UMANO,TROPPO UMANO
Mi
sarà perdonato l'aver richiamato alla memoria con questo titolo il famoso libro
di Nietzche per "spiriti liberi",
ma l'ho voluto fare perché probabilmente
queste considerazioni potranno dare adito a sospetti e fraintendimenti che a qualcuno faranno dire che sto negando,
anzi, rinnegando tutti i principi di umanità e del prendersi cura che sino ad
ora ho affermato ed enfatizzato.
Non
importa! A 65 anni compiuti mi sento nella libertà di poter scrivere quello che
penso, talora anche con riflessioni a prima vista rischiose, ma sono convinto
che il principio di coerenza talvolta vada interpretato "guardando
oltre" la circostanza e il fatto del momento.
T.M.
sesso maschile classe 1926 affetto da mielodisplasia che "sopravvive"
con tre o quattro trasfusioni di sangue intero alla settimana, con il mento che
oramai quasi tocca i ginocchi e con la maggior parte del tempo trascorsa fra
letto e carrozzella.
S.C.
sesso maschile classe 1929 affetto da marasma senile che con PEG "sopravvive"
accartocciato su stesso sul materassino antidecubito con lettino reclinabile con
sponde di contenimento.
M.M.
sesso maschile classe 1930 affetto da tante malattie che nemmeno un manuale di
patologia medica sarebbe in grado di contenere, " sopravvive" in uno
stato simil catatonico per mezzo di sondino naso gastrico, anche lui
accartocciato su stesso sul materassino antidecubito con lettino reclinabile e con
sponde di contenimento.
La
lista sarebbe ancora lunga. Fatta per lo più da ultraottantenni in condizioni
più o meno sovrapponibili che alternano oramai frequenti periodi di ricovero
ospedaliero a periodi trascorsi in casa con l'assistenza continua di caregiver e infermieri dei centri di
salute.
Mentre
scorrono le immagini di questi pazienti, come quasi in un film che proietta
scene parallele, scorrono le immagini dei quotidiani in edicola di questi
giorni che riportano:" Chiuse le sale operatorie per mancanza di sangue.
Sempre più letti e brande nei corridoi per mancanza di posti letto. Non ci sono
più garze e materiale per medicazioni. Ospedali al collasso.......".
E'
oramai quotidianità vivere la professione da parte mia con un senso di
fastidiosa impotenza nel dover subire scelte operative che non riflettono più
la propria scienza e coscienza, ma è come se tutti quanti noi medici e
operatori sanitari, da un po' di tempo a questa parte, fossimo soggiogati da un
moloc cui tutti dobbiamo obbedienza e sacrifici.
Eppure
quando alla fine degli anni '70 ho iniziato questa professione non era così!
Tutto si chiamava per nome: medico, malato, malattia......morte! Proprio la
morte era considerata un evento naturale, come normale conseguenza di tutto quello
che c'era stato prima, ma da un po' di anni sembra diventata una parola impronunciabile, una
cosa inaccettabile e improponibile.
Non
fraintendetemi, non sono per niente favorevole all' eutanasia, ma lasciatemi
proseguire con una serie di considerazioni.
