mercoledì 19 giugno 2013

QUESTA VOLTA E' CAPITATO A ME. RACCONTO AUTOBIOGRAFICO


Non c’era verso di finire l’ambulatorio! Proprio questa sera che devo partire per Firenze dove domani dovrò fare da docente a un corso di aggiornamento per medici di famiglia.
Devo passare a casa a prendere il trolley che mia moglie, come al solito, avrà provvidenzialmente preparato di sua iniziativa. Un breve boccone per cena, un abbraccio ai figli maschi, un bacione all’ultima nata da pochi mesi, uno sguardo pieno di significato alla mia consorte  che come sempre mi raccomanda prudenza.
Gira e rigira è quasi mezzanotte e sto ancora guidando la mia auto lungo i “viali” di Firenze alla ricerca del residence che l’agenzia ha prenotato. Durante tutto il viaggio non ho fatto altro che sudare in maniera quasi innaturale, ma senz’altro sono i primi caldi dell’estate che sta per cominciare. Un dolorino dello stomaco, da riferire senza dubbio al rapido pasto consumato, ogni tanto si fa sentire, ma che sarà mai!
Eccomi finalmente in camera. Ripasso la mia relazione, accendo la cinquantesima sigaretta della giornata quasi automaticamente, forse nemmeno mi andava, anzi a ben pensare quasi mi disgusta il sapore che mi lascia in bocca ma tant’è, oramai l’ho accesa e la fumo tutta.  M’infilo dentro il letto, spengo la luce, abbraccio il cuscino con tutte due le mie braccia e comincio a rilassare tutti i muscoli e i neuroni per addormentarmi……il volto di mia moglie, il volto di mia figlia, la scrivania del mio studio, una diapositiva della relazione…. il mio volto sfuocato….
All’improvviso una scarica elettrica fa trasalire il mio petto, le gambe e le braccia non riescono a stare ferme, che diamine sta succedendo? Provo a mettermi seduto per alzarmi, ma non ce la faccio….una debolezza, mai provata prima, mi fa quasi ricadere all’indietro sul letto. Un sudore immane mi bagna tutto. Mio Dio questa volta ci siamo proprio! Non sento più le braccia, è come se qualcuno me le avesse amputate con un’accetta…. Con difficoltà riesco a trovare il telefono sul comodino per mettermi in contatto con il portiere di notte per dirgli di chiamare il 118. Dopo qualche minuto il mio stato catatonico viene interrotto dallo squillo del telefono, è  la portineria che mi dice che la centrale operativa del 118  mi vuol parlare:” Come mai vuole il nostro intervento?”
 “ Perché mi sto sentendo veramente male! Penso che sia il cuore… ho dolore precordiale, sono tutto sudato  e mi pare di svenire”.
“Presenta qualche fattore di rischio?”.
“ Tutti! Sono in sovrappeso, stressato, ho familiarità per cardiopatia ischemica e fumo come un assassino……”.  
  “ Male !“.
 “Scusate, non voglio pretendere nulla poiché sono un medico, ma se quasi alle 2 del mattino, sto al telefono, è perché mi sento veramente morire!”.
“… Non si preoccupi dottore. Veniamo subito”.
 Devo provare ad arrivare alla porta della camera per poterla aprire, ma che fatica! La testa mi gira, devo concentrarmi a fondo su me stesso, sul mio schema corporeo, ma alla fine ci riesco e mi metto anche seduto sulla poltrona, a questo punto preferisco evitare di assopirmi, casomai non dovessi risvegliarmi! Quando il 118 arriva, mi sto sentendo meglio, ho smesso di sudare e quell’astenia profonda è diminuita. E’ rimasto un dolore epigastrico che però non mi fa stare tranquillo. L’elettrocardiogramma che riesco a sbirciare, mostra la  tipica onda di lesione del tratto ST non  capisco in quale derivazione e in men che non si dica mi ritrovo incartato dentro un telo, sollevato e caricato in autoambulanza.” La portiamo all’ospedale! In mani sicure!” Mi dicono per rassicurarmi, e non mi viene detto altro. D’altronde non ho per niente voglia di parlare anche se sento dentro di me montare l’ansia, l’angoscia e la preoccupazione. Avrò un infarto? Penso di si, altrimenti che mi portano a fare in ospedale. Ma in questo momento il dolore si è attenuato, non sudo più e l’astenia è quasi scomparsa, quasi quasi dico di riportarmi in albergo. Forse però sarà meglio fare gli enzimi e qualche altro accertamento. Mentre sono assorto in questa concertazione con me stesso, mi ritrovo in barella spinto lungo un corridoio interminabile, dove alla fine trovo un altro collega che evidentemente mi fa la cartella: mi interroga sulle patologie pregresse, stili di vita ed alla fine mi chiede il numero di telefono di casa per ogni evenienza…..! E già, potrei all’improvviso perdere conoscenza, potrei morire, d’altronde basta un’extrasistole fatta bene per innescare una fibrillazione ventricolare letale, come potrebbero avvisare la mia famiglia senza numero di telefono….. la mia famiglia! La rivedrò? Mio Dio che sto dicendo?
 “ Allora collega, se non mi fai perdere tempo con tutte le boiate del consenso informato e della privacy, andiamo subito in emodinamica e ti stappo la coronaria chiusa” mi sento dire da un gigante alle mie spalle che riesco ad intravedere da sdraiato ruotando il più possibile gli occhi all’indietro.
 “Andiamo” rispondo e vengo portato in una sala che sembra una centrale di comando militare, come si vedono nei film: luci e lucette che lampeggiano, fili di tutti i colori e di tutti i diametri. Vengo adagiato, dopo essere stato tutto denudato, su un lettino gelido da intervento chirurgico, altri elettrodi ed arnesi mi vengono applicati al torace, una donna dai capelli rossi con la mascherina al viso mi mette un altro ago in vena dicendomi:” Ma doveva ammalarsi proprio questa notte per  farmi tirare giù dal letto alle 2 del mattino?”
“Allora collega, adesso cominciamo, ti faccio un taglietto sulla femorale per mandarti su il catetere”  mi dice il  gigante che nel frattempo si è messo la mascherina e la cuffia da sala operatoria. A questo punto vengo percorso da un brivido dai piedi ai capelli, l’ansia e l’ angoscia stanno montando in maniera insopportabile:” Basta” dico ” sarà quello che il Padre Eterno vuole” e stacco la spina. Tutto il mio cervello, tutta la mia mente è obbligata a cambiare immagini: il lettino con le sue lucette infernali scompare, il collega e l’infermiera con le mascherine spariscono, tutto l’ospedale svanisce: mi ritrovo sotto un sole accecante a rotolare sulla sabbia con mia moglie e i miei tre figli, giochiamo, ridiamo felici tutto il resto non esiste. C’è un mare azzurro, sento le onde, sento il calore…”Abbiamo fatto, collega, tutto a posto, sei tornato come nuovo” mi sento dire dal gigante mentre vengo trasportato via dalla sala di emodinamica e precipito ancora una volta nella  cruda realtà. Due belle ragazze in divisa da infermiera, spingono la mia barella sino all’Unità Coronarica, durante il tragitto mi sorridono in maniera dolce e cercano di rassicurarmi:” Oramai il peggio è passato, i nostri idraulici stappano bene qualsiasi  tubo, adesso cerchi di dormire. Vuole che telefoniamo  a casa? ” Telefonare ora a casa? Non è proprio il caso. Penso proprio che telefonerò domani mattina personalmente, chissà come reagirebbe Isabella sentendosi telefonare a quest’ora antelucana da un’estranea! Mentre mi parlano collegano gli elettrodi, che oramai sono diventati parte integrante del mio corpo, al monitor del mio letto e se ne vanno.
Finalmente il silenzio….il buio interrotto dal tracciato dell’elettrocardiogramma che scorre sui cristalli liquidi del display. Alla mia destra una tenda tirata a mo’ di sipario mi divide da un altro paziente che sento respirare in modo pesante. Allora vediamo un po’, domani non potrò tenere il mio intervento al corso perché sto qui……sto qui? Ma perché? Ma che mi è successo? Allora  è proprio tutto vero ? Ho avuto davvero un infarto e mi hanno fatto un’angioplastica….Mio Dio! E ora che succederà? Sono diventato un invalido ? Quando si spargerà la voce nella mia città sarà un corri corri generale a cambiare medico......sono finito! Senza rendermene conto sto piangendo, anzi singhiozzando. Cerco in ogni modo di farlo il più piano possibile, ma è più forte di me e probabilmente mi stanno sentendo anche le infermiere, dovrei vergognarmene, ma non me ne importa proprio niente.
" Non te la prendere, vedrai che si aggiusta tutto" mi sento dire da dietro la tenda con un accento tipicamente toscano. " Io è la terza volta che vengo qui....poi vedrai che quasi te ne scordi". Sarà! Penso fra me e me, ma per il momento è come se mi stesse crollando il mondo addosso, mi sento strano, irreale e sfinito.....Mi ritornano le immagini di mia moglie e i miei figli, ma perché non riesco a pregare? Ci sto provando, ci devo riuscire! Tra i volti dei miei cari e le parole pensate di una preghiera arriva finalmente il sonno.
