Ancora ricordo perfettamente
l'inizio della mia avventura. Era il mese di febbraio 1978, uscii di casa
indossando un " Principe di Galles" comperato la settimana prima. Una
cravatta in tweed su una candida camicia, la borsa che odorava ancora di
pellame appena uscito dalla conceria riempita con tutto lo strumentario. Salito
sulla mia " Fiat 127", regalata dai miei genitori qualche mese prima,
per la laurea, mi voltai un attimo per
guardare la mia casa paterna senza pensare che quella sarebbe stata l'ultima
volta che l'avrei vista con quegli occhi. E già, mentre la vita scorre con
flusso continuo e inarrestabile non sempre si riesce a " fermare
l'attimo", non sempre, anzi quasi mai si ha la percezione, chiamiamola
storica, dell'istante che stiamo vivendo. Come la nostra vita in quel momento
subisca le nostre scelte, le conseguenze e le inferenze che si producono quando
decidiamo, il più delle volte in modo inconsapevole, ciò che in quel momento è
giusto fare o non fare, oppure con quale persona in quel momento decidiamo di
parlare, ascoltare o evitare.
Il mio amico Boria nel breve
ma pregnante saggio :" Il ricordo inventato che noi siamo" chiarisce
come la nostra memoria, il senso della nostra identità, non siano qualcosa di
perennemente consolidato e stabile, ma variano costantemente con il trascorrere
del tempo, con l'intersecarsi delle esperienze e delle relazioni con gli altri
umani. E' proprio così. Rivediamo un film già visto, andiamo sulla stessa
spiaggia di qualche anno prima, incontriamo per caso un vecchio amore o una
vecchia amica....quali emozioni? Quali sensazioni? Non certo quelle di allora,
di qualche anno fa. Qualche parte di te le ricerca, vorrebbe forse riviverle,
ma nulla da fare! Il libro, la spiaggia, l'amica forse no, sono quelli di
allora, ma tu sei sicuramente cambiato, sei diverso. Non sei più quello di
prima. La mia casa paterna è sempre là, nella sostanza i muri ed il tetto sono
sempre quelli, ma da quella mattina, un lunedì del febbraio '78 non è stata più
la stessa.
Nel passato l'ingresso in
società, l'ingresso nell'età adulta e nel mondo del lavoro era preceduto da un
periodo abbastanza lungo di "iniziazione": apprendistato, tirocinio
che ti preparava ad affrontare i "perigliosi" itinerari successivi.
Di solito seguivi un maestro che ti insegnava qualcosa che andava oltre la
preparazione di base: i trucchi del mestiere, come affrontare gli imprevisti,
come risolvere situazioni critiche e poi era lui che decideva quando era giunta
l'ora di sganciarti, quando era arrivato il momento di farti andare avanti da
solo con le proprie gambe. Adesso invece ci sono, almeno per noi medici, dei
traguardi ufficiali: laurea, specializzazione, tirocinio pratico ospedaliero o
dal medico di medicina generale che sanciscono un titolo formale che però molto
spesso può non corrispondere a uno stato di fatto. Avere una laurea in medicina
non corrisponde sempre ad "essere" un medico. Per il mondo sei un
professionista abilitato a risolvere i problemi di salute della gente mettendo
in pratica tutte le teorie e le tecniche che hai appreso in maniera scientifica
e che sempre in maniera scientifica dovrebbero essere applicate, ma qui
"casca l'asino" direbbe la mia vecchia insegnante di lettere del
ginnasio.
