Anziani, medicina generale, medicina della complessità
Elderly, general medicine, complexity medicine
Tiziano Scarponi
Sono oramai quasi 40 anni che mi prendo
cura dei miei pazienti come medico di famiglia.
Ogni mattina quando attraverso la sala
d’aspetto del mio studio li passo in rassegna
come fa un capitano con i propri soldati. Li
riconosco tutti, uno dopo l’altro: il mio
Danilo, la mia Antonia, la mia Elide, il mio
Tommaso....... Con tanti abbiamo combat-
tuto insieme molte battaglie e siamo oramai dei veterani. Ci intendiamo al volo,
basta uno sguardo e cominciano a raccontare storie, ognuno la propria... storie di dolore... di vita vissuta. Sono storie lunghe,
interminabili, a volte ripetitive, perché sono
storie di vecchi.
Questa breve narrazione rappresenta fedelmente i frequentatori abituali degli ambulatori dei medici di medicina generale: gli
anziani.
Mi trovo in difficoltà nell’affrontare quest’argomento perché mentre sto scrivendo, la
mia mente si affolla di immagini e di sensazioni che non permettono di esprimermi in maniera pacata e scientifica. Qualche
parte di me, senza dubbio, si sente oramai
coinvolta. E’ facile parlare di qualcosa o di
quel problema per te lontano, ma come quel
qualcosa e quel problema cominciano a sfiorarti, anzi cominciano a permearti e a farti
sentire parte di quella categoria, allora risulta sempre più difficile categorizzare ed
essere oggettivamente riduzionisti, ma ci
proverò.
Non è mia intenzione affrontare il problema della prevenzione della disabilità, della
differenza semantica fra vecchio e anziano e
quelle che sono le norme generali d’igiene,
di corretti stili di vita che di solito rimandano a una vecchiaia più fisiologica possibile. Senza dubbio sarebbe in linea con la filo-
sofia di questa rivista, ma colleghi e figure
molto più qualificate della mia probabilmente lo faranno, quello che a me preme è
far emergere cosa significhi oggi per un
medico di medicina generale prendersi cura
degli anziani.
Subito dopo la laurea, appena cominciano i primi contatti con i malati, qualsiasi medico inizia a tirar fuori dalla propria mente
tutte quelle categorie, chiamate malattie,
apprese durante il proprio corso universitario. Con queste stesse lavora, nel senso che
cerca tutte le corrispondenze di queste con
quello che osserva o viene riferito: questo è
pertinente, questo non è pertinente, anzi
questo è proprio impertinente. L’obiettivo
è di una diagnosi e conseguentemente di una
terapia. Il nostro giovane medico, però, si
rende presto conto che questo metodo non
lo aiuta più di tanto, soprattutto se si trova
a lavorare fuori dall’ambiente “protetto”
dell’Ospedale e con pazienti che sono pieni
di affermazioni non “congruenti” con le categorie apprese durante gli studi universitari. Più si va avanti e più il Nostro deve
districarsi tra storie e narrazioni di dolori
non ben inquadrabili, racconti di paure e di
sogni, di fallimenti esistenziali e di traguardi raggiunti. Ben presto si rende conto che
il diabete, l’ipertensione, il cancro erano una
cosa mentre ora, il diabetico, l’iperteso ed
il paziente neoplastico sono un’altra cosa e
se poi tutte quante queste cose abitano tutte insieme in un unico individuo si crea ancora un’altra cosa.
Quello che intendo dire è che il paziente
anziano oggi ha determinato il capovolgimento di quasi tutti i paradigmi che hanno
inspirato, sino a pochi decenni fa, tutta la
scienza medica e la modalità assistenziale,
anzi, l’anziano rappresenta oggi il paradigma: il paradigma della complessità.
La complessità è oramai la realtà quotidiana. Una realtà che sta imponendo il dover
riscrivere cosa significhi fare il medico e
prendersi cura oggi, anche se non si tratta
di una rivoluzione, ma di una naturale evoluzione.
