallo specialista. Un'altra grande criticità è proprio quest'ultimo, che seguita a crocettare esami su fogli prestampati o, a richiedere specialità senza minimamente adeguarsi al nomenclatore, ma che ci possiamo fare?
Una volta individuato l'esame in maniera corretta, mi faccio il segno della croce per l'eventuale codice RAO. Qui in teoria doveva essere tutto semplice e chiaro. Io stesso ho partecipato in Azienda USL alle commissioni per l'individuazione delle Categorie Omogenee di Attesa, ma come al solito fra il dire e il fare c'è in mezzo il mare! La burocrazia ottusa, il paziente ansioso, l'autoreferenzialità più o meno consapevole del terminalista CUP o del farmacista ci stanno costringendo di fatto a ripetere la prescrizione di circa il 40% delle richieste.
Fra il "non c'è posto" o " c'è posto fuori sede", prenotazioni bloccate, " c'è posto se ti ci mette l'urgenza" la richiesta di accertamenti è diventata una concertazione continua molto spesso foriera di dissapori, discussioni e persino liti con tanto di revoca del medico di famiglia da parte dell'assistito.

Tutto questo che è stato detto sino ad ora, riguarda unicamente il tempo e le energie mentali spese per la compilazione formale della prescrizione. Pensate il dover fare una ricetta a casa del paziente in occasione di una visita domiciliare con una persona anziana che non si ricorda dove ha messo la tessera sanitaria e a quale fascia di reddito appartenga! Noi non ricordiamo, magari, se il paziente ha un'esenzione per patologia specifica o il numero della nota CUF per quel farmaco! Pensate se, come spesso capita, in ambulatorio all'improvviso sparisce il collegamento telematico o si inchioda il programma che gestisce il data base. Immaginatevi quando si inceppa la stampante, quando si "incasina" la rete della medicina di gruppo o l'ENEL sospende l'erogazione dell'energia elettrica per guasti o manutenzione! A tutto questo aggiungete magari l'ansia per una diagnosi incerta dopo un esame clinico, l'avere pensato una terapia che deve essere efficace, appropriata e possibilmente di basso costo, oppure un accertamento con la dizione giusta, appropriato e con RAO che non dia poi adito a discussioni. Pensate a tutto questo, quando oramai spruzzate adrenalina da tutti i pori,  nel momento in cui date l'invio per la stampa e pensate che la prescrizione stia viaggiando nella rete dematerializzata.......vi viene spontaneo:
" Voglio dematerializzarmi anch'io!".

sabato 27 agosto 2016

A PROPOSITO DI TERREMOTO: RACCONTO E CONSIDERAZIONI SUL SISMA DEL 24 AGOSTO 2016

A PROPOSITO DI TERREMOTO

Premessa
Queste riflessioni devono essere contestualizzate in un'ottica di chi per fortuna, nonostante i vari terremoti vissuti, non ha mai subito un danno nè diretto nè indiretto. A chi è stato toccato  in maniera tragica da questa esperianza, pertanto, potranno sembrare considerazioni superficiali e salottiere: a loro va tutto il mio rispetto, solidarietà e comprensione, a loro spettano ben altre storie e valutazioni. Inimmaginabile dovrebbe essere il vissuto di chi ha trascorso ore sotto le macerie in preda a dolori di ogni tipo aspettando la morte o la salvezza. Il solo pensare, poi, a chi in pochi secondi ha perso tutto: casa, moglie, figli od altri parenti  lascia attoniti e senza parole. Rispetto a queste storie tutto quanto impallidisce e  forse potrebbe dare anche fastidio, ma senza dubbio moltissimi, altrettanto fortunati come me, si potranno riconoscere in queste poche righe.



