UN NUOVO CONCETTO DI SALUTE Per una cura del
corpo e della mente
Dall'articolo III del codice di deontologia medica della
Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi ed Odontoiatri dello
Stato Italiano".......
Doveri del medico sono la tutela della vita,
della salute psico-fisica, il trattamento del dolore e il sollievo della
sofferenza, nel rispetto della libertà e della dignità della persona, senza
discriminazione alcuna, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali
nelle quali opera.
Al
fine di tutelare la salute individuale e collettiva,
il medico esercita attività basate sulle competenze, specifiche ed esclusive,
previste negli obiettivi formativi
degli Ordinamenti didattici dei Corsi di Laurea in Medicina e Chirurgia e Odontoiatria e Protesi dentaria..."
Ho voluto riportare
questa citazione del codice deontologico della mia professione per fare alcune riflessioni in
generale su come debba operare un medico e in particolare se la formazione
universitaria che ho ricevuto sia stata veramente in grado di garantire questi
obiettivi, ben consapevole che la mia esperienza non può essere generalizzata
per tutti, soprattutto per le nuove generazioni. Dall'anno in cui mi sono
laureato, 1977, si sono succedute diverse riforme dei piani di studi del corso
di laurea e probabilmente la situazione
è cambiata, anche se è mia sensazione
che il cambiamento sia molto marginale e non so se proprio in meglio.
Si presume che uno
studente in Medicina venga preparato e formato nella conoscenza del corpo, anzi
dell'organismo e l'uso di questo sostantivo è già di per sé tutto un programma.
Un testo molto ambito
quando frequentavo il primo biennio della facoltà di medicina e Chirurgia era
senza dubbio l'Atlante di Anatomia Netter. Per i profani si tratta di una serie
di volumi che contengono delle tavole anatomiche disegnate in maniera tale da
essere considerate eccellenti da un punto di vista didattico. Mentre studiavo
sui testi o sulle dispense di Anatomia
Umana consigliate dall' Università, consultare queste tavole costituiva un
aiuto fondamentale per poter imparare la morfologia dei vari organi ed
apparati. Dirò di più! Sfogliando continuamente quelle immagini, con il passare
del tempo nella tua mente si crea la convinzione che quei disegni rappresentino
"il corpo" dell'essere umano, con quei colori e schematismi, con
quelle forme e posizioni. Si formalizza, insomma, il concetto che quello sia il
corpo e, quel corpo diventa quasi, di fatto, il tuo modello di riferimento per
tutti gli anni a venire.
Nel secondo biennio di Medicina, attraverso la fisiologia e la
fisiopatologia mi hanno insegnato come funziona
il nostro corpo e come si ammala da un punto di vista generale . Nel terzo e
ultimo biennio, con le cosiddette cliniche, invece, ho imparato come si
ammalano i vari organi e apparati in maniera più specifica e come dovrebbero
essere curati. Tutto perfetto? Senza dubbio ci sono diverse criticità. Già
quando al V anno per preparare l'esame di anatomia patologica assisti alle
autopsie e vedi com’è la reale anatomia
di un corpo entri in crisi...tutti i colori e tutti gli schemi delle tavole
anatomiche vanno messi da parte e già il distinguere un'arteria da una vena non
è poi così automatico per un occhio non allenato. Quando poi cominci a
frequentare i reparti, molte malattie e quadri clinici che ti hanno insegnato o
non li ritrovi, o li ritrovi molto spesso modificati in maniera molto sensibile,
o ne trovi altri che invece non riesci a collocare.
Quando poi cominci a lavorare nel territorio, come ho fatto
io, come medico di famiglia, la dissonanza cognitiva, chiamiamola anche
dissonanza formativa, diventa una tonalità quasi assordante.
Che cosa ci hanno insegnato, infatti, sul corpo? Come ci
hanno fatto studiare le malattie incasellandole in maniera tale da farcele
apprendere e ricordare?
Maurizio M. ha 32 anni viene in ambulatorio dicendo che da
qualche tempo non digerisce bene e che il mattino si sveglia con la bocca
amara. Dopo pranzo si sente la pancia gonfia e con qualche doloretto che si
sposta continuamente interessando tutti i quadranti dell'addome. Non calo di
appetito, non dimagramento. Esame obiettivo negativo. Richiedo analisi del
sangue di routine con prove di funzionalità epatica che vengono negativi.
