LA CURA DEL MEDICO
Sono quasi le 20 e spero di essere finalmente arrivato alla fine di una seduta ambulatoriale che sembrava non terminare mai. Mentre esce l’ultimo paziente che ho appena visitato, do una sbirciatina alla sala d’aspetto e vedo seduto in un angolo, pallido e con lo sguardo fisso al pavimento, F.D. Questo è un collega, medico di famiglia anche lui, che abita vicino al mio studio ma non figura nei miei pazienti. Non lo conosco molto bene anche se siamo coetanei in quanto non partecipa quasi mai agli appuntamenti istituzionali di sindacato o di aggiornamento professionale e frequenta giri amicali diversi dai miei. Entra per ultimo con un’aria molto preoccupata e, senza guardarmi negli occhi e senza un mimino di preambolo, dopo un breve saluto inizia a raccontarmi che sono quasi dieci giorni che lamenta un quadro clinico costituito da tosse secca, febbre che di sera arriva a 38°con poliartralgie, mialgie e astenia. Ha iniziato subito a prendere una compressa ogni 8 ore di amoxicillina con acido clavulanico senza esito, per cui ha iniziato ceftriaxone 2 grammi die, ma con scarsi risultati. Anzi! E’ comparsa una diarrea con feci quasi liquide e una glossite e stomatite veramente fastidiose. Mi confessa che non sa che decisione prendere e prima di ricoverarsi in ospedale avrebbe gradito di “essere visitato da me perché, nonostante ci avesse provato, non era stato in grado da solo di auscultarsi il torace”. Lo visito e non trovo nulla all’esame obiettivo. Cerco di rassicurarlo dicendogli che probabilmente per l’ansia aveva esagerato con gli antibiotici che gli avevano “sconvolto” l’intestino. Non era necessario nessun ricovero e conveniva iniziare ad assumere un macrolide e effettuare eventualmente una radiografia del torace se dopo 72 ore non fosse sfebbrato. Dopo qualche giorno mi telefona per ringraziarmi. Aveva seguito il mio consiglio e ora stava bene e riconosceva che in effetti si “era fatto prendere troppo la mano dall’ansia che noi medici proviamo quando ci ammaliamo”.
Ho voluto raccontare questo episodio, che mi è capitato qualche anno fa, perché abbastanza paradigmatico per introdurre l’argomento che abbiamo affrontato Il 24 novembre u.s.nella sede del nostro ordine professionale in occasione di un interessante convegno dal titolo:” Il medico che cura il medico: la relazione di cura quando il paziente è un medico”. A dire il vero mi sarei aspettato il tutto esaurito, perché il problema è di estrema importanza e ci riguarda da vicino in quanto tutti abbiamo fra i nostri pazienti dei colleghi e a tutti è capitato o capiterà di essere un paziente. Di specifico, poi, sulle modalità di assistere e del prendersi cura dei colleghi in letteratura c’è veramente molto poco, mentre è molto ricca l’offerta di libri, film e racconti di medici che narrano le proprie storie di malattia. Tra queste c’è anche la mia che ho descritto in modo dettagliato nel mio blog (https://tizianoscarponi.blogspot.com/2013/06/questa-volta-e-capitato-me-racconto.html)di cui riporto i passaggi che più mi servono a descrivere i vissuti e le aspettative di un medico che deve essere curato. Tutto è accaduto nel giugno del 1999, all’età di 47 anni allorché mi trovavo a Firenze per fare il docente alla Scuola Europea di Medicina Generale. All’improvviso, di notte, mentre stavo per addormentarmi nel letto dell’albergo: dolore toracico, 118, ospedale Careggi, angioplastica. Mi trovo al mattino “crocefisso” in unità coronarica quando
“Buongiorno, le chiedo scusa, ma devo farle un’ecocardiografia” dice un giovane medico spingendo il carrello con l’ecografo. Rispondo positivamente con lo sguardo, viene tirata la tenda scura alla finestra per fare un po’ di buio per vedere meglio le immagini ed il mio torace viene spalmato con quel gel dove poi viene appoggiata la sonda. Il collega borbotta tra sé e sé, non mi degna di uno sguardo mentre guarda il mio cuore e alla mia domanda se poi vada tanto male mi risponde in maniera evasiva con un giro di parole la cui sintesi è che poteva andare peggio, e va via. ”Poco dopo:” Eccolo il nostro collega ” entra dicendo così un medico di qualche anno più vecchio di me . Insieme ci sono due infermiere che spingono il carrello con le cartelle ed altro. “ Dunque, fai il medico mutualista vero? Allora ti spiego quello che abbiamo fatto…..” Comincia così a farmi una lezione di fisiopatologia coronarica, di cardiologia interventistica come se a me in quel momento importasse qualcosa di quelle informazioni. Probabilmente dovrei dare la sensazione di essere interessato, perché seguita a parlare imperterrito, parla di trombi e di cateteri senza minimante preoccuparsi delle mie emozioni e del mio stato d’animo.Soddisfatto, mi stringe la mano e passa all’altro letto mentre le infermiere mi sorridono dolcemente e lo seguono spingendo il carrello. E pensare che avrei voluto chiedergli tante cose: se ce la potevo fare, che ne sarebbe stato del mio lavoro, della mia famiglia...ma possibile che nessuno si renda conto che in questo momento non sono più un medico, ma semplicemente un essere umano con le proprie ansie ed angosce, con delle richieste normali…che me ne importa sapere dove hanno messo e che tipo di “stent” mi hanno messo?Io voglio sapere se mi sarà più possibile correre per la città a fare le visite domiciliari, se potrò più affrontare la fatica e lo stress delle mie sedute ambulatoriali, se potrò più inquietarmi con i miei figli quando non danno retta, se potrò” più amare mia moglie….