In
questi ultimi mesi ho partecipato ai tavoli di lavoro per la stesura del Piano
Regionale della Cronicità che ogni regione ha attivato per l'attuazione di
quello nazionale, pubblicato il dicembre dello scorso anno. Sono stati
giustamente individuati i percorsi diagnostici terapeutici assistenziali (PDTA)
per importanti capitoli di patologia con l'obiettivo di " ....un disegno
strategico comune inteso a promuovere interventi basati sulla unitarietà di
approccio, centrato sulla persona ed orientato su una migliore organizzazione
dei servizi e una piena responsabilizzazione di tutti gli attori
dell’assistenza". In altre parole
difronte all’esplosione delle patologie croniche che stanno letteralmente
divorando il Servizio Sanitario pubblico, si cerca di porvi rimedio uniformando
i comportamenti, ma come spesso capita, la coperta che si cerca di cucire,
qualche volta, può venire paradossalmente anche più grande di quella che
occorre. Già il presupporre un approccio unitario e che sia personalizzato nel
medesimo tempo, è forse una contraddizione in termini logici poi, comunque
confezionato l'abito, andrà poi a pennello per tutti? Quando durante la
plenaria dei vari tavoli di lavoro ho alzato la mano e ho chiesto se un PDTA
per un paziente con uno scompenso cardiaco di 50 anni fosse identico a quello per un ultraottantenne non ho avuto
alcuna risposta ufficiale. Dove voglio andare a parare? Voglio solo affermare
che non si può affrontare la complessità con risposte di tipo riduzionistico e
non si può pensare ad una riorganizzazione e responsabilizzazione dei servizi
senza "fare sistema".
Esempio pratico. C.P.
maschio di 87 anni affetto da demenza, oramai costretto a letto e con tutte le
caratteristiche di una fase terminale. La famiglia mi chiede che venga fatto
solo l'indispensabile, ma durante un ennesimo episodio febbrile avvenuto però
di domenica pomeriggio, la badante rumena senza consultare nessun altro chiama
il 118 che " carica su" il paziente, che viene ricoverato e anche
qui, senza sentire il parere di nessun familiare, viene introdotto il catetere
in vescica e il sondino naso gastrico perché? Perché così
dicono le linee guida viene risposto poi alla figlia che poneva il quesito. Non
c'è niente da fare! Anche se a chiacchiere siamo tutti contro un certo modus operandi, quando poi ci troviamo
veramente difronte al problema, scatta in molti una specie di vortice prestazionale alimentato forse da medicina
difensiva, da autoreferenza, da rimozione del proprio senso di morte, insomma
da un qualcosa che risucchia e fagocita qualsiasi considerazione sul perché di certe
scelte e certi passi. E gli effetti di questo vortice si fanno vedere e sentire
con il continuo e progressivo consumo di risorse che fra breve determinerà
l'implosione di tutto il Servizio Sanitario.
Sorge a questo punto
spontanea la domanda:" Quale rimedio? Quale ricetta?
La risposta non è semplice perché
prima di tutto vanno fatte delle scelte di non facile metabolizzazione, scelte
impopolari come quella di affermare che non è più possibile garantire dei PDTA
uniformi per tutti i pazienti, ma non per una motivazione solo economica, ma anche
perché non sarebbe etico e morale garantirli. Gestire la complessità e la
personalizzazione delle cure richiede scelte complesse e personalizzate, scelte
fatte con onestà intellettuale e che
guardino oltre, che guardino al futuro. Prima di tutto va sancito un vero patto
fra i professionisti della salute, un patto che nasca dal principio di dover
far "sistema", con la consapevolezza che il totale è diverso dalla
somma delle singole parti e che ogni criticità di una singola parte si
ripercuote su tutto il sistema. E' impensabile che l'ospedale non tenga conto
di tutta la storia del paziente vissuta insieme al proprio curante com’è
assurdo che quest'ultimo ignori i capitoli della storia vissuti in ospedale, com’è
altrettanto assurdo che tutti i professionisti non siano capaci di una vera
integrazione "trandisciplinare".
Da quale modello conviene
partire? Una risposta potrebbe essere quella della " organizzazione
empatica a geometria variabile" di cui ho parlato nell'editoriale del
Bollettino n.4/2014 (http://tizianoscarponi.blogspot.it/2015/01/organizzazioni-empatiche-geometria.html) e di cui potremo parlare in seguito, ma
quello che mi preme ribadire in questa occasione è che sono arrivati i tempi in
cui si devono dismettere i toni demagogici della politica, i comportamenti
autorefenziali della propria disciplina, le scelte etiche umane del presente,
ma "troppo umane" per il futuro dei nostri figli.
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