I NOSTRI ADOLESCENTI
Una PLS mi telefona dicendo che ha un problema con la figlia di due miei assistiti: C.M. di 12 anni. Questa si presenta continuamente in ambulatorio, accompagnata solo ed esclusivamente dalla madre, lamentando cefalea e dolori addominali oltre a presentare un quadro di timidezza quasi patologica e uno scarso rendimento e inserimento scolastico. Alla fine di ogni visita la mamma manifesta però un’unica preoccupazione: non far sapere nulla al marito, altrimenti questo “si arrabbia”. La collega pertanto mi chiede che tipo sia questo genitore, perché ha anche il sospetto che qualche volta arrivi a malmenare moglie e figlia e pertanto aveva l’intenzione di allertare i servizi sociali. Il padre di C.M. è stato uno dei miei primi pazienti all’inizio della mia carriera. Aveva 18 anni quando mi scelse come medico in una delle mie prime sostituzioni del suo vecchio curante che seguitò invece a prendersi cura di tutto il resto della sua famiglia. Questo è sempre stato definito da chi lo conosce nel quartiere, un gran lavoratore ma una “testa calda”, sempre molto irascibile e pronto alle discussioni tant’è che nel tempo ha litigato con quasi tutti i parenti e i vicini di casa. Con me, però, ha sempre avuto un comportamento tranquillo e in quelle poche volte che è venuto a studio per dei piccoli problemi di salute, eravamo soliti scambiarci le nostre storie di come eravamo scampati, ognuno per la propria generazione, al bullismo che imperava nel rione dove eravamo cresciuti. Una volta sposato ha avuto tre figli di cui C.M. è la più piccola, nata a distanza dai primi due fratelli. Dopo le parole della pediatra non ho fatto altro che convocarlo con la moglie, raccontargli tutto e avvisarlo che se la collega mi avesse riferite il perdurare di questa situazione saremmo stati costretti a mettere in discussione per via giudiziaria il suo ruolo di padre ma che io, prima, avrei anche avuto la voglia di “mettergli giudizio” come si faceva una volta nel nostro rione. Sarà stato un caso, sarà stato perché la mamma aveva capito che aveva degli alleati, ma da allora C.M. ha smesso di soffrire di mal di testa e di pancia, è diventata meno timida anche se il rendimento scolastico ha lasciato sempre desiderare. Attualmente ha più di 20 anni, fa la commessa da qualche parte e l’ultima volta che è venuta a studio mi ha presentato il suo fidanzato.
Che cosa possiamo imparare da questa vicenda pur nella sua apparente semplicità? La definisco semplicità apparente perché se la pediatra non avesse sentito l’esigenza di contattarmi e cercare di mettere in campo il mio patrimonio di conoscenza della famiglia, gli sviluppi del problema forse avrebbero potuto prendere una piega completamente diversa: con l’intervento delle assistenti sociali e forse del tribunale dei minori avremmo avuto un il probabile aumento della conflittualità e della sofferenza di tutto il nucleo familiare.
Che cosa sarebbe di più semplice far transitare le informazioni fra pediatra e medico di medicina generale? Cosa costerebbe mai consultarsi fra di noi quando ci troviamo a dover gestire qualche problema complesso? Purtroppo però le cose più semplici sono quelle meno praticate.
Chi si prende cura dell’adolescente? Questa è una domanda ricorrente. Non più il pediatra, non ancora il medico di medicina generale. Agli inizi degli anni ’90 una sezione provinciale della Società Italiana di Medicina Generale fece un’indagine con un questionario distribuito nelle sale d’aspetto dei propri ambulatori, in cui veniva chiesto a quale figura si rivolgessero per la prima richiesta di aiuto per un eventuale problema di salute: l’amico più grande di età era quello più consultato, poi il farmacista, il pediatra e il MG occupavano una posizione piuttosto bassa. Qualcuno dichiarava di essere andato dal medico di un amico per problemi che riteneva importanti. Certamente se lo stesso questionario venisse distribuito ora, il web, la Rete vincerebbe alla grande: informazione rapida, immediata, ma con quanti e quali rischi? Navigando nel web leggo da più parti dell’opportunità di dar vita ad un nuovo specialista: l’adolescentologo. “ …una figura capace di intercettare e prevenire le problematiche di salute specifiche di questa età, una figura che guardi alla persona come un tutt’uno di corpo e psiche, e in cui la psiche, molto spesso, è quella che comanda.” (1)
Io non sono in grado di dire se questa sia la strada giusta da percorrere, ma colgo l’occasione per alcune riflessioni. In questo ultimo periodo della mia vita, spero solo professionale, mi sto interessando all’approccio complesso e sistemico in una cornice costruttivista pertanto non posso fare a meno di concepire o studiare un problema se non in un’ottica di relazioni e contesti.
