Quando
Paolo Menichetti mi ha contattato per partecipare alla presentazione di questo
libro fotografico sull' ospedale di Monteluce ho subito accettato, onorato per
questo invito, ma poi ho iniziato a provare un certa difficoltà in quanto io non
ho mai lavorato dentro questa struttura e forse qualsiasi figura che a
qualsiasi titolo vi abbia operato
sarebbe in grado di produrre ricordi e testimonianze più significative della
mia. A tal proposito, proprio i giorni scorsi, nel mio ambulatorio è venuto uno
dei vecchi portieri in pensione, quelli che stavano alla sbarra che regolava
l'ingresso delle auto all'interno del nosocomio e che all'occorrenza
facevano di tutto, gli ho chiesto di
raccontarmi quello che a suo giudizio di più curioso e simpatico gli fosse
capitato. Mi ha raccontato, sghignazzante, che senza dubbio era stato quando
gli fecero trasportare per una mattinata intera pacchi di documenti dal
meccanografico alla ragioneria con la "Carolina", l'auto dei servizi
funebri per chi non la conoscesse con questo nome. Mentre svolgeva questo
compito e percorreva le vie all'interno
dell'ospedale tutti quelli che lo
incrociavano e conoscevano facevano l'italico scongiuro.
Il
Policlinico di Monteluce! Che valore e che significato ha avuto per Perugia e per
tutti noi Perugini? E ' facile in queste situazioni perdersi in rievocazioni
nostalgiche dal sapore dell'Amarcord, se non altro perché per molti di noi
coincide con la nostra gioventù o con un periodo significativo della propria
vita...per me, come per moltissimi di noi, il proprio corso di formazione
universitaria, per chi l'inizio della propria vita professionale. Per molti
rievoca occasioni felici di nascite di familiari, per altri, momenti tristi o
drammatici di malattie e lutti.
La
mia posizione è abbastanza neutra nei ricordi: per fortuna nessun episodio di
particolari crisi di salute mia o della mia famiglia e anche il percorso
universitario è stato tranquillo e tutto sommato anche abbastanza monotono. Negli anni '70 la
goliardia era finita e salvo qualche screzio con qualche professore
universitario in occasione di un paio di esami non mi vengono in mente particolari
ricordi.
A vedere queste foto ti vengono spontanee alcune
considerazioni. La prima dal punto di
vista dell' edilizia sanitaria . Di come Monteluce rispecchiasse l'idea della sanità , dell'assistenza
sanitaria di quei tempi, una sanità,
cioè, che nasceva e poggiava sulle
discipline scientifiche e sui dettami dei relativi primari. Una sanità
per certi aspetti anche chiusa e protetta verso il territorio e la città, per
cui c'era quasi l'esigenza di munirsi di
mura di recinzione e con le varie cliniche paragonabili a dei castelli, a dei
feudi, governate, passatemi la metafora ma poi non tanto pellegrina, dai vari feudatari o baroni che dir si voglia. Non
fraintendetemi, per carità! La mia non vuole essere un'affermazione polemica,
che esprime giudizi di merito, ma solo una constatazione e sarà poi la storia che ci dirà se il periodo
dei baroni sia stato migliore o peggiore
di quello attuale. Ma come sarebbe possibile pensare l' ematologia perugina
separandola dal suo fondatore professor
Larizza o la nostra diabetologia senza il professor Brunetti? Molto
spesso le cliniche venivano chiamate con il nome dei primari o dei direttori
stessi e queste foto dei loro studi
rendono bene l'idea dell'importanza austera
e quasi regale di chi vi abitava...incutono quasi timore e mi rimandano
allo stato d'animo che provavo quando da studente dovevo andare a parlare con
qualcuno di loro.
Quale è stato il mio personale rapporto con l'ospedale di
Monteluce, come medico di famiglia? Come l'ho vissuto? Se devo essere sincero,
devo rispondere in maniera ambivalente, il classico " odi et amo", da una parte è stato un punto di riferimento
obbligato, volente o nolente ci dovevo fare continuamente i conti anche
talora in modo sofferto...la medicina
specialistica si è sempre rapportata con il territorio in modo gerarchico
dall'alto verso il basso. Quando sei giovane e si rapportano con te i tuoi
maestri, alla fine è anche abbastanza naturale adeguarsi, ma quando avviene il
cambio generazionale e al posto dei tuoi vecchi maestri ti ritrovi specialisti
coetanei o più giovani, diventa meno facile. Comunque sia, il Policlinico ha
rappresentato e ancora rappresenta un
punto di indiscutibile riferimento per tutti noi medici del territorio:
riferimento culturale, riferimento assistenziale soprattutto quando, passatemi
la metafora, non abbiamo più cartucce da sparare.