E’ un sonno strano con sogni caotici, prendono forma per un attimo, ma poi si dissolvono, cambiano senza mantenere una traccia, senza una logica per sparire del tutto appena comincia a filtrare la luce del giorno.
E’ l’alba di un nuovo giorno. Questo potrebbe essere il titolo di qualche film o libro, non ricordo bene, che parla dell’inizio di una giornata ricca e radiosa, ma non è più certo il caso mio. Mi sento come Cristo in croce.
Ho un introduttore sull’arteria femorale destra, ho un cateterino venoso nel braccio sinistro dove sono collegati due bocce di fisiologica con medicamenti e non posso pertanto muovermi più di tanto: le spalle sembrano non far più parte del mio schema corporeo, la colonna lombare è dolente in maniera sorda e continua, ma quello che sta più male è il mio morale. Mi sento a terra, stordito, avvilito, ho paura di morire, ma non tanto per me! Quello che mi assilla è il pensiero di mia moglie e dei miei figli…… che faranno senza di me? Come potranno andare avanti poiché lavoro solo io? Chi si prenderà cura di loro? Per fortuna sono iscritto da sempre all’ONAOSI e ho un’assicurazione sulla vita, è senz’altro qualcosa, meglio di niente!
“Buongiorno, le chiedo scusa, ma devo farle un’ecocardiografia” dice un giovane medico spingendo il carrello con l’ecografo. Rispondo positivamente con lo sguardo, viene tirata la tenda scura alla finestra per fare un po’ di buio per vedere meglio le immagini ed il mio torace viene spalmato con quel gel dove poi viene appoggiata la sonda. Il collega borbotta tra sé e sé, non mi degna di uno sguardo mentre guarda il mio cuore e alla mia domanda se poi vada tanto male mi risponde in maniera evasiva con un giro di parole la cui sintesi è che poteva andare peggio, e va via. A questo punto credo sia giunto il momento di telefonare a casa…..mamma mia……come faccio? Mi faccio coraggio e con il mio cellulare chiamo:” Ciao Isa ti devo dire una cosa……sono ricoverato in ospedale a Firenze perché ho avuto un problema al cuore…no, non sto scherzando è la verità….” e mi metto a piangere “ Comunque stai tranquilla, il peggio è passato, ma mi faresti veramente contento se venissi…….organizzati come puoi.. credo che potrai alloggiare nell’albergo dove tra l’altro ho lasciato l’automobile e la valigia….avvisa anche le mie sorelle che telefonassero ai miei vecchi”. Mia madre…. Fino ad ora non mi era venuta in mente e al suo pensiero piango ancora più forte.
“Tiziano! Per favore non fare così altrimenti non riesco a combinare nulla….. Cercherò di fare il mio meglio, cerca di stare tranquillo, però, ti raggiungerò il più presto possibile, non ti preoccupare..” ma mentre mi parlava sentivo che stava a stento trattenendo le lacrime.
 Adesso devo pensare ad informare la mia società scientifica che non posso tenere il mio intervento, devo pensare a trovare un sostituto devo…… ma basta non ho voglia di fare proprio un bel niente. “Eccolo il nostro collega ” entra dicendo così un medico di qualche anno più vecchio di me  accompagnato dal giovane cardiologo che poco prima mi aveva fatto l’eco cuore. Insieme a loro ci sono due infermiere che  spingono  il carrello con le cartelle ed altro. “ Dunque, fai il medico mutualista vero? Allora ti spiego quello che abbiamo fatto…..” Comincia così a farmi una lezione di fisiopatologia coronarica, di cardiologia interventistica come se a me importasse qualcosa di quelle informazioni. Probabilmente dovrei dare la sensazione di essere interessato, perché seguita a parlare imperterrito, parla di trombi e di cateteri senza minimante preoccuparsi delle mie emozioni e del mio stato d’animo. Seguita a parlare, a parlare, ma oramai non lo sento più. Non si rende  conto che oramai è come se per me non esistesse. Anzi, a dire il vero, è come si mi fossi staccato dal mio corpo e riuscissi a vedermi e a  vederlo dall’alto, come in un fumetto in cui il malato sulla propria nuvoletta ha tanti “punti interrogativi”  ed il dottore tanti “bla,bla, bla”.
Soddisfatto, mia stringe la mano e passa all’altro letto mentre le infermiere mi sorridono dolcemente e lo seguono spingendo il carrello. E pensare che avrei voluto chiedergli tante cose: se ce la potevo fare, che ne sarebbe stato del mio lavoro, della mia famiglia…….ma possibile nessuno si rende conto che in questo momento non sono più un medico, ma semplicemente un essere umano con le proprie ansie ed angosce, con delle richieste normali…che me ne importa sapere dove hanno messo  e che tipo di “stent” mi hanno messo?
Io voglio sapere se mi sarà più possibile correre per la città a fare le visite domiciliari, se potrò più affrontare la fatica e lo stress delle mie sedute ambulatoriali, se potrò più inquietarmi con i miei figli quando non danno retta, se potrò più amare mia moglie…..Ah! Eccola.
“Allora?...Che è successo?”  Mi dice tanto per dire qualcosa in maniera apparentemente decisa, ma non è la solita Isabella. Trucco quasi inesistente, occhiali da sole per nascondere gli occhi che dovrebbero aver pianto per gran parte del tempo, le sue mani  stringono in maniera esageratamente forte  la mia mano del braccio libero da aghi e deflussori.
 “ Ciao Isa “ ma non riesco a dire altro in quanto le mie parole vengono strozzate dai singhiozzi di un pianto che oggi definisco “liberatorio”.
 “ Se fai così…..vado via! Ho parlato con un medico di qui che mi ha rassicurato, ha detto che ti ha informato su tutto e che, anche se è ancora presto per poterlo dire, è andato però tutto bene, ha parlato di danno minimo senza tante conseguenze, sono cose d’altronde  che dovresti conoscere benissimo!”
 E già! Dovrei tutto conoscere benissimo, si dice presto, ma questa volta è capitato a me e non sono abituato a stare dall’altra parte, poi se permetti perché non ho il diritto di lagnarmi, di piangere, di voler essere rassicurato e anche coccolato? Perché per me deve essere tutto scontato e superfluo? Mentre mi sta raccontando come si è organizzata con la casa ed i figli, come i miei colleghi amici stanno provvedendo a trovarmi un sostituto smetto di ascoltarla per osservarla, mi sembra ancora più bella del solito, nonostante tutto! Mi vengono in mente tante idee: mi vorrà più? Mi accetterà ora che sono cardiopatico e malato? Chissà?
 “ Ma mi ascolti?” esclama rendendosi conto che con la testa sono da un’altra parte” Ma non t’importa di sapere come sto sistemando tutto?” E si mette a piangere sommessamente.” Ti prego, Tiziano, reagisci che da sola, senza di te, non ce la faccio a fare niente! Fammi un cenno, dimmi qualcosa!” Mentre dice queste parole, mi sto rendendo conto che qualche parte di me  quasi è contenta di farla soffrire un po’, come se fosse possibile trasferire il proprio carico di angoscia su di lei. Ma che sto pensando?  Devo proprio essere impazzito per comportarmi in modo così cattivo ed egoista…
” Scusa Isa, è un momento, vedrai che passerà tutto!” dico a parole, mentre da dentro penso che oramai sia tutto finito.
 Le ore passano fra un prelievo di sangue, il cambio di una flebo, l’infermiera che spinge il carrello delle terapie, i bisbigli e le parole che provengono dal mio compagno di sventura che si trova dietro la tenda che ci separa. La mia permanenza  nel letto dell’Unità Coronarica trascorre così, con i ritmi cadenzati dai turni del personale infermieristico che si avvicenda, la distribuzione del vitto…..piuttosto quanto tempo è che non tocco cibo? Oramai sono due giorni, è come se non ricordassi più di avere fame, per me che sono sempre stato una buona forchetta sembra quasi impossibile.
“ Ecco per lei un bello yogurt magro, se lo desidera ne appoggio uno sul suo comodino.” Mi dice l’infermiera, la stessa che faceva la notte quando mi ero ricoverato.
“Lo prendo, però lo mangerò quando arriverà qualcuno per imboccarmi” .
“ Se lo scordi, lei non ha bisogno di essere imboccato, è in grado di farlo da solo, non creda che non la osservi…. È ora che la smetta di piangersi addosso e di autocommiserarsi. Va bene, ha avuto un infarto, come la maggior parte di quelli che passano in questo reparto, ma è tempo che asciughi le lacrime, rimbocchi le maniche e cominci a riprendere contatto con la realtà, caro mio dottorino! Alzi il culo, si giri sul fianco sinistro, allunghi il braccio libero e cominci a mangiare questo benedetto yogurt “Mi sorride e se ne va.
Mamma mia, e chi sarà mai questa che si permette di trattarmi così, ma non si rende conto che sto male? Che non ce la faccio più a fare niente! L’unica persona al mondo in grado di capirmi sarebbe senz’altro mia madre,…mia madre, ma perché mi viene in mente tanto poco, adesso la chiamo. Prendo il cellulare dal cassetto, lo accendo e faccio il numero della mia casa paterna, dopo solo due o tre squilli sento: ”Pronto?” E riconosco la sua voce inconfondibile .” Ciao, mamma, non ti preoccupare perché ora sto bene, non posso parlare a lungo, ricordati che ti voglio tanto bene…..” e comincio a singhiozzare.