Rassicuro e non prescrivo farmaci consigliando moderazione generica
nell'alimentazione. Dopo un mese torna riferendo di stare sempre peggio e non
trovando nulla di nuovo, più per farlo contento, lo invio dal gastroenterologo
che me lo rimanda con una lunga serie di prescrizioni: accertamenti ematochimici che spaziano dalla celiachia
alla funzionalità pancreatica, markers tumorali, ricerca dell'Helicobacter Pylori,
ecografia di tutta l'addome, esofagogastroduodenoscopia. A malincuore faccio le
richieste......dopo un mese tornano le risposte che, come mi aspettavo, sono
tutte negative. A questo punto cerco di rassicurare nuovamente , ma la risposta
del paziente è:
" Fino a quando non troviamo un nome a questa malattia,
proseguiamo con gli accertamenti!".
Valentina P. ha 74 anni, vedova senza figli con il marito
deceduto qualche anno indietro per un cancro al colon. E' affetta da diabete
mellito con scarsissimo compenso metabolico, ipertensione arteriosa, lieve
emiparesi per postumi di un’ischemia cerebrale. Grande obesa, entra in
ambulatorio con fatica, respirando affannosamente e in visibile stato di
agitazione. Le chiedo che cosa le stia succedendo e lei mi risponde che questa
notte ha avuto un discreto mal di pancia con un po' di diarrea e forse ha visto
anche qualche "traccina" di sangue.
La visito, la tranquillizzo dicendo che avrà avuto un
episodio colitico di scarsa importanza e anche il vedere un po' di sangue in
tali occasioni è cosa abbastanza normale, ma che sarebbe opportuno, già che era
venuta, fare un po' di analisi per vedere anche come andava il
diabete...." No, dottore, la ringrazio, al mio diabete ci sono abituata.
La mia paura era se avevo un tumore all'intestino come mio marito! Io sono sola
adesso, e chi mi avrebbe assistito? Ma lei mi dice che non ho niente e a me
basta così!" Mi saluta e senza darmi la possibilità di replica va via.
Queste appena descritte sono situazioni di ordinaria e
quotidiana osservazione negli studi dei medici di famiglia, ma che cosa ci è
stato insegnato per poterle gestire? Quali strumenti possiamo adoperare o, di
fatto, adoperiamo ogni volta ci troviamo a dover condividere questi accadimenti
con i nostri pazienti?
Ognuno di noi, di solito si comporta a suo modo: chi nel
primo caso proverà ad attivare un'ulteriore consulenza specialistica, magari
anche psicologica, mentre nel secondo caso chi lascerebbe perdere o chi
reagirebbe in maniera più decisionista. Quali le alternative? E' possibile
ipotizzare qualcosa di diverso?
Qualche linea guida che si possa apprendere da studente? Io
sono convinto che non sia sufficiente aggiungere nel piano degli studi
universitario un corso di psicologia o di comunicazione o di relazione medico-
paziente. Senza dubbio occorrerà anche questo, ma il vero problema andrebbe per
quanto più possibile affrontato anche in termini d’impostazione e di metodo:
una rivisitazione epistemologica dei principi su cui si fonda la medicina e la
formazione del medico. Sappiamo tutti come questa si fondi su una visione
puramente biomedica del corpo che origina dalla filosofia meccanicista di
Cartesio. Il corpo viene pertanto analizzato secondo un'ottica categorizzante,
che lo scompone in apparati, sistemi, organi, cellule e molecole, relegato
nella res extensa e soprattutto separato
dalla res cogitans: l'anima, la
coscienza, il pensiero che determina l'esistenza. Anche il malato recepisce,
spesso senza rendersene conto, questa concezione in quanto il più delle volte
cerca di definire o vuole che sia definito il proprio dolore o malessere in
qualcosa di preciso, localizzabile, oggettivabile per poterlo vincere ed
eliminare. Questo presupposto, però, se resta forse valido per i problemi
acuti, non è assolutamente sufficiente per affrontare la patologia cronica che
sta diventando una vera e propria epidemia e sta mettendo a dura prova la
sostenibilità dei Servizi Sanitari del mondo occidentale. Dovremo imparare, a
mio giudizio, a rivedere il concetto di corpo e molto dovremo imparare dal
pensiero fenomenologico-esistenziale di Husserl, Heidegger e soprattutto di
Merleau Ponty. Non è mia intenzione, non ne avrei nemmeno la capacità, ripercorrere
tutta la riflessione filosofica che deriva da questi nomi, ma mi preme
evidenziare come un cambio di paradigma sia diventato oramai un'esigenza
inderogabile per la formazione e l'attività del medico, soprattutto per il
medico di famiglia.
