IL BURNOUT DEL MEDICO: DALL’AIUTARE
ALL’ESSERE AIUTATO
Questo è il titolo di un convegno
organizzato dall’Ordine dei Medici l’11
maggio u.s. a Perugia presso il teatro dell’ONAOSI maschile. Il programma
prevedeva una prima sessione dedicata agli interventi preordinati che hanno
inquadrato il problema sia dal punto di vista clinico che epidemiologico,
mentre la seconda parte è stata occupata da una tavola rotonda in cui i vari
partecipanti, rappresentanti delle varie istituzioni hanno prospettato le
possibili risposte al problema, ognuno per la propria specificità.
In questa tavola rotonda il
mio intervento si è concretizzato in una lettura che molti colleghi hanno
chiesto di poter avere e pertanto la propongo come editoriale.
Sta per iniziare una seduta
ambulatoriale come tante. Attraverso distrattamente la sala d’aspetto salutando
un gruppetto di pazienti che sarà arrivato anche da più di un’ora con la
discutibile convinzione, così, di poter essere ricevuti prima degli altri e
risparmiare tempo. Li guardo meglio e capisco subito che ci sarà da soffrire.
C’è Maria di 88 anni con i suoi dolori alla colonna che non passano con niente.
C’è Cesare che viene per sua madre in fase terminale per un’ascite
carcinomatosa. C’è Giorgio, preoccupato perché la ricerca del sangue occulto
nelle feci è positiva ( me lo ha anticipato telefonicamente già due e tre
volte) e ci sono altri….Mi siedo e inizio a stampare ricette, ma la stampante
comincia a fare i capricci. Arriva uno e mi dice che ho sbagliato l’esenzione
dal ticket, arriva un altro e mi dice che non ho scritto la nota AIFA prevista
per quel farmaco, un altro ancora con fare abbastanza aggressivo mi dice che al
CUP gli hanno detto che dovevo applicare un codice RAO di urgenza e non l’ho
fatto….si susseguono i volti, le parole, le richieste e intanto il telefono
squilla…squilla.
Ho iniziato questo mio breve
intervento con una narrazione, la narrazione di una classica e familiare seduta
ambulatoriale e credo che molti medici si siano riconosciuti. Perché ho preferito
partire da una narrazione? Perché è mia convinzione che per certi problemi, per
certe situazioni, probabilmente un approccio narrativo sia più proficuo per
comprendere e forse per curare. Assolutamente non vorrei essere frainteso: i
numeri, le percentuali, l’EBM, la sperimentazione restano la base ed i cardini per il metodo
clinico, ma qualche volta però si dovrebbe avere la consapevolezza che possono
essere percorse anche altre strade, non
è questione pertanto di aut aut, ma se
mai di et et.
Vorrei proseguire questo mio intervento andando indietro nel tempo, molto
lontano, per trovare una traccia delle origini della nostra professione agli
albori della nostra cultura occidentale e precisamente nella mitologia greca.
La prima figura che incontriamo che abbia a
che fare con l’attività medica è quella del centauro Chirone. Chi era Chirone? Egli era il più sapiente
e il più buono dei Centauri ( creature abitanti dei boschi, su cui corpi di
cavallo, al posto del collo, erano attaccati tronchi umani) e per questo era
detto anche “dalla doppia natura”. In lui si riassumeva infatti la natura
animale: il corpo e l’istinto e quella umana: la psiche, lo spirito. Da questa commistione
originò il suo potere terapeutico. Tutti sappiamo come andò: venne ferito per
errore da Ercole con una freccia avvelenata
che gli procurò dolori e tormenti indescrivibili nonostante le cure o
meglio, la propria autocura. Il mito, quindi, pone l’accento sul paradosso di
un guaritore, ferito a sua volta, che non riesce a guarire se stesso,
sottolineando così la grandezza ed il limite
della nostra attività terapeutica. Jung da Chirone ha ripreso
l’archetipo del guaritore ferito: l’archetipo racchiude in sé due polarità
opposte, in Chirone infatti si compenetrano medico e paziente, guaritore e
ferito. E’ un grande medico poiché conosce la propria ferita che simbolicamente
lo unisce al mondo dei malati. Chirone non studia la malattia dell’altro, ma la
riconosce.
Da Jung passiamo a Soren Kierkegaard di cui mi preme riportare questo
pensiero:” Imparare a conoscere l’angoscia è un’avventura che ogni uomo deve
affrontare se non vuole perdersi sia per non averla mai provata sia per
esservisi sommerso”.
E’ mai possibile per
noi medici che si debbano o si possano cercare
delle risposte ai nostri problemi nella
mitologia, nella psicologia o nella filosofia, perché?
Tutti noi quando apriamo la porta
del nostro studio o entriamo nel nostro reparto ospedaliero, sappiamo che da
quel preciso istante siamo catturati da un ruolo che, più o meno
inconsapevolmente, in qualche modo abbiamo scelto. Ci viene affidato un compito,
anzi il compito, che da quando esiste l’uomo è sempre quello, se pure
storicizzato in maniera diversa. Parafrasando le parole di Melucci, “ci troviamo, quotidianamente, a dover trattare
intrecci di corpo e anima, piccoli e grandi grovigli di dolore fisico, timori
ed attese come faceva anticamente anche lo sciamano, senza però avere dello
sciamano la fede nelle energie profonde che governano il cosmo e il contatto sottile
con l’umano che soffre e si interroga. Ridotti oramai come siamo a funzionari del sistema del welfare e
nello stesso tempo terminali di
un apparato
scientifico-tecnologico gigantesco, di cui controlliamo appena qualche piccola area, ci troviamo a dover far fronte alla stessa domanda
quotidiana che viene dagli strati più intimi della condizione umana: libera nos a malo. Ma per misurarci
con l’aspettativa oramai smisurata dei pazienti che vogliono cancellare
qualsiasi sofferenza e tacitare qualsiasi paura non possediamo altro che la
nostra tecnica sempre più specializzata e settoriale”.