 “Anch’io te ne voglio, ti aspetto presto a casa  e piangendo riattacca.
E sì. Sono proprio messo male. Le spalle e la schiena mi fanno impazzire, l’arto inferiore dx, quello con l’introduttore sulla femorale è talmente intorpidito che sembra una protesi. Provo a contrarre in maniera ritmica i muscoli dei glutei per cercare di far respirare il sacro e provare un temporaneo senso di sollievo, ma la crisi maggiore è quando devo usare “ il pappagallo e la padella”. Sono convinto che non esista al mondo umiliazione peggiore.
“Coraggio dottorino, i suoi colleghi ci hanno incaricato di liberarlo! Lo trasferiamo dalla terapia intensiva alla corsia normale perché tutto sta filando per il verso giusto”. Per fortuna ci sono le infermiere che ti sorridono, che t’incoraggiano, ti sollevano il morale perché i colleghi! Li ho sempre visti molto sfuggenti, saranno bravissimi tecnicamente parlando ma quanto ad empatia e solidarietà conviene stendere un velo pietoso.  La maggior parte di loro quando ti parla evita di guardarti negli occhi, cerca di limitare il contatto al minimo indispensabile, forse sono inconsciamente turbati dal trovare un loro collega quasi coetaneo  malato, steso sul letto. Sempre forse, da qualche parte sfuggono all’angoscia derivante da una loro probabile immedesimazione nella mia condizione e per questo se non scappano, si nascondono dietro ad un mero ruolo tecnico: ogni visita termina con una lezione di cardiologia…. Chissà? Finalmente mi posso muovere rigirarmi su me stesso, riassaporo il gusto di poter cambiare posizione e postura se pure da sdraiato.  Via l’introduttore femorale, via i deflussori delle flebo, mi ritrovo in una camera con altri due pazienti che discutono di calcio, l’atmosfera è decisamente cambiata. Finalmente posso rialzarmi, infilare le pantofole e tornare al bagno in maniera umana, ma l’entusiasmo sparisce subito. Come provo infatti a tirarmi su, la testa comincia a girare, un’astenia profonda come quella provata la notte dell’infarto mi assale e non ce la faccio a mettermi in piedi. Mio Dio sono proprio finito, non c’è proprio niente da fare. “ Oh! Senza furia” mi dice un infermiere con spiccato accento toscano
” ‘osa pretende dopo esser stato steso per quattro giorni….. faccia adagio adagio!”
Seguo il suo consiglio. Dapprima seduto con il dorso appoggiato al muro, quando la testa smette di girare metto i piedi in terra, ma ricomincia il vortice. Resisto. Quando cessa, mi tiro su appoggiandomi con le mani sulla parete ed aspetto. Dopo qualche minuto, sentendomi stabile comincio a muovere i primi  timidi passi verso la porta della camera, sempre appoggiandomi alla parete. Che fatica, le gambe mi tremano, la testa non gira più ma sembra evanescente. Riesco comunque a uscire dalla stanza e a strisciare come uno zombi lungo il corridoio del reparto.
“ Forza dottorino, vede che cominciamo a ripartire, mi raccomando sia deciso e se cerca il bagno lo trova in fondo a sinistra” mi dice la solita infermiera che mi aveva
“ strapazzato” quando volevo essere imboccato. Si fa presto a dire di essere decisi quando si sta bene, ma quando si sta male  come me è tutta un’altra musica. Adesso poi mi tocca attraversare il corridoio senza che mi possa appoggiare alla parete, e se cado? Via lasciamo perdere e comincio a tornare indietro. Ma devo allora usare ancora il pappagallo! A no! Preferisco piuttosto rischiare di cadere, ma che strazio! Con questo mio contraddittorio mentale arrivo alla porta del gabinetto da dove sta uscendo un paziente attempato che traffica in maniera quasi furtiva sulle tasche della vestaglia che indossa. Attraverso l’antibagno e già comincio a sentire un odore che mi è familiare. Entro dentro il bagno e l’odore del fumo di sigaretta appena fumata è fortissimo, neanche la finestra lasciata completamente spalancata riesce a smaltirlo, come se evidentemente si fossero avvicendati diversi fumatori. Mi sembra di essere tornato ai tempi del liceo, quando la pausa fumo dentro i gabinetti per non farsi vedere dai professori era regola quotidiana. Ma guarda un po’! Mi ero completamente dimenticato delle sigarette, adesso quasi mi sta tornando la voglia, in quale camera starà il paziente che mi ha preceduto per farmene dare una? Ma che sto pensando? Mi gira la testa per camminare figuriamoci se riprendo anche a fumare…..Dio che fatica a stare in piedi, non vedo l’ora di tornarmene in camera. Mentre “rincaso” lentamente, strisciando lungo la parete del corridoio, incrocio un collega che mi saluta con un rapido buongiorno e fugge via. Arrivo a letto che sono completamente esausto, è veramente impossibile tornare come ero prima e mentre penso questo mi giro verso la parete voltando le spalle ai miei due compagni perché non voglio farmi vedere che sto piangendo. Non c’è niente da fare sono proprio diventato un invalido, un peso per la società e per la mia famiglia. Sonnecchio un po’ e mi alzo nuovamente facendo finta di sbadigliare per evitare di ricominciare a piangere. Le gambe tremano, ma la testa non gira più come prima. Vado alla finestra della camera. Siamo all’ultimo piano, quasi a sotto tetto. La primavera non è ancora finita sul calendario, ma di fatto è già estate. Un sole abbagliante picchia e riscalda tutto quanto. All’orizzonte le sagome sfumate di montagne che non riesco a censire: Alpi Apuane? Appennino? Non mi rendo conto in che direzione sono orientato. Qua e là s’intuiscono agglomerati urbani avvolti da una sottile cappa grigia: probabilmente per l’inquinamento. Più vicina la pianura anch’essa sotto la cappa grigia. Chissà quanta gente in questo momento sta correndo in questo pezzo di mondo, si sta affannando per qualcosa che nemmeno saprebbe definire e poi, con quale scopo? Ne vale la pena? Corri, ti agiti, cerchi di costruirti uno spazio e poi? Arriva una mazzata com’è arrivata a me e finisce tutto…..Mi stanno per tornare le lacrime. Non me la sento proprio di seguitare a lottare, sono stanco, malato, con le gambe che quasi non mi reggono. Come sono disgraziato….quasi quasi….  volo giù, sono veramente in alto, più in alto delle chiome dei pini marittimi che fanno ombra al piazzale di sotto. Il parapetto della finestra è veramente basso, non mi arriva all’ombelico e se mi appoggio e mi sbilancio in avanti precipito senza neanche sforzarmi più di tanto. E’ un attimo e mi tolgo il pensiero…chi  ha voglia di ricominciare? Basta! Ma chi è che si è alzato in piedi dalla panchina giù in basso sul piazzale?  I rami degli alberi che si interpongono fra noi impediscono di vedere bene. Sta sorridendo e sta sbracciando verso di me e sta chiamando qualcuno poco distante. Ma è mio figlio Emanuele, il più grande dei tre e subito arriva anche mia moglie che agita la mano per salutarmi, sorride e si guardano e sorridono. Perché tanta felicità? Ma certo, mi vedono in piedi, alla finestra pensano che sono guarito……Mi vengono le lacrime, senza singhiozzi però, ma che stavo pensando? E  loro? In pochi attimi rivedo tutta la mia vita. Rivedo anche l’altro figlio e l’altra figlia…… non posso certo arrendermi. Devo andare avanti e mi rendo conto che sto piangendo di nuovo, ma di gioia.
Sono passati 13 anni da allora, ma mi ricordo tutto come se fosse accaduto ieri. Lo confesso, non ho idea di come sarebbe andata a finire se quella mattina non avessi incrociato  con gli occhi i miei cari. Probabilmente non sarei comunque volato giù, ma la tentazione è stata forte.
In questi 13 anni ho fatto e ho ricevuto tanto, non mi piace fare l’elenco delle soddisfazioni professionali ed esistenziali che ho avuto, ma quello che mi preme sottolineare è il fatto come da un’esperienza drammatica e negativa come quella di una malattia  si possa trarre un bilancio molto positivo. Ancora mi commuovo al ricordo di come piangevano i miei pazienti nel sentire la mia voce quando ho ripreso a rispondere al telefono, le lettere e i biglietti di auguri e di solidarietà che ho avuto da loro, da amici e colleghi. Quanta gente mi è stata vicina e quanta gioia e quanto calore mi hanno dato. Quanto ho imparato! Quanto è cambiato il mio modo di valutare e giudicare la vita, ma  soprattutto ho imparato quello che a voce tutti dicono, ma che nessuno capisce fino a quando non ci batti il muso di persona: le battaglie più dure da combattere non sono contro gli altri, ma con se stessi.

