Organizzazioni empatiche a geometria
variabile
Ci sono
giornate in cui il ritmo lavorativo è talmente incalzante che è impossibile
lasciare qualche spazio per riflettere e meditare su quello che stai facendo. I
pazienti si susseguono, siedono, parlano, piangono, si alzano e vanno via. Io
li guardo, li ascolto, li osservo, li visito, consiglio e prescrivo. Altre
volte il ritmo è più lento. Gli stessi pazienti ritornano, si siedono di nuovo,
parlano di nuovo......li ascolto, li osservo e mentre raccontano, la mia
riflessione che dovrebbe essere essenzialmente
clinica si trasforma, cambia. La mia attenzione si distoglie dai
sintomi, le parole del paziente cessano di risuonare ed è come se stessi vedendo
un film muto. Vedo gesti, vedo sguardi preoccupati, vedo smorfie e sorrisi,
vedo dolore, vedo vite che si dispiegano e che cercano un aiuto, un avvallo,
una rassicurazione, una speranza.
Il primario
dell'ospedale toscano dove ho avuto la mia prima esperienza di lavoro ripeteva
sempre:" Il bravo medico è quello che nel mare delle sciocchezze che il
paziente ti racconta è in grado di pescare quelle due o tre parole bone che ti indirizzano verso la diagnosi".
Mio caro
primario! Non nascondo che per un po' di tempo, forse anche troppo lungo, ti ho
dato retta. Tutto quello che il paziente diceva, veniva preso da me con le
" molle", veniva in un certo qual modo tutto filtrato e passato al
vaglio del parametro clinico e scientifico con l'unico obiettivo di una
diagnosi, ma ben presto mi sono accorto che, se questo è indispensabile, è
altrettanto vero che non è tutto. In ospedale forse e per un problema acuto, un
approccio riduzionistico ha una sua logica ed una sua funzione indiscussa, ma
nel territorio, per la patologia cronica
la musica cambia e devono essere suonati strumenti diversi.
Quante
volte mentre ascolto le narrazioni dei miei pazienti, la mia mente si ferma a
considerare e a riflettere su quanta discrepanza esista fra come "dovrebbe
essere" una malattia e come invece i pazienti la vivono e la raccontano. Com’è
possibile che Mario che presenta un quadro radiologico di una colonna
vertebrale disastrata mi dice con tranquillità che:" Si, dottore, ho
qualche doloretto, ma alla mia età è più che normale!". Antonia invece che
ha un rachide perfetto, sta sempre a marcare visita perché non ne può più dai
dolori.
Riccardo di
91 anni pretende di ripetere dopo due mesi il dosaggio del PSA che non arriva a
1 ng/ml, Paolo di 53 anni, invece, con un valore di 6,23 ng/ml non ne vuole
sapere di approfondire il problema. C'è poi Luisa che viene a torturarmi quasi
settimanalmente per ogni minima "macchiolina" della pelle mentre
Sergio viene a farmi vedere le gambe perché " gli danno prurito" da
qualche mese e mi offre in visione un quadro di dermatite pustolosa la cui
vista mi rovina la giornata. Perché queste differenze? E' possibile trovare delle
risposte adeguate per tutti? Risposte che sappiano coniugare scientificità con
il " prendersi cura" in maniera personalizzata senza essere invadenti o sfuggenti?
Ho appena
finito di leggere un breve saggio della Collana dei Quaderni della Complessità:
"Arrivederci
salute, a presto" dei colleghi medici di famiglia Stefano Ivis e Maria
Assunta Longo e della psicologa Alessandra Mattiola. Le pagine non sono tante,
ma gli stimoli e le sollecitazioni invece sono tantissime. Partendo da alcune
storie vere e esaminando la criticità del sistema sanitario attuale, gli autori
si pongono l'obiettivo di "diminuire
il divario esistente sul tema della salute tra vita reale e vita virtuale,
intesa non come illusoria o fantastica ma ideale e possibile". Preso
atto della differenza fra medicina ospedaliera e territoriale e del decreto
Balduzzi che dà l'avvio alla riorganizzazione delle cure primarie, della
crescente complessità che sta investendo i sistemi sanitari, gli Autori
propongono un modello teorico-pratico flessibile chiamato
" organizzazione empatica a geometria
variabile".