Mercoledì 24 agosto alle 3,36 sono stato svegliato dai movimenti del letto, dallo scricchiolio diffuso a tutta la casa e dal caratteristico boato sordo a mo' di rullio che accompagna il terremoto. Ho capito subito di che cosa si trattava: una vecchia conoscenza.......tutti i perugini come me, nati agli inizi degli anni '50 hanno oramai familiarizzato con questa "presenza". Anche mia moglie si è svegliata e anche lei  è rimasta calma e silenziosa. Mia figlia invece si è precipitata nella nostra camera agitata, spaventata....... mentre con le parole cercavamo di calmarla, mi sono tornate alla mente vecchie immagini, vecchi ricordi.
 Una scossa quando ancora abitavo in Porta Sant'Angelo durante la cena, con mia madre che si mise a pregare. Un'altra volta, nel pieno della notte, nel condominio di via Leonardo da Vinci, una forte scossa: molte famiglie si precipitarono giù per le scale e rimasero fuori nel cortile, andai nella camera dei miei genitori per chiedere il da farsi e mio padre girandosi dall'altra parte mi disse di tornare a dormire, "ma i vicini!" Chiesi io "Evidentemente domani mattina non avranno niente da fare" fu la sua risposta. Da più grande mi ricordo benissimo del terremoto della Val Nerina, di Monte Urbino con tutto il comprensorio eugubino, quello grosso del 1997 dell'Umbria e delle Marche, quello di Massa Martana, dell'Aquila, di Spina e San Biagio della Valle e tante altre scosse singole che non sono entrate nella storia collettiva....E si! Io e il terremoto siamo cresciuti insieme. Quanti respiri trattenuti, quanti colpi al cuore, quante volte la paura paralizzante! Ma alla fine mai una volta che io sia fuggito di corsa da casa. Poi tanti racconti:" L'hai sentito? Hai sentito che scossa? Che briscola! Che sgrullata! Che trezzicata! Ogni volta il tutto si ripete in modo quasi rituale: per diversi giorni come s’incontra qualcuno che conosci, tu ripeti la tua e lui la sua storia. Da giovane non me ne rendevo conto quale funzione assolvesse questo comunicarsi e scambiarsi la propria storia dell'evento, anzi non pensavo proprio che avesse una funzione..... semplicemente accadeva. Adesso, che ho più anni di esperienza di vita e di professione me ne rendo invece perfettamente conto e ne sono sempre più consapevole. E' come quando entra in ambulatorio un paziente e gli faccio "narrare" i suoi sintomi, i suoi problemi e lo faccio parlare dei suoi vissuti: da tempo ho capito che il raccontare è una esigenza, una necessità.
Diceva Karen Blixen:" Tutti i dolori sono sopportabili se li si fa entrare in una storia, o se si può raccontare una storia su di essi" Ed è proprio così, attraverso la mia narrazione riesco in maniera viva e concreta a rielaborare la mia esperienza e a condividerla, a darle un senso ed un valore e tutto questo attenua la mia ansia e lenisce il mio dolore. Ritorno indietro nel passato con la memoria e mi vedo come la paura e l'ansia del terremoto quasi sparissero  parlandone con mia madre, con mio padre, poi con mia moglie....dopo con amici e conoscenti. Il percepire che le mie inquietudini, le mie angosce erano state le stesse di chi in quel momento condivideva con me la stessa esperienza del sisma mi confortava, non mi faceva sentire più solo, mi faceva dimenticare, magari, tutto il resto della notte trascorso con il fiato sospeso a domandarmi se ci fossero stati danni, coinvolgimento di parenti, se ci fossero stati feriti o morti e dove?
Adesso tutta questa attesa del giorno dopo non esiste più, almeno per chi da un semplice telefonino o un tablet riesce a connettersi a qualche social come ho fatto anche io quasi subito. E' stato facile per me allungare una mano sopra il comodino e prendere il mio cellulare che tengo sotto carica per poi poterlo usare al meglio di giorno. Mi è bastato accenderlo, toccare l'icona con la effe bianca su campo celeste e voilà è cominciato il contatto con tanto  mondo ed umanità. Il primo post che appare è di un collega ospedaliero, evidentemente di guardia, che annuncia il passaggio del terremoto, forte, ma senza danni per l'ospedale di Perugia. Poi una mia amica di un piccolo comune vicino scrive se l'abbiamo sentito, di seguito è tutto un susseguirsi di esclamazioni di paura e di sgomento  di tanti amici spesso anche  in vernacolo. Appare il post di mio figlio, che vive a pochi chilometri di distanza, che cita un lancio di agenzia che ci informa sul grado e sull'epicentro del sisma che è in provincia di Rieti: ho pertanto realizzato che non siamo coinvolti in maniera diretta e che un figlio sta bene, anzi, gli mando un messaggio al quale risponde immediatamente con una telefonata in cui mi racconta in maniera dettagliata tutta la cronaca del "suo terremoto". Vivendo da solo, forse, la voglia di scaricare verbalmente tutto il suo vissuto era incontenibile. Nel frattempo le spie luminose che indicano se l'amico è on line  si accendono numerose, come se fosse mezzogiorno e vedo anche quella di mia sorella: invio messaggio e mi chiama, a sua volta mi racconta la sua storia e la sua paura e che ha già telefonato a nostro padre. E' tranquillo, ha detto la badante, e già sta guardando il televisore per l'edizione straordinaria sul sisma....insomma oramai ho saputo quasi tutto. Il figlio che sta a Firenze? Senz'altro non avrà avvertito niente e starà dormendo beato e a questo punto posso anche rilassarmi, ma lascio il telefono acceso, chissà se dovrò essere utile a qualcuno?