AL MIO VERO MAESTRO: GIULIO DEL SINDACO (1928-2008) Pubblicato sul Bollettino dell'Ordine dei Medici della Provincia di Perugia N. 6/2011


Caro Giulietto,
penso che sia capitato anche a te , magari dopo aver trascorso una giornata di lavoro in maniera frenetica, di rincasare e trovare la casa vuota. I figli chissà dove, la consorte dalla sorella, te lo aveva detto ma lo avevi  dimenticato, cena fredda sul tavolo con il bigliettino accanto con le sue raccomandazioni di rito.  Mangi in maniera quasi automatica e per non rovinare il silenzio inusuale, una volta tanto eviti di accendere il televisore che oramai fa da sottofondo alle nostre scene domestiche. Ti siedi in poltrona con l’obiettivo di rilassarti, ma ecco che nella mente cominciano a formalizzarsi delle immagini che impediscono il rilassamento, di solito sono fatti accaduti durante il giorno che sta volgendo al termine, altre volte sono episodi lontani, volti conosciuti, anche familiari un tempo, ma che oramai fanno parte della nostra storia.
Chissà perché, ieri sera, mi sei tornato in mente tu. Come in un film che guarda a ritroso, mi sono rivisto giovane, appena laureato dentro il tuo ambulatorio che mi davi le istruzioni , come veramente è accaduto, per la “sostituzione” che avrei dovuto farti lì a pochi giorni.
“ Vedi Tiziano, la medicina di famiglia è molto diversa da quella ospedaliera, qui non abbiamo a che fare con le malattie, ma con persone che possono anche essere  malate”.
Allora mi sfuggiva il vero significato di questa affermazione, ma senza che me ne rendessi conto mi avevi trasmesso l’essenza della medicina generale: non numeri di letto, non casi clinici, non malati anonimi, ma persone vere con la propria vita, il proprio volto e la nostra storia in comune. Mi ricordo  come nel congedarmi, mi dicesti anche :”Ecco la burocrazia “ e mi affibbiasti un pesante pacco con i ricettari, uno per Cassa Mutua come si faceva allora; un ricettario per l’INAM, uno per l’ENPAS………mia avevi già trasmesso anche l’altra faccia della Medicina Generale: il fardello burocratico.
Questo episodio che ieri sera si è riaffacciato alla memoria ha evocato  immagini e ricordi a cascata: il tuo aspetto all’apparenza burbero, la tua camminata lievemente zoppicante, i tuoi occhi che da dietro le immancabili lenti non capivi mai se ti rimproveravano o ti prendevano in giro. Quante volte dopo cena ,alla fine della mia giornata, mentre mi recavo al bar Mokambo di via dei Filosofi per incontrare gli amici, ti vedevo uscire da casa con la borsa da medico che andavi per le ultime visite domiciliari. Quante volte, uscendo dal tuo studio dove avevo appena ultimato la mia seduta ambulatoriale contavo oltre venti clienti che stavano impassibili, senza segni di insofferenza ad aspettarti, mentre avrebbero potuto tranquillamente venire da me senza code ed attese. Non nascondo che questa “fede” nei tuoi confronti da qualche parte mi disturbava, mi dava fastidio, ma ero troppo giovane per capire ed i giovani si sa, sono sempre impazienti, hanno sempre fretta di arrivare.
“ La fiducia della gente si guadagna lentamente, giorno dopo giorno” mi ripetevi” Stai tranquillo che per come ti vedo, non ti manca niente per fare la tua carriera, soprattutto se imparerai a metterti nei panni di chi ti sta davanti”. “ Ricordati che con il tempo i pazienti ti racconteranno tutto di loro, ti sbatteranno in faccia le loro situazioni talora paradossali, incomprensibili da capire usando i tuoi parametri mentali di persona razionale e normale. Non ti permettere mai di giudicarli, non dare risposte in quanto non ne vogliono….”.
Queste affermazioni che oggi  definisco empatia, terapia centrata sul cliente di tipo Rogersiano  a te venivano naturali, erano modalità operative innate e spontanee.
Quando ci incontravamo, spesso, ti facevo il resoconto delle visite effettuate: i miei sospetti diagnostici, le mie terapie e tu, con quell’ironia di cui eri capace, commentavi sempre in maniera quasi goliardica in modo tale che anche le rare disapprovazioni erano risolte in maniera bonaria e senza colpevolizzare.
Era logica che la differenza di età, la diversa esperienza formativa ogni tanto facesse capolino, pertanto qualche diversità operativa emergeva: un maggiore ricorso alla tecnologia diagnostica da parte mia, diversa opinione sulla terapia farmacologica, una mia maggiore richiesta di consulenza specialistica, ma mai queste diverse valutazioni hanno costituito occasione per diverbi o contrapposizioni. A differenza, infatti, di molte altre “associazioni fra medico ultra massimalista e medico giovane per il rientro nei massimali “ non si è consumata nessuna grave difficoltà di rapporto; ognuno nella propria specificità e perché no, anche ognuno curando i propri legittimi interessi, la nostra associazione è andata avanti nel rispetto e nella comprensione reciproca e quando è arrivato il momento in cui le nostre strade si sono separate, tutto è avvenuto senza particolari traumi o disappunto.
Mi ricordo anche le occasioni in cui ci si vedeva al di fuori del lavoro. Sapessi, quanto mi rendeva orgoglioso l’essere ammesso nel “tuo salotto” a chiacchierare alla pari con i tuoi amici: il professor Angeli, primario ginecologo d’Assisi, il dottor Migni, responsabile del laboratorio analisi di Foligno, il dottor Radicchia, psichiatra dell’SPDC ed altri. Mi sovvengono le tue battute, il tuo modo ironico e scanzonato di affrontare gli argomenti, anche quelli con contenuto serio e drammatico e soprattutto la tua calma. “ Che ci posso fare se sono innamorato del mio lavoro?” Mi dicevi quando ti chiedevo se non avevi le tasche piene di correre per la città dietro alle malattie della gente. “Se trovi la voglia ed il tempo di ascoltarli, i pazienti la diagnosi te la servono sul piatto d’argento, la visita e l’esame obiettivo il più delle volte servono per una conferma dell’idea che ti sei fatto” . Sono queste  le parole che mi sono rimaste dentro e che mi hanno accompagnato e mi accompagnano nella mia attività e mi vergogno di me stesso perché sino ad ora non ho mai trovato l’occasione per ringraziarti di tutto dal profondo. Forse per distrazione? Forse per una mia inconscia supponenza? Forse perché da perugino verace sono un po’ orso e poco abituato ai convenevoli? Non lo so. Provo a rimediare ora: grazie Giulietto.