Affrontare lo studio del corpo esclusivamente come Korper, vale a dire come corpo
anatomico, biologico, corpo oggetto, se da un lato facilita enormemente la
categorizzazione e l'apprendimento per organi ed apparati e funzioni
biologiche, da un altro lato lo svuota di tanti altri contenuti come le
emozioni, l'intelligenza, la propria storia, i propri vissuti che sono
appannaggio, invece, del corpo come Leib,
corpo vissuto appunto.
E' possibile per un medico poter curare Maurizio e Valentina
senza poter entrare nella loro dimensione di "corpo vissuto"? E'
possibile fare a meno di una comprensione del loro corpo che vada oltre i loro
organi? Penso proprio di no! Senza dubbio "hanno" un corpo che va studiato
in un'ottica, ma "sono " anche un corpo che va approcciato in
un’ottica più ampia, più complessa, più sistemica. Tutta la nostra conoscenza,
tutta la nostra esperienza passa attraverso la nostra corporeità, è attraverso
tutto il nostro corpo che origina di
fatto il nostro mondo e dà un senso a tutto quello che accade; il nostro corpo
quindi come " carne del mondo" perché
è la nostra carne che sente e si emoziona e, nello stesso tempo, quella
che ci permette di capire ciò che abbiamo sentito e ciò che ci ha emozionato come
espressione del nostro essere persona fisica e pensante contemporaneamente nella sua totalità e unicità di fronte al mondo. A questo punto della
riflessione sorge spontanea la domanda su che cosa succeda quando ci
relazioniamo con il "corpo vissuto"
dell'altro tenendo conto che anche noi medici, noi osservatori, abbiamo un
nostro corpo, una nostra corporeità e un
nostra essere nel mondo che viene a sua volta plasmato e definito dall'esperienza di vita e
del mondo stesso? Da qui scaturiscono tutte le conseguenze e le inferenze che
derivano dal nostro agire medico, non solo clinico, ma anche dal tipo di
rapporto e di esperienza che si origina dal nostro scegliere e parlare, dal
nostro embodiment con l'altro.
Altra domanda che viene spontanea è come sia possibile
trasferire tutta questa impalcatura teorica nella pratica della nostra attività
lavorativa?
Primo passaggio, convincersi che non ci relazioniamo più solamente
con il corpo del paziente come corpo biologico alla ricerca di segni e sintomi
di una malattia convenzionalmente definita, ma come un corpo in carne e ossa
che prova emozioni, interpretazioni del proprio malessere, esperienza di sé e
della sua malattia. Un corpo soggetto che deve essere aiutato ad esprimere la
propria intenzionalità, la propria potenzialità e progettualità attraverso la narrazione di sé,
attraverso un intervento educativo centrato su quel paziente e su quel
problema, su quell'uomo e sul suo sistema ambiente, sistema sociale e
relazionale. Da tutto questo deriva una completa rivisitazione del concetto di
salute che non può più essere quello individuato dall'Organizzazione Mondiale della Sanità nell’ormai remoto
1948:" .... non solo l’assenza di malattie ed infermità, ma uno stato di
completo benessere fisico, mentale e sociale". Alla luce di quanto
esposto, che presuppone una visione sistemica della vita, non potremo trovare
mai una definizione precisa della salute, valida per tutti in quanto "la
salute è un'esperienza ampiamente soggettiva, le cui qualità possono essere
conosciute intuitivamente, ma non possono essere mai descritte o quantificate
in modo esaustivo. La salute è uno stato di benessere che si sviluppa quando l'organismo
funziona in un certo modo....Il concetto di salute e, pertanto, i relativi
concetti di malattia, disturbo e patologia non si riferiscono ad entità ben
definite , ma sono parte integrante dei
modelli limitati ed approssimativi che rispecchiano il complesso e mutevole
fenomeno della vita"( F.Capra, P.L.Luisi 214). Una definizione di salute
che si avvicina ai concetti espressi è quella ipotizzata nella Conferenza
Internazionale ( Is health a state or an ability? Towards a dinamic concept of
health) tenutasi a L’Aia nel dicembre 2009 di cui ho scritto in passato
(T.Scarponi 2012). In quell'occasione venne indicata una concezione di salute