Non ci sono più, infatti, i malati di una volta con un’età media di 50 anni, con un’unica o
al massimo due patologie, ossequiosi e quasi
timorosi nei confronti di medici ed infermieri. Ora il paziente medio ha oltre i settanta anni di età, è acculturato per studi o
almeno ben informato sui suoi diritti, è
portatore di più patologie contemporaneamente e con molteplici possibilità terapeutiche da poter esperire. Anche il concetto
di salute è ontologicamente cambiato: non
più l’assenza di malattia, ma una soggettiva percezione di benessere e sufficiente fun-
zionalità di se stessi nel proprio ambiente.
In altre parole il saper convivere con la propria comorbidità anche in relazione ai propri vissuti e alle proprie narrazioni di vita
ed al proprio grado di resilienza. Un approccio complesso, pertanto, manterrà fede all’etimologia stessa della parola, dal latino
complector che significa cingere, abbracciare,
legare, tenere insieme. Complesso, quindi,
non significa complicato, ma un approccio
che tende a legare in modo multidimensionale condizioni morbose diverse tra loro ma
interagenti, che danno un quadro clinico che
non corrisponde alla somma delle parti, ma
ad un quadro clinico unico per quell’individuo e solo per quello. Ne consegue che l’approccio complesso non è solo evidence based
ma anche patient oriented. Nella visione
meccanicistica e riduzionistica, l’uomo ridotto ad organismo, viene smontato in tante
parti, organi, ed ogni malattia corrisponde
ad un guasto di quell’organo che deve essere aggiustato e poi rimontato. In una visione complessa, invece, l’umano è visto come
una quantità di sistemi interagenti ed interferenti fra loro in modo auto-regolante e
che tende ad un equilibrio omeostatico difronte alle varie perturbazioni che si presentano nel tempo. E’ logico pertanto che
durante il divenire del sistema, ci saranno dei cambiamenti, degli aggiustamenti che
porteranno a livelli di complessità crescente pur mantenendo i livelli di coerenza del
sistema stesso e “... la maturazione di questo
nuovo approccio ha come conseguenza l’evoluzione da un modello di medicina basata sulle evidenze, di tipo essenzialmente “reattivo”, a una
medicina pro-attiva, basata sull’individuazione dell’intera rete di relazioni che comporta
l’espressione nel tempo delle varie manifestazioni
patologiche e sull’inclusione degli effetti dell’interazione e perturbazione reciproca tra medico e
paziente nella costruzione della cura.
Appare evidente, a questo livello di osservazione, che l’intervento terapeutico è mirato alle proprietà organizzative dei sistemi complessi che
esprimono coerenze di “salute” o “malattia” e
diventa essenzialmente preventivo...” (C. Pri-
stipino 2013).
Questa visione del prendersi cura di un soggetto, comporta a dover considerare e a
“modellizzare” oltre che i determinanti biologici e psichici di una malattia, anche le
relazioni e le interazioni dinamiche che questi determinanti possono avere, le loro connessioni e l’importanza che hanno nel condizionare lo stato di salute di un individuo.
Tutto questo con l’obiettivo di stratificare
una strategia di assistenza per quanto più
possibile unitaria, passando da un modello
di medicina impersonale centrata sulla singola malattia ad un modello centrato sul
malato su cui l’intervento del medico e del
sistema sanitario e sociale è quello dell’induzione di nuove relazioni e interazioni che
tendano a favorire l’equilibrio omeostatico.