Se dovessi riassumere in una battuta tutto il problema, lo farei cercando di rispondere a questa domanda:” Il rapporto medico-paziente medico è qualcosa di diverso da qualsiasi rapporto medico-paziente? E se si perché?” Ovviamente non ho risposte precise, ma provo a scrivere quello che vedo nella mia esperienza quotidiana, avendo fra i miei pazienti iscritti diversi colleghi appartenenti a quasi tutte le categorie: direttori di clinica, specialisti e medici generali, colleghi in pensione. In teoria il medico dovrebbe essere un paziente modello perché informato e conoscitore delle reciproche aspettative ma se ci chiediamo come sia la sua frequenza in ambulatorio e la sua aderenza alle terapie, il suo rispetto di eventuali follow-up e il riportare i risultati delle analisi e degli accertamenti per discuterli o annotarli in cartella, penso che a queste domande ognuno di noi risponderebbe in modo negativo. Secondo la mia esperienza infatti il collega è un paziente problematico perché tende a fare il self service, è molto insofferente per i tempi di attesa e la burocrazia in genere, raramente discute sulle varie opzioni diagnostiche e terapeutiche, ma soprattutto quasi sempre il suo lavoro viene prima della sua salute.
Molto spesso chi svolge professioni sanitarie parla poco delle proprie condizioni fisiche: una specie di tabù da non infrangere. A lungo è poi esistita una specie di congiura del silenzio per quanto riguarda la salute dei medici e, le indagini epidemiologiche svolte su di loro sono pubblicate con quella specie di ritegno che si addice a chi predica bene e razzola male (1). E’ esperienza quotidiana di noi tutti vedersi come onnipotenti e invulnerabili e l’eventuale malattia costituisce come il contrappasso che ci obbliga a sentirci all’improvviso in una situazione di incertezza e di ansia, tipiche dell’essere paziente. “La competenza diagnostica di un clinico può anche essere eccellente, eppure, se egli tenta di occuparsi da solo della propria salute, può giungere a delle conclusioni sbagliate con un senso dell’urgenza falsato o sottovalutato a causa dell’ansia” (2)
Quali sono gli errori da evitare? “E’ inutile che chieda a me, lui sa benissimo che cosa si deve fare in questi casi”, evitando così di assumersi la responsabilità della cura. Trattare il collega come un perfetto paziente estraneo a cui non si spiega nulla, che non viene messo al corrente del suo stato, anche della prognosi “ tanto lo capisce da solo”. Il medico che cura un collega non ha di fronte un paziente come un altro; ha un paziente tecnicamente più consapevole, ma emotivamente coinvolto come chiunque altro. E’ necessario quindi un atteggiamento di parità per quanto riguarda l’informazione, ma particolarmente attento per quanto riguarda la presa in carico delle emozioni la cui esistenza viene spesso più o meno coscientemente misconosciuta. Attenzione anche nel dire :” So cosa prova!” infatti si pronuncia un’approssimazione, di cui ci si rende conto quando a nostra volta malati, ci sentiamo dire la stessa frase. Pertanto la propria malattia, se pur con tutto il suo dolore e dramma, per il medico può costituire anche un momento di consapevolezza professionale, cioè una palestra di significati:” Il dolore atterrisce oppure rivoluziona” dice la mia amica Scardicchio nella sua ultima fatica (3).
Come al solito non ho detto nulla che già anticamente non sia stato già detto, già nella notte dei tempi. La prima figura che incontriamo,infatti, che abbia a che fare con l’attività medica è quella del centauro Chirone. Chi era Chirone? Egli era il più sapiente e il più buono dei Centauri ( creature abitanti dei boschi, su cui corpi di cavallo, al posto del collo, erano attaccati tronchi umani) e per questo era detto anche “dalla doppia natura”. In lui si riassumeva infatti la natura animale: il corpo e l’istinto e quella umana: la psiche, lo spirito. Venne ferito per errore da Ercole con una freccia avvelenata che gli procurò dolori e tormenti indescrivibili e questo lo costrinse a provare e studiare terapie e cure, da qui la sua arte terapeutica, senza successo però nel suo caso.. Il mito, quindi, pone l’accento sul paradosso di un guaritore, ferito a sua volta, che non riesce a guarire se stesso, sottolineando così la grandezza ed il limite della nostra attività terapeutica. Jung da Chirone ha ripreso l’archetipo del guaritore ferito: l’archetipo racchiude in sé due polarità opposte, in Chirone infatti si compenetrano medico e paziente, guaritore e ferito. E’ un grande medico poiché conosce la propria ferita che simbolicamente lo unisce al mondo dei malati. Chirone non studia la malattia dell’altro, ma la riconosce.
Il nostro Centauro Chirone non potendo sopportare più il dolore e la sofferenza vuole morire, ma essendo immortale in quanto semidio deve chiedere l’intervento di Zeus il quale lo accontenta scambiando la sua immortalità con quella di Prometeo.
Ma poteva un guaritore della sua portata finire così? Senza lasciare una traccia tangibile? Assolutamente no, allora viene trasformato nella costellazione di centauro e così ancora oggi qualsiasi mortale può osservarlo mentre splende nel cielo.
BIBLIOGRAFIA
1)Forsythe M et al. Doctors as patient: postal survey examining consultants and general practitioners adherence to guidelines. BMJ 1999; 319: 605.
O' Connor M et al. Do doctors benefit from their profession? A survey of medical practitioner's health promotion and health safety practices. Irish Medical Journal 1998; 91
2)Marsh B.T. Fare il paziente. In: Il medico quasi perfetto. Roma: Pensiero Scientifico, 1988.
3)A.C.Scardicchio in “La ferita che cura : dolore e sua possibile collaterale
bellezza” 2018 Anima Mundi Ed.
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