Lasciando la casa paterna,
per me così è stato, lasci dietro alle tue spalle una realtà: la tua realtà
fatta di cose a te note, ovvie, semplici e lineari. Tutto il tuo mondo e le tue
relazioni, sino a quel giorno, erano
comprese nell'ambito familiare e con le persone che condividevano i tuoi
vissuti per contiguità sociale o cronologica. Ad ogni parola corrisponde una
categoria precisa e indiscutibile nella sua essenza, nel nostro discorso,
pertanto, categorie come la salute e la malattia avevano per te un significato,
un concetto da cui deriva un comportamento chiaro e limpido come la luce del
giorno. Credi di sapere quello che è giusto, hai la convinzione che
l'orientamento indotto dai tuoi punti cardinali per te incarnati, non possa
essere messo in discussione e pertanto vai sicuro e fiducioso. Passano i
giorni, si avvicendano le sedute ambulatoriali, si susseguono le visite ed i
contatti con i malati, con i pazienti, con la gente e il tuo Principe di Galles
è sempre più sgualcito, la tua camicia sempre meno candida e hai sciolto il
nodo della cravatta per toglierla e buttarla, non ti ricordi più nemmeno dove. Sui
libri e anche in ospedale ti sembrava tutto ordinato e logicamente allineato: i
sintomi, i segni, la diagnosi e la terapia. Questi sono i presupposti e queste
le logiche conseguenze. Questa è la malattia e questa la terapia, una risposta
ad ogni domanda ed un comportamento coerente reciproco: io sono il dottore e tu
sei il paziente, io detto le regole e tu le esegui e ti comporti di
conseguenza. Più passa il tempo, però, più ti accorgi che non è così. I sintomi
non tornano, spesso non coincidono con i segni e sempre più spesso ti congedi
dal paziente senza aver capito, scusate il giuoco di parole, che cosa hai
capito, sull’opportunità e la pertinenza delle scelte fatte, perché? Perché fra
la teoria e la pratica spesso c'è un abisso e spesso non si riesce proprio ad
avere una comprensione della malattia del paziente. Col passare dei giorni ti
accorgi che non esistono veramente le malattie, ma i problemi che i pazienti ti
propongono, anzi molto spesso ti trovi il paziente che non è neppure in grado
di proporti il problema ed ecco allora che sei costretto a comportarti in
maniera diversa da quello che ti avevano insegnato, da quello che avevi imparato
e da quello che eri. Ti rendi conto come talora il trucco consista nel far parlare il paziente mentre tu lo
guardi e lo ascolti e lo lasci raccontare e gli lasci dire la sua storia.
"Dottore" mi dice
Lorenza" è tardi e sono fuori orario ma mi fa ugualmente?" Annuisco
in silenzio, vorrei dirle di tornare domani, che sono stanco, ma Lorenza è una
donna che non viene quasi mai, la classica lavoratrice autonoma e madre di
famiglia che difficilmente trova il tempo da dedicare alla cura della propria
salute. “Non le farò perdere tempo dottore, mi serve solo la richiesta per fare
tutte le analisi". E' tardi, non ho più voglia di far nulla e quasi
meccanicamente cerco la sua scheda sul personal
computer per stampare questa benedetta prescrizione senza minimamente
chiederle il perché. Di solito non ammetto per i miei pazienti il self service
sanitario, ma a quest'ora qualsiasi richiesta è lecita pur di finire alla
svelta. Mentre, sempre distrattamente, sto firmando le richieste, Lorenza
rilancia:" Sa dottore, è da un po' tempo che ogni volta che passo davanti
ad un bar mi viene da svenire, chissà che malattia sarà?". A questo punto,
se dovessi raccogliere l'anamnesi come mi hanno insegnato all'università, non
credo che potrei avere carte da giuocare se non quella di far finta di niente,
mi farebbe anche comodo in questo momento, o quella di dire che ciò che mi sta
riferendo non ha alcun senso per me e forse per tutta la Medicina.
Vuoi però per curiosità, vuoi
però perché a questo punto ( sono
passati diversi anni da quando ho lasciato la casa paterna) l'esperienza ti dice di stare attento, non
tanto per quello che ti dice, ma per il contesto: paziente che non si vede mai,
che capita a fine seduta quando la sala d'aspetto è oramai vuota, che richiede
di fare "tutte" le analisi, che reagisco:" La capita davanti a
tutti i bar o solo davanti ad un unico bar?" Pensando fra me e me che ci
possa essere qualche strana associazione mentale con un bar come luogo o con un
barista come persona.
" Davanti a tutti i
bar" replica lei. Il discorso si fa ingarbugliato però insisto: " Ha
idea per caso su cosa di specifico, che abbia a che fare con il bar, la faccia
arrivare al punto di svenire?". " L'odore del caffè "mi
risponde.