Ecco pertanto che il medico con la sua relazione diventa parte integrante della cura
stessa ed anche il paziente non è più solo un
obbediente ai dettami o ai consigli dei pro-
pri curanti, ma diventa protagonista attivo
nel mantenimento del proprio stato di sa-
lute. Qualcuno (Hood, L., and Flores, M,
2012) ha definito questo tipo di medicina
“P4 medicine” perché basata su 4 concetti:
predizione, prevenzione, personalizzazione
e partecipazione. Predittiva perché permette di prevedere a quali rischi patologici un
individuo possa andare incontro e quale sia
la medicina migliore sfruttando tutte le
possibilità che la System Biology possa offrire: genomica predittiva e farmacogenomi-
ca, studio dei fenotipi complessi. Preventiva significa mettere in atto tutti quegli
interventi relazionali e di sistema che mantengano o generino salute secondo anche
quelle che sono gli intendimenti e gli obiettivi del paziente partendo anche da una diagnostica “omica”. Personalizzata sta per
la reale possibilità di tarare la cura su quella
persona partendo dalla sua storia le sue relazioni e le sue caratteristiche genetiche,
genomiche e biochimiche. Partecipata,
questo è un aspetto basilare. Una partecipazione attiva e di reciprocità fra medico e
paziente che possa far sviluppare l’empower-
ment, quindi l’autoconsapevolezza e l’autogestione.
Come si traducono nella pratica quotidiana
questi concetti? Partendo da questi presupposti, a questo punto, diventa inevitabile
dover affrontare l’argomento complessità dal
punto di vista organizzativo e di “sistema”
assistenza. Qui, però, mi fermo alla definizione dei principi basilari. La realizzazione
di percorsi diagnostici assistenziali che garantiscano: un approccio proattivo, una gestione integrata, coordinata, multiprofessionale e la continuità assistenziale ospedale-
territorio.
E’ ovvio che a causa della continua evoluzione dell’approccio complesso da un punto
di vista scientifico ed attuativo, risulta quasi
impossibile proporre dei modelli gestionali consolidati e collaudati.
Per il territorio stiamo aspettando i risultati dell’esperienza dell’Expanded Chronic Care
Model della regione Toscana, mentre per
quello che riguarda l’area ospedaliera sono
oramai in via di consolidamento tutte le
varie realtà degli ospedali organizzati per
intensità di cura, modellizzati cioè sui livelli di instabilità clinica e di complessità
assistenziale e non più sulle discipline scientifiche.
Il sistema delle cure intermedie, che a mio
giudizio è la parte a più alta densità di pazienti anziani, costituisce ancora una nebulosa: ospedale di Comunità, nuclei di Cure
Primarie, Case della Salute, Medicina di
Rete ed altre ipotesi che riflettono sia la
creatività progettuale che le risorse e le in-
frastrutture presenti in una realtà territoriale. Non mi sento pertanto in grado di
indicare un modello preciso e unico e probabilmente così dovrà essere, in quanto assisteremo probabilmente alla coesistenza di più strutture differenziate secondo una modulazione dell’intensità di cura ed assistenza.
Voglio chiudere con un’esortazione. E’ chiaro che tutto questo ripensamento del prendersi cura rimanda alla consapevolezza dell’impossibilità di proseguire sulla strada di
un’assistenza organocentrica, pena l’implosione di tutto il sistema sanitario che occupa
una discreta parte del sistema salute. Sia altrettanto chiaro, uso il congiuntivo esortativo di proposito, a noi medici in generale, ma
soprattutto a noi medici di famiglia in particolare che tale mutazione epistemologica non
sarà del tutto indolore, dovremo prevedere
un cambiamento dei nostri comportamenti
e competenze, in particolare dovremo imparare a ragionare in un’ottica di sistema e
smettere di relazionarci con i pazienti definendoli “nostri”, trincerandosi magari inconsapevolmente dietro l’alibi di un olismo uni-
direzionale, ma nei nostri confronti. Dovrò
abituarmi a non considerare più miei: Danilo, Antonia, Elide, Tommaso....
Anziani, medicina generale, medicina della complessità
Elderly, general medicine, complexity medicine
Elderly, general medicine, complexity medicine
Tiziano Scarponi
Sono oramai quasi 40 anni che mi prendo
cura dei miei pazienti come medico di famiglia.