AL NOSTRO DOMENICO TAZZA. Pubblicato sul Bollettino dell'Ordine dei Medici della provincia di Perugia N.3-4/2011


Non è certo facile trovare il giusto equilibrio per ricordare la figura di Domenico.
Le sue doti, il suo valore, il suo livello professionale e di umanità  erano tali che ogni descrizione, ogni valutazione corre il rischio di essere approssimativa e di far torto a quello che Lui veramente era. Non spetta a me, certo, parlare di Domenico come medico del pronto soccorso… Sicuramente i colleghi che condividevano lo stesso ruolo e lavoravano a fianco a fianco con Lui potranno essere molto più esaurienti, comunque, le testimonianze su quello che faceva sono moltissime e tutte quante concordano nel descriverlo come un medico abilissimo dal punto di vista clinico e che “ ci metteva tutta” l’anima e l’umana disponibilità nel prendersi cura dei pazienti. Sempre preciso e sempre al corrente di tutto. Nessuna legge o leggina che riguardasse l’attività sanitaria gli sfuggiva, per non parlare poi della competenza informatica!
Credo di non essere smentito da nessuno nell’affermare che l’informatizzazione dell’attività del pronto soccorso del policlinico di Perugia sia in gran parte merito suo.
A me piace commemorarlo, però, ricordando un episodio della nostra storia professionale avvenuto nella prima metà degli anni ottanta, non ricordo l’anno preciso. A quei tempi l’assistenza domiciliare integrata, la terapia palliativa erano dei concetti di là da venire ed ogni medico di famiglia si ingegnava e si organizzava come meglio credeva. I pazienti in fase terminale erano gestiti il più delle volte in proprio, con l’aiuto di infermieri “privati” che seguivano le nostre istruzioni. I ricoveri in ospedale venivano attivati, come ancora oggi può succedere, per “far riprendere fiato” alla famiglia del malato ed anche a noi stessi. Il presidio terapeutico che andava per la maggiore era l’infusione di liquidi per fleboclisi che era praticata in maniera molto disinvolta, con un’evidente funzione più antropologica che medica e capitava spesso di arrivare al capezzale del morente insieme al sacerdote: io somministravo il mio viatico e lui il suo. Per farla breve. I familiari di quella paziente non volevano assolutamente ricoverarla in ospedale, ma insistevano nel fatto di dover far comunque
“ qualcosa” anche se io replicavo che oramai non era più possibile nemmeno reperire una vena  e che anche l’infermiere più esperto aveva negato il proprio intervento. Mi scappò detto che per infondere ancora liquidi si doveva scoprire una vena con il bisturi, ma occorreva un chirurgo e andava eseguito in ospedale. Non l’avessi mai fatto, fui aggredito dall’insistenza e dalle suppliche della famiglia e, vuoi per la mia incapacità di allora a dire di no o perché sotto sotto covava un mio narcisismo inconscio, ecco che telefonai a quel “ gigante biondo” che mi aveva fatto conoscere da poco un amico comune e che si era detto disponibile per prestazioni di piccola chirurgia. Ci trovammo insieme a casa della paziente, dopo essersi lavati come fanno i chirurghi ed avere indossato guanti e camici sterili, con tanto di mascherina e cuffia, la vena venne abilmente preparata ed incannulata da catetere così da poter infondere a volontà.
Mentre dismettevamo gli abiti da” sala operatoria” ci venne chiesto l’importo dell’onorario e lui rispose: “L’ho fatto solo per fare un favore ad un collega amico” e si congedò. Non nascondo che mentre salivamo in automobile gli manifestai tutto il mio disappunto: avevamo impiegato quasi un pomeriggio, avevamo anche speso soldi per l’acquisto del catetere, del materiale da medicazione e poi eravamo dei professionisti……..La sua risposta fu senza parole, solo un sorriso con quello sguardo che può capire solo chi lo ha conosciuto e non ho parlato più.
Ogni persona ritorna in mente con l’immagine di quello che lo ha caratterizzato  e quando penso a Domenico mi si formalizza sempre la stessa immagine: due occhi azzurri dallo sguardo triste. Caro Mimmo come facevi ad essere così pacato e così discreto? Ti ho visto sempre disponibile e pronto verso i pazienti, verso i colleghi, sempre equilibrato e misurato anche nei momenti conviviali, quando molti di noi, me compreso, perdevano i freni inibitori. Mai una volta ti ho visto inquieto, anche quando, all’Ordine dei Medici di cui rivestivi la carica di presidente del collegio dei revisori dei conti, in occasioni di confronto sulla politica professionale si evidenziavano divergenze e disparità di opinione difficili da superare.
All’ultima riunione del Consiglio dell’Ordine dei Medici, il posto alla mia sinistra che di solito tu occupavi, all’inizio della seduta era rimasto vuoto in maniera quasi imbarazzante. Nessuno aveva il coraggio di occuparlo come se tutti avessimo saputo che sarebbe stato impossibile sostituirti ed all’unanimità e con gli occhi lucidi si è deciso d’ora in avanti di dedicare alla tua memoria il premio per la migliore tesi di laurea dell’anno.
Sguardo triste disarmante, ecco come mi sei venuto subito in mente, quando sono stato informato del tuo incidente e della tua morte e l’angoscia che stava montando si è paradossalmente lenita nel vedere  la tua splendida famiglia: Adelaide tua moglie e i tuoi tre meravigliosi figli. Il vedere come si comportavano, con quale coraggio e determinazione stavano affrontando quel terribile momento è stato ed è di esempio per tutti noi. Che altro aggiungere? Un po’ di silenzio, quel silenzio eloquente di cui il tuo sguardo era capace.



Chi eri.

Adelaide

Mi è stato chiesto di raccontarti, sinteticamente dire chi eri.
Basterebbe una parola nell’accezione più globale del termine: eri un uomo.
Un uomo che si è laureato in Medicina e Chirurgia nel 1979, ha svolto l’attività di volontario presso la clinica chirurgica di Terni con il professor Luigi Moggi, ha conseguito la specializzazione in chirurgia generale, mantenendosi i primi anni con il servizio festivo e notturno di guardia medica a Terni. Nel 1983 hai seguito un corso sulla diagnostica ad ultrasuoni per il sistema vascolare negli Stati Uniti e sei poi stato assunto preso il Pronto soccorso di Monteluce prima, continuando poi la tua opera nell’organizzazione della nuova struttura del Santa Maria Della Misericordia.
Mi piace ricordare che il nostro pronto soccorso sia stato fra i primi ad essere informatizzato anche grazie alla tua opera;  attualmente eri dirigente medico responsabile dell’OBI.
Questa però è solo una parte del tutto, costituito anche da un impegno sociale costante: MEDICI PER CASO, CRI; dell’amore per la cultura, OICOS, associazione filosofica nata a Bastia; per la natura, eri infatti un cacciatore, di quelli che amano confrontarsi alla pari con gli animali.
Ma soprattutto eri un marito, un padre, un figlio, un amico sempre sorridente e disponibile.
Eri e sei per tutti noi Mimmo.

Righe lette in occasione della S.Messa al primo anniversario della scomparsa 

Mi corre l’obbligo di onorare per prima cosa un dovere istituzionale, quello di portare ad Adelaide e a tutti i familiari di Domenico i saluti e un  messaggio di continua solidarietà da parte di tutto il Consiglio dell'Ordine dei Medici  della Provincia di Perugia, di cui anche Domenico faceva parte.
Poi volevo parteciparvi alcune considerazioni e valutazioni partendo però un po’ da lontano.
Quando si commemora qualcuno, si tende di solito a fare una sintesi, una descrizione che in maniera più o meno succinta riesca a cogliere l’essenziale  positivo, le parti migliori di una vita. Perciò solitamente si fa l’elenco di quelle caratteristiche che meglio, perdonatemi il giuoco di parole, hanno caratterizzato in positivo quella persona. Pertanto per Domenico gli attributi che necessariamente sono stati e vengono usati sono: buono, preparato, profondo, umano, gentile, abile, buon padre, bravo marito e potremo fare senz’altro un elenco lunghissimo. Ma saremmo esaustivi e completi? Senza dubbio la risposta è no.
Oggi giorno per descrivere un uomo, una persona, in maniera esauriente, non possiamo limitarci ad una lista di aggettivi ed attributi, ad una descrizione cioè di singole parti pretendendo poi in maniera riduzionista  di raccontarlo tutto 
per intero, no, il discorso è senza dubbio molto più complesso. Per poterlo narrare si dovranno descrivere tutte le interazioni,  tutte le relazioni che questo soggetto intratteneva, perché è oramai è accettato in maniera quasi unanime che noi non esistiamo come enti autonomi, distaccati dal contesto e dal mondo che ci circonda, ma siamo parte di una realtà con cui interagiamo e che modifichiamo con la nostra relazione e a nostra volta siamo modificati dalla realtà stessa. E’ una specie di meccanismo tipo feed-back per cui siamo, per intenderci, contemporaneamente spettatori ed attori. Che voglio dire con questo? E’ presto detto. Proviamo per qualche attimo a riflettere su tutte le interazioni che aveva Domenico: la famiglia d’origine, Adelaide, i figli, il Pronto Soccorso, i colleghi, gli amici, le associazioni che frequentava, la comunità di Bastia stessa. Pensiamo come Domenico abbia influito in queste realtà con la sua presenza ed il suo agire e, cosa impossibile, però ci proviamo ugualmente, adesso pensiamo come se Domenico non fosse mai nato, non fosse mai esistito, come sarebbero queste realtà e queste persone…… ovviamente i figli non esisterebbero, ma come sarebbe Adelaide che donna sarebbe? I suoi genitori? Come sarebbe il Pronto Soccorso dell’Ospedale Silvestrini se Mimmo non vi avesse mai lavorato? come sarebbero i suoi colleghi? Forse quanta gente non sarebbe più in vita perché non si sarebbe dato l’intervento terapeutico efficace del dottor Tazza? Come sarebbe la comunità di Bastia e come saremmo tutti noi, qui presenti se non avessimo mai interagito con Domenico? Non ho ovviamente risposte da dare, ognuno ci pensi dentro di sé. La conclusione che mi viene più spontanea in questo momento è quella che ho adoperato nel bollettino dell’ordine dei medici . Che altro aggiungere? Un po’ di silenzio, quel silenzio eloquente di cui lo sguardo di Mimmo era capace.
 