"Allora non è il bar in
sé che la fa svenire, ma l'odore del caffè......... quindi anche a casa se suo
marito mette sul fuoco la caffettiera?”. “Proprio così, da circa due o tre mesi
a questa parte”.” Ma le verrà nausea, sensazione di vomitare non di svenire
addirittura?" replico. "No, no, mi viene proprio da svenire!". A
questo punto sono veramente in crisi, non so proprio a che cosa attribuire questo sintomo, ma mi viene un'idea:" Mi
dica signora, ma per lei questo problema che cosa significa?". Qualche
interminabile secondo di silenzio e con gli occhi lucidi e sotto voce mi
risponde:" Mia cognata cominciò così! Con il fastidio del caffè!".
"E poi?" incalzai. " E poi si venne a scoprire che aveva un
cancro all'intestino". " E allora?". " Ed io sono circa due
o tre mesi che vedo del sangue nelle feci....". A questo punto il
ragionamento clinico "ortodosso" acquista "dignità" e parte
tutto il percorso previsto per una rettorragia.....
Rettorragia: parola tecnica,
scientifica, ogni medico conosce il valore clinico di questo sintomo, ma è
sempre consapevole di quali siano i vissuti e la comprensione del paziente
rispetto a questo sintomo e la comprensione del medico rispetto a questo
paziente? Quale il significato poi per quel paziente, quale significato nel
nostro caso per Lorenza? Proviamo ad affrontare alcune ipotesi.
Lorenza è una donna di una
cinquantina d'anni, sposata ad un artigiano con un figlio oramai laureato che
vive ancora in casa. Gestisce una piccola lavanderia che la occupa a tempo pieno
e pertanto non capita quasi mai di vederla in ambulatorio ed il suo rapporto
con il mondo sanità è quasi inesistente in quanto per sua fortuna gode di buona
salute.
Ha avuto una cognata che è
deceduta per un carcinoma del colon e " in famiglia" si è consolidata
l'associazione mentale fra questa patologia con l'avversione al caffè, poiché
questo, a dir loro, sarebbe stato il suo sintomo d'esordio. Sono convinto,
questa è quasi una regola, che Lorenza abbia fatto passare diversi giorni prima
di dare importanza al suo rapporto con il caffè che è diventato poi una vera e
propria repulsione "organismica" nel momento in cui si è accorta del
sangue nelle feci che ha scatenato la traccia mnestica. Per un medico,
soprattutto se indaga sui sintomi degli altri e non sui propri, sarebbe stata
la cosa più logica e naturale aspettarsi dalla paziente il riferimento, magari
con parole non scientifiche, ma comunque diretto del sintomo rettorragia, ma
così non è stato. Lorenza ha preferito girarci intorno, perché? Perché ha scelto di
contestualizzare il sintomo in modo tale da dovermi far fare quasi un'esegesi
delle sue immagini mentali? La risposta precisa non l'avremo mai, probabilmente
lo ignora anche lei e pertanto possiamo fare solo alcune illazioni.
Fra tutte le ipotesi che
potrebbero entrare in campo: pudore, scarsa cultura ed altro, quella della
paura potrebbe essere la più probabile. La paura di una malattia incurabile per
qualcuno comporta una vera e propria incapacità, un blocco, quasi una paralisi
ad affrontare il problema anche solo in termini verbali per evitare, poi, anche
quelli operativi di diagnosi e cura. La domanda che poi come medici ci viene
spontanea è quella se con la raccolta di un'anamnesi "tradizionale",
con una serie, cioè, di domande dirette e abbastanza chiuse, ma incalzanti,
saremmo arrivati ugualmente al sintomo rettorragia? Probabilmente si, ma solo
con un atto di coraggio della paziente e probabilmente non subito ma nei
contatti successivi: durante la visita per farmi vedere le analisi o per il
persistere o l'aggravarsi del sintomo. Si sarebbe forse perso del tempo, senza
dubbio avremmo prolungato lo stato di angoscia di Lorenza oppure, l'angoscia
avrebbe prevalso al punto tale che la paura di un’eventuale realtà scomoda
avrebbe ritardato, chissà per quanto tempo ancora, il dover affrontare il
sintomo.
Passiamo ora sul versante
mio, sul versante dell'essere medico e come tale ho gestito o avrei potuto
gestire il problema e i significati del problema di Lorenza.
Ho da poco terminato di
leggere :" Il professionista riflessivo" di Donald A. Schon e ho
trovato molti momenti di riflessione. Dato il titolo non poteva essere
diversamente.