Ogni mattina quando attraverso la sala d’aspetto del mio studio li passo in rassegna come fa un capitano con i propri soldati. Li riconosco tutti, uno dopo l’altro: il mio Danilo, la mia Antonia, la mia Elide, il mio Tommaso....... Con tanti abbiamo combat- tuto insieme molte battaglie e siamo oramai dei veterani. Ci intendiamo al volo, basta uno sguardo e cominciano a raccontare storie, ognuno la propria... storie di dolore... di vita vissuta. Sono storie lunghe, interminabili, a volte ripetitive, perché sono storie di vecchi.
Questa breve narrazione rappresenta fedelmente i frequentatori abituali degli ambulatori dei medici di medicina generale: gli anziani.
Mi trovo in difficoltà nell’affrontare quest’argomento perché mentre sto scrivendo, la mia mente si affolla di immagini e di sensazioni che non permettono di esprimermi in maniera pacata e scientifica. Qualche parte di me, senza dubbio, si sente oramai coinvolta. E’ facile parlare di qualcosa o di quel problema per te lontano, ma come quel qualcosa e quel problema cominciano a sfiorarti, anzi cominciano a permearti e a farti sentire parte di quella categoria, allora risulta sempre più difficile categorizzare ed essere oggettivamente riduzionisti, ma ci proverò.
Ogni mattina quando attraverso la sala d’aspetto del mio studio li passo in rassegna come fa un capitano con i propri soldati. Li riconosco tutti, uno dopo l’altro: il mio Danilo, la mia Antonia, la mia Elide, il mio Tommaso....... Con tanti abbiamo combat- tuto insieme molte battaglie e siamo oramai dei veterani. Ci intendiamo al volo, basta uno sguardo e cominciano a raccontare storie, ognuno la propria... storie di dolore... di vita vissuta. Sono storie lunghe, interminabili, a volte ripetitive, perché sono storie di vecchi.
Questa breve narrazione rappresenta fedelmente i frequentatori abituali degli ambulatori dei medici di medicina generale: gli anziani.
Mi trovo in difficoltà nell’affrontare quest’argomento perché mentre sto scrivendo, la mia mente si affolla di immagini e di sensazioni che non permettono di esprimermi in maniera pacata e scientifica. Qualche parte di me, senza dubbio, si sente oramai coinvolta. E’ facile parlare di qualcosa o di quel problema per te lontano, ma come quel qualcosa e quel problema cominciano a sfiorarti, anzi cominciano a permearti e a farti sentire parte di quella categoria, allora risulta sempre più difficile categorizzare ed essere oggettivamente riduzionisti, ma ci proverò.
Non è mia intenzione affrontare il problema della prevenzione della disabilità, della
differenza semantica fra vecchio e anziano e
quelle che sono le norme generali d’igiene,
di corretti stili di vita che di solito rimandano a una vecchiaia più fisiologica possibile. Senza dubbio sarebbe in linea con la filo-
sofia di questa rivista, ma colleghi e figure
molto più qualificate della mia probabilmente lo faranno, quello che a me preme è
far emergere cosa significhi oggi per un
medico di medicina generale prendersi cura
degli anziani.
Subito dopo la laurea, appena cominciano i primi contatti con i malati, qualsiasi medico inizia a tirar fuori dalla propria mente tutte quelle categorie, chiamate malattie, apprese durante il proprio corso universitario. Con queste stesse lavora, nel senso che cerca tutte le corrispondenze di queste con quello che osserva o viene riferito: questo è pertinente, questo non è pertinente, anzi questo è proprio impertinente. L’obiettivo è di una diagnosi e conseguentemente di una terapia. Il nostro giovane medico, però, si rende presto conto che questo metodo non lo aiuta più di tanto, soprattutto se si trova a lavorare fuori dall’ambiente “protetto” dell’Ospedale e con pazienti che sono pieni di affermazioni non “congruenti” con le categorie apprese durante gli studi universitari. Più si va avanti e più il Nostro deve districarsi tra storie e narrazioni di dolori non ben inquadrabili, racconti di paure e di sogni, di fallimenti esistenziali e di traguardi raggiunti. Ben presto si rende conto che il diabete, l’ipertensione, il cancro erano una cosa mentre ora, il diabetico, l’iperteso ed il paziente neoplastico sono un’altra cosa e se poi tutte quante queste cose abitano tutte insieme in un unico individuo si crea ancora un’altra cosa.