 


CAMBIO DELLA GUARDIA ALLA DIREZIONE DEL BOLLETTINO: Editoriale del Bollettino dell'Ordine dei Medici della Provincia di Perugia N1/2009


E’ sempre molto facile, da parte del nuovo responsabile di turno di un qualsiasi periodico o giornale, scivolare nelle solite frasi ricche di retorica e di circostanza. D’altronde è sempre molto difficile poter entrare subito nel vivo dei problemi, senza avere cercato di dare un minimo di presentazione e un minimo di informazione su quello che si intende dire e fare.
Non nascondo di aver avuto un attimo di disagio non appena la mia disponibilità a rivestire questo ruolo è stata accettata dal Consiglio dell’ordine: essere uno dei principali portavoce della vita del nostro ordine professionale è senza dubbio un
onore, ma comporta una responsabilità non lieve, comporta da parte mia anche il dover compiere un’operazione mentale non semplice. Sino ad ora, infatti, tutta la mia esperienza “istituzionale” è stata circoscritta essenzialmente dentro i con- fini della mia categoria di medico di famiglia, vuoi secondo un’ottica sindacale o di società scientifica, mi è indispensabile pertanto dover acquisire una sensibi- lità diversa, molto più ampia, che sia in grado di farmi ascoltare e che mi per- metta poi di parlare a nome di tutta la professione.
Sono convinto, insieme a tutto il comitato di redazione, che l’obiettivo primario di questo bollettino non è quello dell’informazione e dell’aggiornamento scientifico: riviste ben più prestigiose sono stampate per questo scopo. Nemmeno quello di poter diventare una specie di notiziario in tempo reale sui fatti e gli accadimenti della nostra cronaca sanitaria locale è un obiettivo perseguibile: non potrebbe reggere al confronto con newsletter telematiche, siti web e quant’altro viaggia alla velocità della rete, anzi, l’eventualità di questa via di comunicazione è al vaglio da parte nostra e presto ne daremo notizia.
E allora? Quale lo scopo, quali le finalità di questo bollettino oltre ad essere la voce istituzionale del consiglio dell’ordine? “ L’Ordine dei Medici deve essere sentito come la casa di tutti i medici”: è questa un’affermazione che ho sentito ripetere in molte occasioni e oramai da molto tempo, e poiché ricorre con frequenza costante c’è da scommettere che questa condizione non si è realizzata mai. Perché?... non ci penso assolutamente di affrontare in questa mia breve un argomento così pregnante: i motivi sono e possono essere tanti, uno fra tutti forse quello che si legge sul rapporto osservasalute 2008 presentato il 3 marzo u.s. al Policlinico gemelli di Roma in cui si asserisce che solo il 56,2% dei medici iscritti all’albo professionale fa davvero il medico, gli altri sono impiegati nel settore farmaceutico o biotecnologico. Chi l’avrebbe mai sospettato! E’ senza dubbio questo essere una categoria davvero molto eterogenea: per età, per disciplina, per contratto e quant’altro che spesso determina l’incomprensione fra noi medici. E’ questa non conoscenza reciproca, la sensazione che il mio interesse di medico di famiglia vada in collisione con quello del collega ospedaliero o con quello del collega di sanità pubblica che determina in- sofferenza se non rivalità.
Se pertanto la conoscenza dell’altro è la strada per il superamento della diffiden- za per arrivare ad un “idem sentire” è auspicabile che questo bollettino diventi uno strumento per farci conoscere meglio.
Ecco pertanto che abbiamo l’intenzione di ospitare articoli di opinione che rispecchino la propria realtà , ovviamente non personale, di quello che un medico vive magari all’interno di un grande ospedale o in una valle del nostro Appennino. E’ con questo spirito che vi rivolgiamo l’invito ad inviarci tutto quello che possa essere utile allo scopo e sempre con questo spirito che molti di voi saranno intervistati relativamente a problemi o iniziative che possano interessare molti.
Di solito la circostanza vuole che al termine della presentazione di un program- ma o di una attività si faccia una promessa: la promessa di rispettare gli intenti dichiarati, di realizzare gli obiettivi prefissati, io non mi sento fare promesse se non quella di trovare il tempo ed il modo per ascoltarvi, d’altronde la mia formazione psicoterapica mi ha allenato a questo.
Voglio concludere ringraziando il prof. Mario Timio che mi ha preceduto nella
direzione di questo bollettino, sperando di poter eguagliare la sua competenza.

IL NOSTRO...BURNOUT.Editoriale del Bollettino dell'Ordine dei Medici della Provincia di Perugia n2/2009


Dottore! sono oramai cinque giorni che sento un dolore sulla fronte ...”. “dottore! ieri ho scoperto che mio marito ha il vizio del giuoco.....” . “ dottore hanno chiamato dalla radiologia dicendo che prima di domani neanche a parlarne...”. “ Ha telefonato il commercialista ......”. Penso che sia esperienza quotidiana di tutti noi il sentir ripetere affermazioni di tale tenore, magari fra uno squillo del cellulare e l’altro. Dapprima si risponde concentrati sull’interlocutore, poi, qualcuno con il passare del tempo perde la concentrazione; può succedere di ascoltare in maniera distratta. Anzi, quelle domande e quelle parole cominciano a risuonare come una cantilena ossessiva, a tratti fastidiosa e possono far venire alla mente pensieri strani: “ Chi è questo che mi sta parlando davanti? Ma che cosa vuole da me?..........” Può capitare allora di finire la seduta ambulatoriale o il turno all’ospedale con la testa o troppo piena o troppo vuota, di avere voglia di dormire, no!....Forse di fuggire. scusate i toni un po’ troppo intimistici, che forse potrebbero apparire fuori luogo in questo bollettino, ma io condivido con Binswanger l’opinione che si possa capire a fondo “l’altro da me” solo attraverso la comprensione della sua soggettività. Credo inoltre sia giunto il momento di affrontare il problema del burnout non come un capitolo di patologia di un tratta- to medico o una relazione di un convegno, come se si parlasse della displasia dell’anca o dell’anemia megaloblastica, ma di affrontarlo come un qualcosa di nostro, di una nostra parte....... il nostro burnout.
L’altro giorno ho chiesto a mio figlio, medico da poco più di un anno, che cosa pensasse della sindrome da burnout e lui dopo avermi guardato con un’espressione stupita mi ha risposto di ignorare completamente di che cosa stessi parlando. Mi sono guardato bene dal replicare, fra me e me ho pensato che era giusto che anche lui facesse la propria esperienza professionale..... Fa parte infatti della propria esperienza professionale il sentire quel fastidio che comincia ogni tanto a prenderti, lo senti crescere dentro di te, dapprima non sai che cosa sia, non riesci ad individuarlo. l’entusiasmo del lavoro, la sensazione di essere il deus ex machina per tanta gente fanno in mo- do di passarci sopra, poi qualche conto comincia a non tornare: un’incomprensione con un paziente, una diagnosi ignorata, la morte prematura di quella ragazza ed altri fatti ancora. l’entusiasmo cala, il senso d’inadeguatezza può arrivare e con esso l’insoddisfazione, l’idea di essere sfruttati e non ripagati nella giusta maniera.
Che si fa allora? Jean Paul Sartre dice: “Noi siamo le nostre scelte”ed infatti qualcuno “sceglie”di passare in un comportamento aggressivo, di contestazione di tut- to e di tutti; altri, da questa fase calda, “scelgono”di passare ad una fase fredda, in cui l’indifferenza e il distacco affettivo ed emotivo regnano sovrani. Certo che Sartre fa presto a parlare di scelte che condizionano l’esistenza, ma quante volte queste scelte sono consapevoli? Quante volte al contrario è il caso, il contesto, qualcuno lo chiama inconscio che determina la scelta? Non è semplice dare risposte. Quello che mi preme è di rendere reale, concreta e tangibile la sindrome da burnout. Avrei potuto parlare in termini asettici di esito patologico di processo stressogeno che colpisce i soggetti che esercitano una professione d’aiuto. Mi sarei potuto soffermare sulle quattro fasi, iniziando con l’entusiasmo idealistico per arrivare all’apatia passando per la stagnazione e la frustrazione, ma credo di averle illustrate in maniera adeguata non come concetti o categorie nosografiche, ma come categorie esistenziali.
Quanti sono i colleghi con questa problematica? A mio giudizio tanti. lo si capisce dal tipo di discorsi che vengono fuori ogni qualvolta ci si incontra: la lamentazione continua, l’insofferenza riferita verso i pazienti e verso qualsiasi istituzione ed innovazione, l’ossessivo conto alla rovescia per il pensionamento, oppure il disertare in maniera sistematica qualsiasi momento relazionale fra colleghi.
A questo punto ovviamente si impongono delle risposte, anche se ho detto prima che non è semplice, la mia idea è quella di provare ad affrontare il problema in maniera concreta. Prima di tutto conviene, sotto l’egida ed il sostegno dell’ordine dei Medici, dar vita ad un gruppo di studio di addetti ai lavori per una ricognizione ed un progetto operativo. la ricognizione serve per valutare quante risorse umane ed economiche occorrono, per stabilire quali canali culturali e istituzionali vanno percorsi, quale strategia adottare per la prevenzio- ne e la terapia. Po si vedrà.
Per il momento faccio appello a chi ha esperienza e si sente in grado di dare un contributo a tal proposito, di mandarmi per posta elettronica la propria disponibilità e relativi recapiti. vediamo di costituire questo gruppo operativo. sono graditi anche commenti e valutazioni in me- rito a tale iniziativa.