mercoledì 20 luglio 2016

RECENSIONE A " I MEDICI SI RACCONTANO: VOCI DAI CONFINI DEL SAPERE" PUBBLICATA SU OMNINEWS IL GIORNALE ITALIANO DELLA MEDICINA NARRATIVA

Dopo quasi 40 anni di professione di medico di medicina generale uno è convinto che di storie di pazienti ne abbia sentite tante, forse troppe, e pensare di dover impiegare altro tempo per addirittura leggerne delle altre era un fatto che mi lasciava molto perplesso. Non nascondo, poi, che la lettura è cominciata con un vizio di fondo, anzi con un pregiudizio forzando Gadamer: quello di dover per forza e a ogni costo trovare una spiegazione, una causa ed un effetto, un insegnamento da ogni storia, da ogni paziente….poi. Poi non mi ricordo come è successo, ho iniziato a leggere non più con gli occhi di critico, con gli occhi di sta cercando motivi o annotazioni, anzi, ho cominciato a chiuderli gli occhi per stare invece ad ascoltare Marica, Sara, Giacomo e ho cominciato così a vederli a prendere vita, a diventare volti noti, pazienti noti……ogni medico di famiglia ha infatti un suo Giacomo e una sua Sara.
i medici si raccontanoPer comprendere a fondo il libro di Silvano Biondani, Paolo Malavasi e Sebastiano Castellano “I medici si raccontano. Voci dal confine del sapere” (Edizioni Angelo Guerini e Associati, 2016) consiglio proprio di fare così: partire come se si dovesse leggere un romanzo, una raccolta di novelle. Gustarsi l’immediatezza dei personaggi e delle loro vicissitudini, delle loro malattie e poi arrivare in modo quasi spontaneo a capire che cosa? Che come sempre, non esistono modi, regole, norme che riescano a spiegare in un’ottica scientifica quello o quell’altro comportamento di una persona e di un individuo.
Che aggiungere? Il libro viene concepito come una raccolta  diracconti di medici di famiglia che periodicamente si riuniscono in quel di Verona e di Carpi e riferiscono la storia di un paziente che in qualche modo li ha interessati o colpiti in quel periodo. In pratica, scrivono il caso, lo distribuiscono ai convenuti e tra loro lo discutono. Le storie sono state raggruppate in capitoli secondo un certo profilo che li accomuna: pazienti terminali, pazienti parenti, pazienti problematici, racconti di medici tirocinanti o altri curanti e al termine di ogni capitolo c’è una breve parte in corsivo che più che un commento è una messa in fila di spunti e sollecitazioni che emersi durante la discussione del caso.
Durante la lettura dei vari capitoli sorge spontanea la domanda: è medicina narrativa questa?Senza dubbio gli estensori del documento stilato dall’Istituto Superiore di Sanità dopo la Conferenza di consenso per le linee d’indirizzo per l’utilizzo della medicina narrativa in ambito clinico assistenzialediranno di no: non emerge infatti da queste narrazioni una precisa metodologia d’intervento clinico-assistenziale basata su una specifica competenza comunicativa. Sono storie. Sono dei vissuti incorniciati in maniera talvolta imprecisa da un punto di vista clinico, talvolta impietosa, talvolta angosciante… Pensiamo ai vari passaggi: il paziente narra la propria storia, il medico l’ascolta e la recepisce a suo modo, poi la scrive in base a quello che ricorda o che lo ha colpito, poi viene letta e discussa. Il medico dopo la discussione e le varie annotazioni ed appunti, ritorna in ambulatorio e quando rivede quel paziente lo approccia dopo tutta questa rielaborazione. Questo processo servirà a qualcosa? Porterà dei vantaggi nella cura? Io credo proprio di si! Chiamiamola Medicina NarrativaMedicina delle Storie, o come volete… ma quando il medico rivedrà il paziente dopo tutto questo percorso non sarà più un paziente, ma sarà Sara, Giacomo, Marica, e anche il medico avrà in sé qualcosa di ognuno di questi, non solo! Avrà in sé  anche qualcosa di ogni collega con cui ha convissuto questa storia. E’ proprio attraverso questa co-costruzione  di cura a due e di gruppo che si avranno,  secondo me, i risultati migliori e, delle “specifiche competenze comunicative”, forse, ne potremo fare anche a meno.
Prima di concludere mi piace ancora una volta chiudere gli occhi e ascoltare i racconti di questo libro. Per gli orecchi di un medico di famiglia sono storie conosciute, storie proprie, casa propria, dove c’è comprensione e condivisione di quelle che sono le nostre emozioni quotidiane: ansia, frustrazione, dolore, rammarico, fastidio e, soprattutto, il dubbio e l’incertezza. Il sottotitolo “Voci dai confini del sapere” è quello che meglio definisce la nostra posizione e situazione e pochi come questo libro sono capaci di illustrarlo: “…sono le persone con problemi di salute irrisolti quelle che ci coinvolgono maggiormente. Ci chiamano ad essere interpreti di malanni complessi, stagnanti o aggressivi, in cui molto spesso non ci sono risposte… Molto spesso le risposte mediche, diagnostiche e terapeutiche , sono prerogative degli specialisti… Quando le prognosi sono oscure tocca a noi, medici di famiglia, guidare i malati, insieme a chi è loro vicino, nel difficile percorso di adattamento ad una vita peggiore”. Grandissima verità! Un grazie agli autori e a tutti i colleghi di cui ho potuto ascoltare ad occhi chiusi le storie dei loro e miei pazienti.