Subito dopo la laurea, appena cominciano i primi contatti con i malati, qualsiasi medico inizia a tirar fuori dalla propria mente tutte quelle categorie, chiamate malattie, apprese durante il proprio corso universitario. Con queste stesse lavora, nel senso che cerca tutte le corrispondenze di queste con quello che osserva o viene riferito: questo è pertinente, questo non è pertinente, anzi questo è proprio impertinente. L’obiettivo è di una diagnosi e conseguentemente di una terapia. Il nostro giovane medico, però, si rende presto conto che questo metodo non lo aiuta più di tanto, soprattutto se si trova a lavorare fuori dall’ambiente “protetto” dell’Ospedale e con pazienti che sono pieni di affermazioni non “congruenti” con le categorie apprese durante gli studi universitari. Più si va avanti e più il Nostro deve districarsi tra storie e narrazioni di dolori non ben inquadrabili, racconti di paure e di sogni, di fallimenti esistenziali e di traguardi raggiunti. Ben presto si rende conto che il diabete, l’ipertensione, il cancro erano una cosa mentre ora, il diabetico, l’iperteso ed il paziente neoplastico sono un’altra cosa e se poi tutte quante queste cose abitano tutte insieme in un unico individuo si crea ancora un’altra cosa.
Quello che intendo dire è che il paziente
anziano oggi ha determinato il capovolgimento di quasi tutti i paradigmi che hanno
inspirato, sino a pochi decenni fa, tutta la
scienza medica e la modalità assistenziale,
anzi, l’anziano rappresenta oggi il paradigma: il paradigma della complessità.
La complessità è oramai la realtà quotidiana. Una realtà che sta imponendo il dover riscrivere cosa significhi fare il medico e prendersi cura oggi, anche se non si tratta di una rivoluzione, ma di una naturale evoluzione.
Non ci sono più, infatti, i malati di una volta con un’età media di 50 anni, con un’unica o al massimo due patologie, ossequiosi e quasi timorosi nei confronti di medici ed infermieri. Ora il paziente medio ha oltre i settanta anni di età, è acculturato per studi o almeno ben informato sui suoi diritti, è portatore di più patologie contemporaneamente e con molteplici possibilità terapeutiche da poter esperire. Anche il concetto di salute è ontologicamente cambiato: non più l’assenza di malattia, ma una soggettiva percezione di benessere e sufficiente fun- zionalità di se stessi nel proprio ambiente. In altre parole il saper convivere con la propria comorbidità anche in relazione ai propri vissuti e alle proprie narrazioni di vita ed al proprio grado di resilienza. Un approccio complesso, pertanto, manterrà fede all’etimologia stessa della parola, dal latino complector che significa cingere, abbracciare, legare, tenere insieme. Complesso, quindi, non significa complicato, ma un approccio che tende a legare in modo multidimensionale condizioni morbose diverse tra loro ma interagenti, che danno un quadro clinico che non corrisponde alla somma delle parti, ma ad un quadro clinico unico per quell’individuo e solo per quello. Ne consegue che l’approccio complesso non è solo evidence based ma anche patient oriented. Nella visione meccanicistica e riduzionistica, l’uomo ridotto ad organismo, viene smontato in tante parti, organi, ed ogni malattia corrisponde ad un guasto di quell’organo che deve essere aggiustato e poi rimontato. In una visione complessa, invece, l’umano è visto come una quantità di sistemi interagenti ed interferenti fra loro in modo auto-regolante e che tende ad un equilibrio omeostatico difronte alle varie perturbazioni che si presentano nel tempo. E’ logico pertanto che durante il divenire del sistema, ci saranno dei cambiamenti, degli aggiustamenti che porteranno a livelli di complessità crescente pur mantenendo i livelli di coerenza del sistema stesso e “... la maturazione di questo nuovo approccio ha come conseguenza l’evoluzione da un modello di medicina basata sulle evidenze, di tipo essenzialmente “reattivo”, a una medicina pro-attiva, basata sull’individuazione dell’intera rete di relazioni che comporta l’espressione nel tempo delle varie manifestazioni patologiche e sull’inclusione degli effetti dell’interazione e perturbazione reciproca tra medico e paziente nella costruzione della cura.