DECALOGO! CHI ERA COSTUI?. Editoriale del Bollettino dell'Ordine dei Medici della provincia di Perugia N.3/2009


Mi trovo in difficoltà nell’affrontare tale argomento: il rischio di essere troppo partigiano e perdere di obiettività è grande, ma non posso farne a meno. Per chi ancora non ne fosse a conoscenza,  sono in tanti, la Giunta Regionale dell’Umbria in data 26 gennaio u.s. con delibera n.69 ha modificato la DGR 563/2001 , integrandola con un DECALOGO PER LA SEMPLIFICAZIONE DEI PERCORSI ASSISTENZIALI. Come ha detto bene il nostro Presidente nel n.1/2009 di questo bollettino, si tratta di un insieme di norme e raccomandazioni cui i medici dipendenti, medici specialisti convenzionati, medici di medicina generale e pediatri di libera scelta sono tenuti ad osservare per offrire da un lato un servizio migliore ai cittadini e dall’altro per instaurare un più corretto rapporto tra le varie categorie di sanitari.  Il testo di tale decalogo è stato scritto in maniera chiara, inequivocabile con uno stile molto diverso rispetto a quello tipico e spesso di difficile lettura delle leggi e leggine. Sempre con il testo di tale decalogo poi,  nello stesso bollettino, è stato realizzato nelle pagine centrali un inserto staccabile  per poter essere affisso negli studi e così via. Tutto risolto? Macché! Siamo sempre alle solite.
M.G. paziente di 51 anni madre di 4 figli con carcinoma metastatico della mammella si richiedono con “scrocettamenti” vari: n. 3 impegnative di visita oncologica controllo, n.3 impegnative di infusione di chemioterapici, n. 3 impegnative con emocromo e formula, i risultati dei seguenti esami da presentare in data …..   e la volta successiva  in data….(profilo biochimico ed ematologico e markers tumorali vari).
F.G. maschio di 83 anni porta in visione l’ECG effettuato la mattina stessa presso il poliambulatorio ASL  su cui è scritto in maniera quasi illeggibile di effettuare un’ ECO cardiaca e a voce gli è stato detto di portare subito l’impegnativa fatta da me perché lui stesso lo avrebbe eseguito il giorno successivo.
M.A. maschio di 87 anni arriva in studio alle ore 10 lamentando dispnea e sensazione di cardiopalmo: faccio diagnosi di sospetta fibrillazione atriale ad alta frequenza e lo invio all’ospedale con richiesta urgente di ECG e v.cardiologica. Mi telefona alle 13,50 dicendo che il cardiologo  aveva confermato la diagnosi , ma si era raccomandato di iniziare alle ore 16 terapia con eparina a b.p.m. di cui io dovevo fare la ricetta e che, alla sua replica che il mio ambulatorio riapriva alle 17, gli era stato risposto di richiedere il mio intervento in maniera urgente come avevo fatto io nei suoi confronti.
Potrei proseguire all’infinito nell’elenco di episodi analoghi anche questi accaduti dopo  il 26 gennaio, ma la mia intenzione non è quella di far polemica, ma quella di poter condividere alcune considerazioni.
Prima riflessione: io appartengo alla vecchia generazione, quella cui i “Baroni”  hanno insegnato che davanti al malato non deve trapelare nulla di quelle che potremmo definire, con eufemismo, criticità di rapporto fra colleghi. Ci hanno insegnato ad affrontare con impassibilità e freddezza emotiva qualsiasi situazione di disagio derivante da errori di altri, figuriamoci da crisi di contesto o di sistema.  Il messaggio che abbiamo sempre avuto chiaro e inequivocabile è stato quello, paradossale da un punto di vista logico, che per il bene del paziente va gestito in silenzio anche l’eventuale errore clinico del collega che è intervenuto prima di te. Molti contenziosi non si darebbero se questa regola venisse ancora applicata.
Data questa premessa sono per me
incomprensibili risposte come quella data dal cardiologo al mio paziente sull’urgenza del mio intervento o peggio ancora il comportamento di un medico  di famiglia che da un po’ di tempo, mi dicono, applica sulle proprie impegnative un timbro con la dizione:” Richiesta effettuata in maniera difforme dalla delibera n.69 ……”.
Seconda riflessione: il medico di medicina generale rivendica giustamente una posizione di centralità nel panorama dei percorsi assistenziali e quindi trovo naturale che gli venga affidato il compito di ripetere richieste ed impegnative per conto dei propri consulenti specialisti. Ignoro del tutto infatti lo stato di salute e le terapie effettuate da i miei pazienti in terapia emodialitica dal momento che i nefrologi gestiscono in proprio ed in maniera esclusiva tali soggetti, ma credo che sarebbe stato vantaggioso per quei miei due pazienti ultraottuagenari tornare alla mia osservazione non subito per burocrazia, ma dopo aver fatto l’eco cuore o dopo aver ricevuto la ricetta di  enoxaparina.
Terza riflessione, collegata a quella precedente in merito alla centralità gestionale del medico generalista : “scrocettamento” di oncologi, ematologi, radioterapisti, ginecologi . Qui il discorso è più complesso, articolato e  condivido molte delle osservazioni  contenute nell’articolo seguente del dottor Marco Rondini. Non possiamo infatti  pretendere di stare al centro del crocevia senza assumersi l’onere delle indicazioni, l’impegno di prendersi cura dei propri pazienti in maniera consapevole ed esaustiva. Se vogliamo essere considerati i “curanti”, i medici della persona ,  “ i  padroni del paziente”, non possiamo non trascrivere quello che lo specialista consiglia: mentre trascriviamo siamo informati ed allo stesso tempo possiamo concertare con il nostro assistito, ma troviamo delle scorciatoie allo “scrocettamento” . Molto spesso si tratta di pazienti in condizioni precarie che vediamo presso il loro domicilio, dove non abbiamo il nostro computer e ve lo immaginate cosa vuol dire  soddisfare le richieste come nella paziente con carcinoma mammario prima descritta? Perché tre impegnative di visita oncologica e non un ‘unica richiesta con il numero delle prestazioni? Quale logica perversa di DRG impone tale scelta? Inoltre quale è il razionale di dover richiedere la colesterolemia totale due o tre volte al mese a chi fa chemioterapia?
In conclusione cerchiamo di fare uno sforzo comune nell’interesse dei pazienti e  di tutti noi : diamo vita, come suggerisce Rondini  ad un  organismo di medici che affronti il problema in maniera costante . Un osservatorio permanente  che cerchi di trovare soluzioni di volta in volta, partendo da presupposti scientifici, deontologici e molto spesso di buon senso.