In quanti di noi era la consapevolezza di questo ruolo quando
decidemmo di iscriverci alla Facoltà di Medicina? In quanti di noi era la convinzione che solo una buona preparazione
scientifica fosse sufficiente per fare il medico? Preparazione scientifica…….
Il problema è proprio questo: preparazione, formazione, scienza.
Tutti noi abbiamo iniziato a lavorare con un camice bianco,
immacolato e sempre tutti noi pensavamo che questo camice non si sarebbe mai
sporcato. Forti di una formazione fortemente riduzionista eravamo convinti che
tutto fosse lineare e che la nostra competenza e professionalità dipendesse esclusivamente
dalla nostra oggettività escludendo qualsiasi tentativo di soggettività: la
nostra e dei nostri pazienti. Ma come è
mai possibile operare, lavorare, prescindendo da noi stessi? Come è possibile
prendere in considerazione solo quello che conosciamo e pertanto, come dice Galimberti, inseguire come
conoscenza solo quella del significato concettuale e ignorare quella del senso
esistenziale? Senza rendercene conto nella nostra cura degli altri, come
mirabilmente afferma Antonia Chiara Scardicchio nel suo saggio il Medico
Claudicante, ci affidiamo ad un paradigma anestetico che molto presto però si
rileva insufficiente e fallace. Insufficiente e fallace perché prende in considerazione
solo quello che siamo in grado di spiegare ed esclude, con un’operazione che a
suo tempo ci è stata insegnata, la storia del paziente e la nostra stessa
storia e di conseguenza la relazione fra
noi ed il paziente e la relazione fra la storia mia di medico con quella del
paziente.
Ci siamo mai chiesti perché ad un certo punto della nostra vita
abbiamo deciso di fare il medico? Ci siamo mai chiesti o domandati quale la
motivazione, la finalità o il perché? E ci chiediamo mai quando una volta
aperta la porta del nostro studio o entrati nel reparto del nostro ospedale e i
nostri pazienti ci sbattono in faccia la loro angoscia di morte come li
affrontiamo? Neanche a farlo a posta ho usato il verbo affrontare che ha un
forte sapore di gergo militare. Come si relaziona la mia angoscia di morte con
quella del paziente che in questo momento magari sto ascoltando, ma
probabilmente non sto sentendo? Queste sono domande cui è difficile dare una
risposta, ma il semplice fatto di porgersele è senza dubbio un grande passo in
avanti.
L’aumentato carico burocratico, i RAO, il budget, il Web 2.0 con la
conseguente consumerizzazione dei
pazienti sono senza dubbio una fonte di continuo disagio. “Io se dovessi
rendere conto solo al malato del mio operato non avrei nessuna difficoltà nel
mio lavoro!” Questa è l’affermazione più frequente che circola nei momenti di
dialogo rilassato fra colleghi, ma quanto ci rendiamo conto come queste parole
abbiano il sapore della figura di medico onnipotente che basa sull’approccio
lineare e paternalistico il proprio metodo e la propria epistemologia? Quanto
ci rendiamo conto che questi sono si degli elementi turbativi, ma perché in
fondo in fondo turbano la nostra consuetudine di un approccio basato sulla conoscenza concettuale
e nosografica, su una scienza fondata sull’astrazione, sull’incasellamento e
che non tiene conto dell’analisi della
complessità, delle relazioni e dei legami che ogni uomo ha con la propria
storia e con tutto il mondo che lo circonda.
Ed allora cosa conviene?
Ecco pertanto che al medico diventa una condizione necessaria “
ripercorrere la propria formazione nella sua dimensione autobiografica”, ricostruire la propria “
Autobiografia“ la propria “Auto-Bio-Epistemologia” per imparare a diagnosticare
con un’ottica diversa, un’ottica che comprenda la storia e le relazioni dei
nostri pazienti e di noi stessi.
Con questa indicazione mi riferisco a delle esperienze ben precise come
quella che in questo momento è ancora in fase di rielaborazione come il
progetto finanziato dalla Regione Puglia
“Comun-I-care” coordinato dall’Università di Foggia da parte della già citata
professoressa Scardicchio oppure le varie esperienze di Laura Formenti della Bicocca di
Milano e tutta la letteratura sulla autobiografia partendo da Jerom Bruner,
Erikson, sino ad arrivare Duccio Demetrio e altri.
L’obiettivo del ripercorrere nella dimensione autobiografica la
propria formazione è quello di far sviluppare come dice Goleman
“un’intelligenza emotiva” che consiste nel poter comprendere e gestire le
proprie emozioni sviluppando così una personalità flessibile e creativa capace
di adattarsi alle più diverse situazioni con autocontrollo e fiducia in se
stessi. Insomma come ci adoperiamo per favorire l’empowerment
dei nostri pazienti, dobbiamo imparare l’empowerment
di noi stessi come curatori.
Lasciatemi ,però, chiudere tornando alla mitologia, al nostro
Centauro Chirone che non potendo sopportare più il dolore e la sofferenza vuole
morire, ma essendo immortale in quanto semidio deve chiedere l’intervento di
Zeus il quale lo accontenta scambiando la sua immortalità con quella di
Prometeo.
Ma poteva un guaritore della sua portata finire così? Senza lasciare
una traccia tangibile? Assolutamente no, allora viene trasformato nella
costellazione di centauro e così ancora oggi qualsiasi mortale può osservarlo mentre
splende nel cielo.
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