La complessità è oramai la realtà quotidiana. Una realtà che sta imponendo il dover riscrivere cosa significhi fare il medico e prendersi cura oggi, anche se non si tratta di una rivoluzione, ma di una naturale evoluzione.
Non ci sono più, infatti, i malati di una volta con un’età media di 50 anni, con un’unica o al massimo due patologie, ossequiosi e quasi timorosi nei confronti di medici ed infermieri. Ora il paziente medio ha oltre i settanta anni di età, è acculturato per studi o almeno ben informato sui suoi diritti, è portatore di più patologie contemporaneamente e con molteplici possibilità terapeutiche da poter esperire. Anche il concetto di salute è ontologicamente cambiato: non più l’assenza di malattia, ma una soggettiva percezione di benessere e sufficiente fun- zionalità di se stessi nel proprio ambiente. In altre parole il saper convivere con la propria comorbidità anche in relazione ai propri vissuti e alle proprie narrazioni di vita ed al proprio grado di resilienza. Un approccio complesso, pertanto, manterrà fede all’etimologia stessa della parola, dal latino complector che significa cingere, abbracciare, legare, tenere insieme. Complesso, quindi, non significa complicato, ma un approccio che tende a legare in modo multidimensionale condizioni morbose diverse tra loro ma interagenti, che danno un quadro clinico che non corrisponde alla somma delle parti, ma ad un quadro clinico unico per quell’individuo e solo per quello. Ne consegue che l’approccio complesso non è solo evidence based ma anche patient oriented. Nella visione meccanicistica e riduzionistica, l’uomo ridotto ad organismo, viene smontato in tante parti, organi, ed ogni malattia corrisponde ad un guasto di quell’organo che deve essere aggiustato e poi rimontato. In una visione complessa, invece, l’umano è visto come una quantità di sistemi interagenti ed interferenti fra loro in modo auto-regolante e che tende ad un equilibrio omeostatico difronte alle varie perturbazioni che si presentano nel tempo. E’ logico pertanto che durante il divenire del sistema, ci saranno dei cambiamenti, degli aggiustamenti che porteranno a livelli di complessità crescente pur mantenendo i livelli di coerenza del sistema stesso e “... la maturazione di questo nuovo approccio ha come conseguenza l’evoluzione da un modello di medicina basata sulle evidenze, di tipo essenzialmente “reattivo”, a una medicina pro-attiva, basata sull’individuazione dell’intera rete di relazioni che comporta l’espressione nel tempo delle varie manifestazioni patologiche e sull’inclusione degli effetti dell’interazione e perturbazione reciproca tra medico e paziente nella costruzione della cura.
Appare evidente, a questo livello di osservazione, che l’intervento terapeutico è mirato alle proprietà organizzative dei sistemi complessi che
esprimono coerenze di “salute” o “malattia” e
diventa essenzialmente preventivo...” (C. Pri-
stipino 2013).