DISCUSSIONI OZIOSE SOTTO L'OMBRELLONE:Editoriale del bollettino dell'Ordine dei Medici N. 4/2009


Mi ricordo che sino a pochi anni fa, durante le ferie, ero in grado di staccare la mente in maniera totale da tutto quello che riguardava il lavoro: non c’era il cellulare, il periodo di riposo era molto più lungo e concentrato in un unico periodo, partivo da solo con tutta la mia famiglia.
Con il passare del tempo le abitudini sono cambiate: non più di una settimana, ma magari ripetuta più volte durante l’anno. Il telefono cellulare sempre acceso: con i genitori anziani e i figli soli in casa o in giro per il mondo...non si sa mai! Ma ne approfittano anche diversi pazienti. Soprattutto poi è l’andare in vacanza insieme a colleghi che più o meno condivido-
no la stessa vita, la stessa quotidianità e le stesse problematiche che tra un bagno e l’altro, un’escursione e l’altra si impongono lunghe discussioni: politica, cronaca, gossip nazionali e locali, ma gira e rigira si finisce poi sempre lì...., a parlare di lavoro o di episodi che sono capitati mentre si lavorava.
Un argomento che questa estate ha tenuto banco in maniera molto vivace è stato quello dell’uso delle sigle e degli acronimi nella pratica di ogni giorno. Ho esordito io raccontando che qualche giorno prima ero stato costretto a telefonare ad una collega pneumologa che aveva richiesto una visita di controllo con DAC (diffusione alveolo-capillare) e lì c’ero arrivato, ma poi mi ero arenato in maniera totale su 6MWt, che la collega mi ha spiegato essere per six Minute Walking test, vale a dire il test del cammino per sei minuti. E’ partito un fiume in piena! MM che significava mieloma multiplo scambiato per melanoma maligno. GAd e DAP rispettivamente disturbo d’ansia generalizzato e disturbo di attacco di panico. Su questo tema il centro per l’infertilità fa la parte del leone: MHtFr ( metilentetraidrofola- toreduttasi) e PAi-1 (plasminogen activa- tor inhibitor 1) ed anche l’urologia non si comporta male con IPP (induratio penis plastica), TURB (resezione transuretrale di neoformazione vescicale ) e TURP (resezione transuretrale di prostata) . Voglio terminare la rassegna restando in ambiente urologico con un episodio, oramai dal sapore aneddotico, accadutomi ad inizio attività in cui sono stato alle prese con una richiesta di vB1,vB2,vB3 che il primario chirurgo di allora per telefono mi tradusse nella prova dei tre bicchieri: test per stabilire il rapporto cronologico dell’ematuria con la minzione, prova caduta nell’oblio con l’avvento dell’ecografia.                     Le conclusioni di questa discussione sono facilmente intuibili ed ognuno tragga le proprie, io ho risolto il problema lavorando continuamente connesso ad internet, lancio sul motore di ricerca la sigla e quasi sempre ottengo le risposte, ma è normale dover arrivare a tanto?
Da internet a discutere dell’informatica e del suo uso nella nostra attività è un attimo e qui, come prevedibile, il consenso più o meno unanime che si aveva nell’argomento precedente si frantuma in diverse fazioni di opinione. C’è l’entusiasta, chi la considera un male necessario, chi fortemente l’osteggia e l’avversa:” Mi sembrerebbe di essere un impiegato dell’anagrafe comunale”.” Il mio cervello si rifiuta .......!”. e su affermazioni di questo tenore potremmo andare avanti all’infinito, senza poter trovare un minimo di incontro: il risultato è un no senza possibilità di concertazione e mediazione, anzi, tutti coloro che hanno iniziato e hanno istituzionalizzato l’uso dell’informatica nella attività medica, sono da considerare dei “tra- ditori”, come coloro che hanno contribuito più di tutti         a “snaturare” il ruolo e la figura del medico. Sull’estremo opposto ci sono i colleghi che oramai ragionano solo in byte e RAM alla velocità espressa in gigaherz: usano un loro linguaggio, hanno un loro stile e mentre ci parli non sai mai se ti ascoltano o stanno in quella realtà virtuale che per i più risulta inintelligibile ed imperscrutabile in quanto fatta di links e blog. Fra tutti, per fortuna, la fascia più ampia è quella dei medici che lavora con il personal computer in quanto oramai ne è invalso l’uso e non se ne può fare più a meno: per raccogliere ed elaborare dati, per gestire la cartella clinica del paziente, per avere dei numeri su cui poter impostare un audit, per studiare e rimanere aggiornati. Questa discussione di fatto si è conclusa senza un’opinione condivisa, molti problemi come era logico aspettarsi sono rimasti aperti: l’investimento economico e di tempo per la realizzazione di un archivio elettronico, l’interferenza nel rapporto medico-paziente, la tutela e la segretezza dei dati e delle informazioni.... ed altri ancora. Dall’uso dell’informatica come strumento di lavoro, come per esempio per il monitoraggio dei fattori di rischio di malattia dei nostri pazienti e quindi a parlare delle nostre capacità nel poter prima verificare e saper poi governare gli stili di vita di costoro, ancora una volta è stato un attimo.
A questo punto, però, l’intensità delle voci si è attenuata in maniera spontanea, come se ci fossimo trovati in una situazione di rispetto o di soggezione. Forse è la consapevolezza, la convinzione che ognuno di noi, su questo fronte, in qualche modo è carente e deficitario che ci ha fatto abbassare i toni del linguaggio:” Ha avuto due infarti del miocardio, ma non riesco a fargli assumere la statina..” “va avanti con il bombolone dell’ossigeno liquido e di nascosto ancora fuma...”.”Pesa più di un quintale! E’ stata da tre o quattro dietiste, ma non è calata neanche di un grammo”. Sono queste        alcune delle innumerevoli testimonianze riferite dal gruppo, tutte come dicevo senza particolare enfasi e vissute con la sensazione dell’ineluttabile del “non ci posso far nulla”, verbalizzate in maniera frustrata da alcuni e distaccata da altri. Quello dell’intervento sugli stili di vita dei propri pazienti è un problema grande, sia per il numero degli interventi, sia per le enormi conseguenze che ne derivano, ma come è possibile in concreto poter intervenire al di là della semplice prescrizione ed indicazione? Esiste me- dico che abbia ricevuto una formazione e una preparazione adeguata? Esistono tecniche di comunicazione che oramai sono state validate, ma sono alla portata di tutti? si fa presto a parlare di comunicazione e di counselling, ma è stato mai studiato quanto le variabili sog- gettive del medico sono determinanti su questo fronte? Senza arrivare a parlare degli stili di vita del medico, ma quanto il suo carattere introverso od estroverso, quanto le sue opinioni e i suoi “vissuti” influiscono nel colloquio, nella modalità di rapportarsi e di prescrivere e consigliare? E poi? In trenta anni di lavoro quanti miti abbiamo visto cadere o trasformarsi? vale a dire, quante verità che sembravano assolute e pertanto degli obiettivi da perseguire si sono rivelate inutili se non addirittura controproducenti? Pertanto la discussione è andata a finire sull’utilità di certi atti medici, sul valore di certi interventi e sui criteri di validazione delle nostre scelte e quindi sulla Medicina Basata sulla evidenza (EBM). su questo punto l’intensità delle voci ed il tono della conversazione si sono nuovamente alzati e vivacizzati. Si sono riformate le fazioni contro e a favore. Le affermazioni di Sachett e Cochrane sono state sommariamente rivisitate e valutate:” Considerazioni di alto significato teorico e nessuno pratico”. “l’atto medico è un misto di scienza, di arte, di empiria che difficilmente può essere circoscritto entro gli angusti confini di regole più o meno rigide”.”Dall’EBM si possono ricavare informazioni e raccomandazioni per una buona ed appropriata pratica clinica...”. Indubbiamente la questione epistemologica, il problema del metodo e del paradigma da cui discende la nostra pratica quotidiana ci investe e spesso ci sommerge senza che i più se ne rendano conto. Quanti infatti sono convinti che ci troviamo di fronte ad un mero aspetto teorico, speculativo fine a se stesso e rimandano il tutto ad una pura riflessione di tipo filosofico non pertinente con l’attività del medico? Quanti sono consapevoli dell’inferenza che certe affermazioni hanno sul nostro lavoro quotidiano? Ecco dunque le non conclusioni delle nostre sudate discussioni sotto il sole d’Agosto. Quello che è certo però è che il medico oltre a fare il medico deve avere:
1) Una buona dimestichezza con sigle, acronimi e la lingua inglese.
2) Una buona conoscenza dell’uso dell’informatica.
3) Una capacità di interazione e comprensione del paziente da psicologo.
4) Una buona base filosofica per affrontare il problema del metodo del proprio lavoro con consapevolezza. Ma siamo sempre convinti di fare la professione giusta?