L'autore ha chiarito molto
bene come ad un vero professionista sia necessario per poter affrontare e
risolvere i problemi che si presentano sempre in modo diverso e complesso
mettere in campo una "nuova epistemologia della pratica
professionale".
Schon afferma che il
professionista abile è colui che va oltre il modello della "razionalità tecnica" scientificamente appresa durante la
propria formazione, ma sfrutta e sviluppa dei comportamenti basati
sull'intuizione e sulla creatività. In altre parole si rafforza il concetto che
durante la pratica quotidiana, la risoluzione dei problemi sempre " aggrovigliati e contorti" passa
attraverso una " riflessione durante
l'azione " che sospende il rigore scientifico perché potrebbe non
risultare pertinente per la risoluzione del problema. Bellissima è la
similitudine degli abili professionisti con i bravi musicisti che improvvisano
mentre suonano il Jazz:" ascoltandosi
reciprocamente e ascoltando se stessi, sentono in quale direzione sta andando
la musica e di conseguenza adattano il proprio modo di suonare...
L'improvvisazione consiste nel variare, combinare e ricombinare un insieme di
motivi all'interno dello schema che definisce i limiti dell'esecuzione e le dà
coerenza". Quindi il professionista riflessivo non è un mero esecutore
di schemi scientifici preordinati e stabiliti secondo dei criteri oggettivi, ma
è uno che partecipa attivamente sul problema poiché lo vive e cerca di
comprenderlo. Si comporta di fatto come un agente-sperimentatore in un " processo transazionale,
indeterminato e intrinsecamente sociale".
Quanto è lontano il modello
del medico freddo e volutamente distaccato che ci hanno insegnato all'Università?
Chi mai ci ha insegnato a improvvisare? Chi mai ci ha insegnato a condividere
il vissuto e il significato del problema del paziente?
Chi ci ha mai detto come
raccogliere le descrizioni dei problemi, le descrizioni delle storie dei nostri
pazienti e quale il nostro ruolo e la nostra partecipazione?
Quasi tutti medici, faranno
eccezione gli psichiatri, sono convinti che raccogliere un'anamnesi, parlare e
stare ad ascoltare quello che racconta un paziente sia un fatto
"semplice", monodirezionale: un soggetto narrante che espone la
propria esperienza di malattia ( il paziente) ed uno che ascolta ( il medico).
Pochi si rendono conto, invece, che chi ascolta non è assolutamente passivo, ma
un soggetto che a sua volta partecipa in maniera attiva alla costruzione del
racconto dell'esperienza di malattia.
Non voglio addentrarmi in
considerazioni troppo specifiche su problematiche filosofiche che in questo
momento mi affascinano, ma che non mi sento in grado di poter gestire in modo
adeguato. Tuttavia ritengo che ogni medico, ogni operatore sanitario debba
avere un minimo di consapevolezza che per arrivare alla vera comprensione della
storia, del racconto di un paziente sia necessario partecipare con tutto se
stesso e capire come la malattia risulti alla fine come " un testo"
da interpretare, nel senso ermeneutico del termine, per cui il medico diventa
da semplice ascoltatore ad un co-autore e tutto questo è possibile per mezzo
del linguaggio che pertanto "non
descrive la realtà ma la costruisce" ( Gadamer U.G.)
Lorenza viene in ambulatorio
con il suo carico di angoscia e problemi, io sono lì con i miei problemi e le
mie insofferenze. Lorenza, per paura nel dover affrontare i propri sintomi o
forse anche intimorita dal mio atteggiamento iniziale, offre in maniera timida
il suo problema, io con miei "pregiudizi" sul contesto accetto la sua
offerta e mi apro alla sua comprensione. Attraverso il nostro dialogo
co-costruiamo una realtà ed alla fine io e lei non siamo più quelli di prima,
ma attraverso il linguaggio ed uno scambio empatico siamo riusciti a costruire
un legame e dei percorsi che vanno oltre a quelli professionali di medico e paziente.
Cosa posso dire ora, quando
ogni tanto passo davanti alla mia casa paterna, a quel giovane vestito con il
"principe di galles" e con la borsa che ancora odora di pelle appena
uscita dalla conceria? Non direi niente, un sorriso ed un pensiero:"
Gettati nella mischia e fatti le tue esperienze improvvisando anche e
ascoltando te stesso il più possibile"
Per comprendere
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