Questa visione del prendersi cura di un soggetto, comporta a dover considerare e a “modellizzare” oltre che i determinanti biologici e psichici di una malattia, anche le relazioni e le interazioni dinamiche che questi determinanti possono avere, le loro connessioni e l’importanza che hanno nel condizionare lo stato di salute di un individuo. Tutto questo con l’obiettivo di stratificare una strategia di assistenza per quanto più possibile unitaria, passando da un modello di medicina impersonale centrata sulla singola malattia ad un modello centrato sul malato su cui l’intervento del medico e del sistema sanitario e sociale è quello dell’induzione di nuove relazioni e interazioni che tendano a favorire l’equilibrio omeostatico. Ecco pertanto che il medico con la sua relazione diventa parte integrante della cura stessa ed anche il paziente non è più solo un obbediente ai dettami o ai consigli dei pro- pri curanti, ma diventa protagonista attivo nel mantenimento del proprio stato di sa-
Questa visione del prendersi cura di un soggetto, comporta a dover considerare e a “modellizzare” oltre che i determinanti biologici e psichici di una malattia, anche le relazioni e le interazioni dinamiche che questi determinanti possono avere, le loro connessioni e l’importanza che hanno nel condizionare lo stato di salute di un individuo. Tutto questo con l’obiettivo di stratificare una strategia di assistenza per quanto più possibile unitaria, passando da un modello di medicina impersonale centrata sulla singola malattia ad un modello centrato sul malato su cui l’intervento del medico e del sistema sanitario e sociale è quello dell’induzione di nuove relazioni e interazioni che tendano a favorire l’equilibrio omeostatico. Ecco pertanto che il medico con la sua relazione diventa parte integrante della cura stessa ed anche il paziente non è più solo un obbediente ai dettami o ai consigli dei pro- pri curanti, ma diventa protagonista attivo nel mantenimento del proprio stato di sa-
lute. Qualcuno (Hood, L., and Flores, M,
2012) ha definito questo tipo di medicina
“P4 medicine” perché basata su 4 concetti:
predizione, prevenzione, personalizzazione
e partecipazione. Predittiva perché permette di prevedere a quali rischi patologici un
individuo possa andare incontro e quale sia
la medicina migliore sfruttando tutte le
possibilità che la System Biology possa offrire: genomica predittiva e farmacogenomi-
ca, studio dei fenotipi complessi. Preventiva significa mettere in atto tutti quegli
interventi relazionali e di sistema che mantengano o generino salute secondo anche
quelle che sono gli intendimenti e gli obiettivi del paziente partendo anche da una diagnostica “omica”. Personalizzata sta per
la reale possibilità di tarare la cura su quella
persona partendo dalla sua storia le sue relazioni e le sue caratteristiche genetiche,
genomiche e biochimiche. Partecipata,
questo è un aspetto basilare. Una partecipazione attiva e di reciprocità fra medico e
paziente che possa far sviluppare l’empower-
ment, quindi l’autoconsapevolezza e l’autogestione.
Come si traducono nella pratica quotidiana questi concetti? Partendo da questi presupposti, a questo punto, diventa inevitabile dover affrontare l’argomento complessità dal punto di vista organizzativo e di “sistema” assistenza. Qui, però, mi fermo alla definizione dei principi basilari. La realizzazione di percorsi diagnostici assistenziali che garantiscano: un approccio proattivo, una gestione integrata, coordinata, multiprofessionale e la continuità assistenziale ospedale- territorio.
E’ ovvio che a causa della continua evoluzione dell’approccio complesso da un punto di vista scientifico ed attuativo, risulta quasi impossibile proporre dei modelli gestionali consolidati e collaudati.
Come si traducono nella pratica quotidiana questi concetti? Partendo da questi presupposti, a questo punto, diventa inevitabile dover affrontare l’argomento complessità dal punto di vista organizzativo e di “sistema” assistenza. Qui, però, mi fermo alla definizione dei principi basilari. La realizzazione di percorsi diagnostici assistenziali che garantiscano: un approccio proattivo, una gestione integrata, coordinata, multiprofessionale e la continuità assistenziale ospedale- territorio.