Dice il padre della
fotografia giornalismo Henri Cartier
Bresson:"La fotografia non è come la pittura. Vi è una frazione creativa
di un secondo quando si scatta una foto. Il tuo occhio deve vedere una
composizione o un'espressione che la vita stessa propone, e si deve intuire
immediatamente quando premi il clic della fotocamera. Quello è il momento in
cui il fotografo è creativo. Oop! Il momento! Una volta che te ne accorgi, è
andato via per sempre" . Questa considerazione probabilmente è valida per scatti dinamici, per le foto che
fissano un movimento, una espressione del volto di un soggetto, un sorriso di
un bimbo, forse è meno valida per queste
fotografie statiche che fissano delle stanze e dei percorsi oramai vuoti.
Forse, però, a ben riflettere è valida
anche per queste. Queste aule, quegli ambulatori, quelle cliniche e quelle
strade e quei corridoi oramai svuotati rendono bene lo stato di abbandono, lo
stato di fine imminente e Nicolini è stato veramente bravo nel cogliere e nel
dare questa emozione.
Ma lasciatemi però fare un'altra citazione, di un altro
artista, questa volta della penna, una citazione che forse per qualcuno potrà
risultare troppo forzata ed esagerata , ma a me viene bene così: Marcel Proust quando nel suo " Le temps retrouve' " afferma:
"Basta
che un rumore, un odore, già udito o respirato altra volta, ( o un'immagine
aggiungo io) lo siano di nuovo, a un
tempo nel presente e nel passato, reali senza essere attuali, ideali senza
essere astratti, perché subito l'essenza permanente e ordinariamente nascosta
delle cose venga liberata, e perché il nostro vero 'io', che talvolta sembrava
morto da un pezzo, ma che non lo era interamente, si desti, si animi, ricevendo
il celeste nutrimento che gli viene offerto. Un attimo affrancato dall'ordine
temporale ha ricreato in noi, per percepirlo, l'uomo affrancato dall'ordine
temporale."
Questa emozione e sensazione, questo affrancamento
temporale l'ho avuto nel vedere, anzi nel rivedere l'immagine del corridoio
mediano che originava nel lato sinistro del piazzale d'ingresso, a fianco della
Clinica Medica. Si allungava per un discreto tratto al chiuso e poi
continuava in un portico che costeggiava
la Chirurgia "nuova" che non lo era più da un pezzo, ma era chiamata così per distinguerla da quella
vecchia, e poi la particolare Cappella Salus
Infirmorum affrescata dal nostro Gerardo Dottori. Orbene ,questo corridoio ho cominciato a
vederlo animato. L'ho visto popolarsi di tanta gente: parenti dei ricoverati
con gli immancabili pacchi e pacchetti per i ricambi e i vettovagliamenti,
studenti allegri con i libri sottobraccio, infermieri che fumavano e
scherzavano, degenti incappottati con sotto il pigiama che tornavano dal bar
con fare furtivo forse dopo aver acquistato qualche pasterella o sigaretta
proibita, medici con passo svelto, allieve ostetriche, manutentori dal viso
annoiato e così via. Ho sempre visto quel corridoio come l'aorta pulsante del
nostro organismo, l'arteria principale in cui transitava tutta l'umanità per
distribuirsi poi in tutti i luoghi del nostro ospedale.
Una delle ultime foto riporta una scritta: " Addio,
caro vecchio policlinico! Chissà se il peggio verrà dopo?" Sarà la storia
che potrà rispondere a questa domanda, per il momento però cerchiamo
assolutamente di essere ottimisti, lasceremo ai nostri figli e nipoti. quando
noi non ci saremo più, il compito di commemorare l'attuale Policlinico
Silvestrini quando sarà dismesso.
Grazie per il tuo contributo!! Simona Panzolini
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