domenica 17 luglio 2016

I MEDICI ITALIANI SONO ALLO SBANDO? (parte seconda) Editoriale pubblicato sul Bollettino dell'Ordine dei Medici di Perugia n.2/2016

I MEDICI ITALIANI SONO ALLO SBANDO?   (seconda parte)

Sono diversi giorni che sto provando a buttare giù questo editoriale, ma ogni volta mi fermo dopo le prime due o tre righe e ricomincio daccapo...il motivo? Forse perché parto con il presupposto di dover fare il contradditorio alle affermazioni   di Ivan Cavicchi come avevo promesso nell'ultimo Bollettino, ma evidentemente non è quello che dentro di me sento di poter fare.
Ho letto e riletto diverse pagine della "Questione Medica" e molte altre considerazioni fatte dal Nostro in diverse circostanze e devo ammettere, come asserisce anche il collega Hanke nello scritto che seguirà, che purtroppo molte sue affermazioni corrispondono a verità.
Le cause che stanno determinando l'esistenza della " Questione Medica" sono molteplici: dal tirare in ballo Zygmunt Bauman con la sua definizione di "società liquida" o parlare della crisi valoriale che sta spazzando via tutte quelle certezze che nel bene e nel male avevano guidato sino ad ora  la nostra società occidentale. Invocare la crisi economica che sta facendo maturare sempre più in maniera forte il concetto di  sanità come spesa piuttosto che come diritto. Sottolineare i cambiamenti di paradigma che di fatto hanno messo in crisi i fondamenti della scienza  positivista che ancora invece anima la medicina. Un nuovo concetto di salute che considera il paziente non più come un ricevitore passivo di consigli e terapie, ma come un soggetto attivo dotato di autodeterminazione, capacità di scegliere e portato all' empowerment.
Difronte a questo scenario quale è stata la risposta nostra? Dispiace dirlo, ma si è risposto ignorando il problema e allora le conclusioni di Cavicchi sono forse giustamente impietose "......Nel momento in cui il ruolo storico è liquidato ma non ridefinito, cioè non è rimpiazzato con un altro ruolo deciso volontariamente dal medico, nasce la questione medica. Il saldo tra vecchio medico e nuovo medico non è a vantaggio del medico nel senso che ad un certo tipo di medico oggi corrisponde solo la sua negazione il non medico ma non la sua riaffermazione". Ecco pertanto le responsabilità storiche della nostra categoria, soprattutto di chi istituzionalmente doveva essere in grado di anticipare il cambiamento prevedendo la complessità dei contesti, i cambiamenti in atto ed invece ha fatto finta di nulla o minimizzato la portata dei problemi. Ecco perché i medici sono "immanentisti": pensano cioè solo al problema del giorno, vivono alla giornata. Ed ecco perché "....Oggi i medici si trovano male (molto male):
· perché quel peso sociale che avevano una volta non ce l’hanno più;
· perché il consociativismo con la politica al quale erano abituati non c’è più;
· perché è stata superata financo la concertazione, cioè essi sono stati esclusi dalle scelte e dalle decisioni;
· perché è in atto una trasformazione politico-istituzionale in ragione della quale il governo tende a diventare sempre più autorevole e centralista, e i medici nelle diverse istituzioni non solo non possono fare niente ma alla fine devono allinearsi;