E’ ovvio che a causa della continua evoluzione dell’approccio complesso da un punto di vista scientifico ed attuativo, risulta quasi impossibile proporre dei modelli gestionali consolidati e collaudati.
Per il territorio stiamo aspettando i risultati dell’esperienza dell’Expanded Chronic Care
Model della regione Toscana, mentre per
quello che riguarda l’area ospedaliera sono
oramai in via di consolidamento tutte le
varie realtà degli ospedali organizzati per
intensità di cura, modellizzati cioè sui livelli di instabilità clinica e di complessità
assistenziale e non più sulle discipline scientifiche.
Il sistema delle cure intermedie, che a mio giudizio è la parte a più alta densità di pazienti anziani, costituisce ancora una nebulosa: ospedale di Comunità, nuclei di Cure Primarie, Case della Salute, Medicina di Rete ed altre ipotesi che riflettono sia la creatività progettuale che le risorse e le in- frastrutture presenti in una realtà territoriale. Non mi sento pertanto in grado di indicare un modello preciso e unico e probabilmente così dovrà essere, in quanto assisteremo probabilmente alla coesistenza di più strutture differenziate secondo una modulazione dell’intensità di cura ed assistenza. Voglio chiudere con un’esortazione. E’ chiaro che tutto questo ripensamento del prendersi cura rimanda alla consapevolezza dell’impossibilità di proseguire sulla strada di un’assistenza organocentrica, pena l’implosione di tutto il sistema sanitario che occupa una discreta parte del sistema salute. Sia altrettanto chiaro, uso il congiuntivo esortativo di proposito, a noi medici in generale, ma soprattutto a noi medici di famiglia in particolare che tale mutazione epistemologica non sarà del tutto indolore, dovremo prevedere un cambiamento dei nostri comportamenti e competenze, in particolare dovremo imparare a ragionare in un’ottica di sistema e smettere di relazionarci con i pazienti definendoli “nostri”, trincerandosi magari inconsapevolmente dietro l’alibi di un olismo uni- direzionale, ma nei nostri confronti. Dovrò abituarmi a non considerare più miei: Danilo, Antonia, Elide, Tommaso....
Il sistema delle cure intermedie, che a mio giudizio è la parte a più alta densità di pazienti anziani, costituisce ancora una nebulosa: ospedale di Comunità, nuclei di Cure Primarie, Case della Salute, Medicina di Rete ed altre ipotesi che riflettono sia la creatività progettuale che le risorse e le in- frastrutture presenti in una realtà territoriale. Non mi sento pertanto in grado di indicare un modello preciso e unico e probabilmente così dovrà essere, in quanto assisteremo probabilmente alla coesistenza di più strutture differenziate secondo una modulazione dell’intensità di cura ed assistenza. Voglio chiudere con un’esortazione. E’ chiaro che tutto questo ripensamento del prendersi cura rimanda alla consapevolezza dell’impossibilità di proseguire sulla strada di un’assistenza organocentrica, pena l’implosione di tutto il sistema sanitario che occupa una discreta parte del sistema salute. Sia altrettanto chiaro, uso il congiuntivo esortativo di proposito, a noi medici in generale, ma soprattutto a noi medici di famiglia in particolare che tale mutazione epistemologica non sarà del tutto indolore, dovremo prevedere un cambiamento dei nostri comportamenti e competenze, in particolare dovremo imparare a ragionare in un’ottica di sistema e smettere di relazionarci con i pazienti definendoli “nostri”, trincerandosi magari inconsapevolmente dietro l’alibi di un olismo uni- direzionale, ma nei nostri confronti. Dovrò abituarmi a non considerare più miei: Danilo, Antonia, Elide, Tommaso....
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