Un organo fa parte di un corpo che appartiene e è anche una persona, questa vive in una famiglia che a sua volta vive in un contesto sociale che si dà in un certo periodo storico. Di questa relazione con questo periodo storico e con questo contesto sociale fa parte anche la mia persona che co-costruisce insieme all’altro da me il contesto e la narrazione del proprio rapporto medico-paziente. E’ impossibile pertanto riuscire al singolo operatore poter rispondere se non in modo riduzionistico a problemi complessi come quello della gestione del “mondo adolescenza”. Si dovrà pertanto ricorrere ad un approccio multidisciplinare, meglio transdisciplinare, in cui ognuno dovrà dare il proprio contributo.
In quale realtà operativa dovrà essere collocato questo tipo di approccio? Senza dubbio nel territorio, in quelle che dovranno essere considerate delle vere e proprie centrali gestionali della salute, mi riferisco alle cosiddette “ Comunità di Pratica” come sono previste nel Piano Sanitario della Regione dell’Umbria che sta per essere licenziato.”E’ di piena evidenza che la cronicità (e molte altre situazioni dico io) ha le stesse variabili significative di un sistema complesso e la necessità di una visione olistica d’intervento che tenga conto dei bisogni assistenziali, sociali e psicologici della persona. A tal riguardo e al fine di rispondere adeguatamente alla complessità multifattoriale, bisogna utilizzare modelli adeguati alla complessità e attivare politiche centrate sulla persona, rendendo possibile dare risposte di qualità, sicure ed economicamente sostenibili.Nella presa in carico della complessità si sta diffondendo la buona prassi della Comunità di Pratica, come modello inclusivo e partecipativo e definita come un luogo in cui i componenti, che condividono un obiettivo comune, approfondiscono la conoscenza delle problematiche connesse, sono strettamente interconnessi fra loro con rapporti caratterizzati da una forte reciprocità. Le comunità di pratica vanno considerate come aggregazioni informali di limitate dimensioni all’interno di contesti organizzativi formali più ampi e i loro membri condividono modalità di azione e interpretazione della realtà”.
Poiché mi si chiede di andare al di là delle parole faccio questa ipotesi. Ho censito quanto il mio Distretto Sanitario del Perugino offre al momento per i problemi degli adolescenti e giovani adulti: due sportelli consultoriali e uno sportello (SAP) di aiuto psicologico dislocati nelle scuole medie superiori, uno sportello universitario, il progetto YAPS basato sulla metodologia della peereducationsempre nelle scuole medie superiori, progetto YAU per l’educazione sanitaria, progetto COM.PRO sul contrasto dell’uso delle smart drugs. Quanti colleghi sono a conoscenza di queste risorse? Nessuno ha mai pensato di poter metterle in rete? Sarà possibile prevedere che i vari problemi che emergono possano essere indirizzati verso una risoluzione che passi attraverso una transdisciplinarietà di competenze capaci di interagire in un contesto biologico quanto psicologico e sociale?
Sempre nell’ottica di andare al di là delle parole, però, cominciamo intanto noi! Partiamo dalle realtà più facilmente percorribili con delle azioni semplici, ma già importanti. Il passaggio del ragazzo dal PLS al MMG è un momento che molto spesso viene vissuto come un semplice atto burocratico da fare all’ufficio anagrafe sanitaria della ASL, si dovrebbe invece costituire un vero trasferimento di informazioni e di dati che lo specialista ha via via accumulato negli anni e d’altra parte, il patrimonio delle conoscenze del MMG sulla famiglia dovrebbe essere più considerato e usato. Non si dovrebbe esitare, poi, difronte a dei problemi che coinvolgono tutta la famiglia, a prevedere un intervento simultaneo, ma per fare questo dovremmo essere preparati per cui, uno sforzo formativo integrato dovrebbe essere previsto, come dovrebbe essere prevista una modalità di comunicazione dei PLS con le neonate Aggregazioni Funzionali Territoriali della Medicina Generale.
Nel 2009 Wonca organizzò a Roma un workshop dal titolo “L’assistenza alla famiglia. Il rapporto fra Pediatra di famiglia e Medico di Medicina Generale: discontinuità, contiguità o progetto condiviso?”. Al termine dei lavori è stato prodotto un documento di consenso finale che indicava le aree su cui si riteneva necessario continuare a fare una riflessione che portasse ai miglioramenti delle cure primarie auspicati nel workshop. Nel 2015 il direttivo di Wonca Italia decide di iniziare ad elaborare una scheda con un minimo di data set che il pediatra deve compilare al momento del passaggio in cura del ragazzo al MG, sono state sperimentate in una ASL della Brianza e da un gruppo di pediatri veneti, speriamo che prima o poi questa scheda venga istituzionalizzata rendendola anche informatizzata.
Voglio concludere citando il grande Paul Watzlawick che ci ricorda come la nostra comunicazione o non comunicazione costruisca sempre una realtà :“Comunque ci si sforzi, non si può non comunicare. L'attività o l'inattività, le parole o il silenzio hanno tutti valore di messaggio: influenzano gli altri e gli altri, a loro volta, non possono non rispondere a queste comunicazioni e in tal modo comunicano anche loro.”
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