· perché, come è stato già detto, le ragioni dell’economia ormai a proposito di
sovrastruttura non guardano in faccia più nessuno, medici compresi, cioè soprattutto con la crisi economica del paese, i giochi sono diventati altri".
Tutto perduto? Tutto andato? Forse no! Lo stesso Cavicchi individua la causa che potrà determinare lo sblocco: l'immobilismo e il malessere della categoria medica non va certo a vantaggio del cittadino, ma determina uno svantaggio sociale a tutti i cittadini. Condizione indispensabile, però, è che i medici non indirizzino le loro energie e rivendicazioni per invocare il ripristino del ruolo e della modalità dell'essere medico di una volta, riproporre cioè dei modelli oramai superati e sepolti. La carta vincente è quella di una svolta, di una ridefinizione della propria figura alla luce dei nuovi modelli relazionali, gestionali e alla fine ontologici. Ne saremo in grado? Spero, anzi credo di si dopo che ho vissuto in quel di Rimini la 3° Conferenza Nazionale sulla Professione Medica ed Odontoiatrica dal titolo:" Guardiamo al futuro: quale medico, quale paziente, quale medicina nel SSN?" dal 19 al 21 maggio u.s. organizzata dalla FNOMCeO. Io stesso ho tenuto un intervento dal titolo:" Costruzione complessa della relazione di cura in medicina di famiglia" nella sessione Relazione di Cura e Gestione della Complessità, il cui testo può essere consultato nel mio blog: www.tizianoscarponi.blogspot.it.
In estrema sintesi estrapolo alcune considerazioni dal documento finale della conferenza che delinea il medico come: " Un medico leader in una sanità complessa in cui il medico è chiamato a sfide future in un sistema di collaborazione con altre figure professionali, maturando caratteristiche diverse in particolare per fronteggiare le innovazioni tecnologiche che connoteranno il futuro assetto della medicina. Dovrà ricoprire il ruolo di garante e artefice della salute, gestendo la propria leadership in un sistema sempre più complesso e di fronte a una richiesta di salute e di risultati......  Il medico in Italia nei prossimi anni dovrà essere:
1) proattivo nell'affrontare l'innovazione, partendo dalle proprie radici.
2) detentore di competenze professionali che continuamente sviluppa e mantiene aggiornate;
3) detentore di un metodo scientifico e attento alla produzione di nuove conoscenze;
4) capace di ascoltare e comunicare con la persona nel bisogno;
5) capace di tener conto della dialettica tra risposta alla singola persona e quella alla comunità;
6) attento alla dimensione etica quotidiana della professione, partendo dall'adesione alle pratiche raccomandate e sostenute da evidenze scientifiche;
7) capace di esercitare una leaderschip professionale rispetto a colleghi, professionisti, pazienti e persone assistite;
8) cosciente del proprio ruolo sociale e politico: il fatto di poter intervenire sulla salute e sulla vita conferisce un potere di advocacy;
9) cosciente di essere un attore economico: determina e gestisce risorse economiche ingenti;
10) attento a perseguire il migliore continuo proprio e dell'organizzazione in cui è inserito, oltreché a dimostralo".
Sarà solo una declinazione di buoni intenti? La storia lo dirà.