Ricordo che a geometria variabile in
ingegneria meccanica si definisce un motore capace di regolare la potenza e i
consumi a seconda delle necessità. Tale modello, a bassa gerarchia, si adatterebbe
bene al contesto socio-economico italiano del momento e il suo strumento
operativo peculiare è quello dell'ascolto attivo sia in chiave di rapporto
medico e paziente che in chiave organizzativa." Nelle organizzazioni empatiche infatti l'intreccio dell'aspetto
relazionale e operativo è un obiettivo primario
esplicito........L'organizzazione empatica in modo congruente si prende cura a
360° di tutti gli attori, favorendo le capacità di ascolto e di problem solving
dei suoi professionisti, riconoscendo così il benessere/malessere lavorativo e
la soddisfazione /insoddisfazione di tutti. In una dimensione ecologica, i
sistemi assistenziali sanitari e sociali diventano sostenibili se sobri. Le
organizzazioni che ascoltano e dedicano tempo all'aspetto educativo rendono gli
utenti più soddisfatti e competenti, in grado di ricorrere all'organizzazione
giusta al momento giusto. Indispensabili sono le abilità a riconoscere il
bisogno, a creare trasparenza informativa, a valorizzare le buone pratiche di
try & learn ( prova & impara).
Ovviamente
ci troviamo difronte a un modello organizzativo di cui sono stati ipotizzati i
principi generali e pertanto dovrà esserne studiata e sperimentata l'applicabilità
e la riproducibilità nei vari contesti territoriali e solo dopo potremo
valutarne gli indicatori e quindi gli esiti.
La
filosofia di partenza, però, è di indiscusso valore.
Mentre sto scrivendo mi ritorna di nuovo in
mente il mio primario toscano a cui erano sufficienti tre parole bone per ipotizzare una diagnosi, ma,
aggiungo io ,non certo per "comprendere" il paziente, per focalizzare la sua e la propria weltanschauung. Anzi, se a distanza di
quasi quaranta anni, vado a rivisitare le immagini di quello che accadeva in
quell'ospedale, mi vengono i brividi a ricordare volti, episodi, persone
"comprese" dalla "visione del mondo" di quel primario di
cardiologia: sportelli dei comodini del letto dei pazienti aperti con una
brusca manata e senza permesso per cercare cibarie e dolciumi, le prove insomma
del mancato raggiungimento dei giusti valori
di glicemia e colesterolo. Infermieri e noi medici giovani terrorizzati se non
capivamo " al volo" quello che lui pensava, ma soprattutto il tono
autoritario e i berci nell'
apostrofare i pazienti per i loro stili di vita o la loro non aderenza ai
consigli o prescrizioni terapeutiche. Mio caro primario, da te ho senza dubbio
imparato molto per fare una diagnosi corretta, per impostare una metodologia clinica,
ma il prendersi cura di un essere umano è un'altra cosa! Non capivi, ma quelli
erano i tempi, che le tre parole bone
hanno un valore molto limitato e soprattutto non è vero che il paziente
riferisce un mare di sciocchezze. Non capivi che il raccogliere un'anamnesi non è solo il
raccogliere delle notizie in modo monodirezionale, ma vuol dire partecipare in
maniera attiva alla costruzione del racconto dell'esperienza di malattia.
Come ho
scritto da un'altra parte, ritengo che ogni medico, ogni operatore sanitario
debba avere la consapevolezza che, per
arrivare alla comprensione della storia
e pertanto alla comprensione del paziente, sia necessario partecipare
con tutto se stesso e capire come la malattia risulti alla fine come "un
testo" da interpretare, nel senso ermeneutico del termine, per cui il
medico diventa a sua volta un co-autore e tutto questo attraverso il linguaggio
che pertanto " non descrive la
realtà ma la costruisce"( Gadamer U.G.).
Quindi,
caro primario, non solo una medicina basata sulla evidenza, ma anche una
medicina basata sulla narrazione, ma soprattutto assolutamente no a una
medicina basata sull'invadenza e l'arroganza.
Così dovrebbe essere il medico per ispirare fiducia: ascoltare il paziente, con pazienza, perché egli è la sola persona a cui ci si possa rivolgere per confidargli i mali del corpo, che sono spesso causati da quelli dell'anima, ed essere presi sul serio. Gemma Menigatti
RispondiEliminaCosì dovrebbe essere il medico per ispirare fiducia: ascoltare il paziente, con pazienza, perché egli è la sola persona a cui ci si possa rivolgere per confidargli i mali del corpo, che sono spesso causati da quelli dell'anima, ed essere presi sul serio. Gemma Menigatti
RispondiEliminaBellissimi editoriale caro Tiziano! E fonte di grande riflessione. La tua sintesi è illuminante su molti temi a me cari. Grazie per il lavoro che fai per te e per tutti noi, comunità in cammino, Insieme costruiremo molti KM della strada che porta alla personalizzazione delle cure.
RispondiElimina