"... dinamica, basata sulla
resilienza e sulla capacità di difendere, mantenere o recuperare il proprio
equilibrio e senso di benessere. Salute quindi come capacità di adattarsi e
autogestirsi. Particolare importanza, quindi, al processo di resilienza
che in psicologia viene individuata nella capacità degli uomini di affrontare
le avversità della vita, di superarle venendone fuori rafforzati. Si tratta
pertanto di un processo dinamico che parte da un nuovo modo di valutare il
proprio concetto di sé, degli altri e del mondo che ti circonda. E’ un processo
individuale, personale che scaturisce dalle proprie reazioni difronte agli
eventi traumatici della vita e pertanto un percorso che è valido per una
persona potrebbe non esserlo per un'altra in quanto legato al proprio vissuto,
alle proprie concezioni e alla propria cultura di riferimento..." Ecco pertanto rafforzarsi il concetto di
salute come un processo in divenire di un essere che continuamente si deve
adeguare ai continui cambiamenti della vita e pertanto
è davvero impensabile ad un netto confine fra salute e
malattia. "La vita non è solo una dimensione biologica, ma comprende anche
una dimensione cognitiva, sociale ed ecologica, cui corrispondono altrettante
dimensioni della salute"
A questo punto possiamo parlare di una concezione sistemica
che prevede in particolare tre livelli di salute tra loro interconnessi:
individuale, sociale ed ecologico continuamente interagenti. Salute pertanto
come bilanciamento dinamico, salute come:" Un'esperienza di benessere
risultante da un equilibrio dinamico che implica gli aspetti fisici e
psicologici dell'organismo, oltre che le sue interazioni col suo ambiente
naturale e sociale" ( Capra 1982) Appare
a questo punto automatico che ogni malattia comporta degli aspetti mentali,
cognitivi in un'ottica sistemica, quindi ammalarsi e guarire devono a loro volta
essere considerati dei processi cognitivi.
Come posso concludere queste considerazioni? Senza dubbio
con l'invito e l'impegno con chi ne ha potere e possibilità di cominciare a far
passare certi concetti e riflessioni nella formazione dei futuri medici,
meglio, in tutti coloro che in qualche modo hanno un qualche ruolo nel
prendersi cura. E' poi importante capire che questo è solo l'inizio di un
processo che dovrà essere sviluppato e reso percorribile. Ma tornando al nostro
Maurizio e alla nostra Valentina? Come medico di famiglia devo dare comunque
delle risposte subito. Risposte certe? Credo di no! Ma il medico di famiglia è
abituato all'incertezza e all'indefinito. Per Maurizio ho aspettato che si
sentisse stanco nei suoi "pellegrinaggi verso i santuari degli
specialisti" e ho cominciato a chiedere come gli stesse andando la vita in
generale, lo sto facendo narrare e un po' alla volta si sta aprendo. Vedremo.
Per Valentina al momento ho ritenuto opportuno di non "infierire"
sulla cognizione che ha di se stessa e sul suo essere abituata al " suo
diabete".....molti colleghi storceranno il naso, ma ho fatto così! Più
vado avanti con gli anni e con la professione e più maturo esperienze e ,in
teoria, dovrei acquisire sempre più certezze e sicurezza, invece forse si sta
verificando il fenomeno contrario, come ho scritto nell'ultima recensione che
ho fatto per il libro: di Silvano Biondani, Paolo Malavasi e Sebastiano Castellano “I medici si raccontano. Voci
dal confine del sapere”, il sottotitolo voci dai confini del sapere è
quello che definisce meglio la situazione della medicina di famiglia "…sono le persone
con problemi di salute irrisolti quelle che ci coinvolgono maggiormente. Ci
chiamano ad essere interpreti di malanni complessi, stagnanti o aggressivi, in
cui molto spesso non ci sono risposte… Molto spesso le risposte mediche,
diagnostiche e terapeutiche, sono prerogative degli specialisti… Quando le
prognosi sono oscure tocca a noi, medici di famiglia, guidare i malati, insieme
a chi è loro vicino, nel difficile percorso di adattamento ad una vita
peggiore”.
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