M.G. è una donna di 78 anni
affetta da cirrosi epatica oramai in fase di scompenso terminale.
Le complicazioni dell’ipertensione portale ci sono tutte:
varici esofagee che ogni tanto sanguinano, ascite oramai refrattaria a
qualsiasi terapia diuretica, encefalopatia da iperammoniemia che permette solo
delle brevi parentesi di lucidità fra uno stato soporoso ed uno stato comatoso.
Sono quasi due anni
che andiamo avanti fra una degenza ospedaliera e l’altra, tant’è che ho perso
il conto di quante volte ho preso carta e penna per ordinare un ricovero, anzi,
è da diverso tempo che i familiari chiamano direttamente il 118 e “ fanno tutto
da loro”.
I familiari ………un marito, psicologicamente parlando ,di scarso
spessore che esegue in maniera acritica e pedissequa tutte le direttive
impartite dalla figlia nubile, la mente della famiglia, e dal figlio celibe, la
vera longa manus della sorella e senza dubbio a suo tempo della madre. Oramai
mi si richiede solo di compilare le ricette in ambulatorio e quelle poche volte
che sono chiamato a domicilio, sempre in occasione di una dimissione
dall’ospedale, dipende secondo me dal desiderio inconscio della figlia di
confrontare le indicazioni proposte dai colleghi specialisti con le mie. Da
mesi oramai si replica sempre alla stessa maniera. Arrivo al capezzale di una donna
che oramai è l’ombra di quello che era: un corpo giallo itterico e
maleodorante, un volto di cui oramai si scorge il profilo osseo con gli occhi
infossati dentro le orbite e un addome rigonfio, voluminoso, che contrasta con gli arti senza masse muscolari. Durante la
visita, fra un sospiro ed un lamento, questo volto ridotto a teschio mi guarda
in maniera apparentemente assente e rassegnata, ma poi mi sussurra:” Dottore, non basta?”.
Cara M.G. ho provato tante volte a far capire che oramai non
c’è più niente da fare per garantire qualche speranza, che è inutile chiamare
continuamente il 118, che si deve saper gestire le proprie sensazioni di
impotenza ed angoscia, ma mi sono sempre arreso poi difronte alla volontà dei
tuoi figli che mi davano ragione a parole per smentirmi poi nei fatti.
Questa volta però potrebbe andare in maniera diversa. Tua
figlia mi ha appena detto che ha capito che all’ospedale in pratica non ti
fanno più niente, che non può più vederti “risuscitare” per due o tre giorni
con una trasfusione o con un po’ di albumina per poi vederti continuamente
morire……. “Non potremmo, dottore, provare a gestire la situazione a casa?” Io ho risposto:” Abbiamo
tutto: ossigeno, levulosio, antibiotici, liquidi per infusioni e la mia
presenza quotidiana, non abbiamo bisogno di altro”.
Come andrà a finire già me lo immagino: coma da
iperammoniemia, clisteri di levulosio ed antibiotico per eliminare la flora
batterica intestinale, ma si arriverà alla fase del non ritorno e M.G. spirerà
sul suo letto circondata dai suoi cari che fino all’ultimo si adopereranno in
maniera commovente per aiutarla.
Qualcuno a questo punto potrebbe obiettare, ma è legale non
ospedalizzare la paziente?
Non potrebbe essere considerata comunque una forma di
eutanasia? A queste domande voglio rispondere con alcune argomentazioni.
Ho finito di leggere in questi giorni un interessante e
stimolante libro del giurista Stefano Rodotà dal titolo: “La vita e le regole.
Tra diritto e non diritto”. E’ una
lettura che raccomando a tutti, in quanto non riservata esclusivamente agli
addetti ai lavori e non presuppone una
competenza specifica nelle scienze giuridiche. Ovviamente qualche periodo,
forse anche qualche pagina non sarà stata completamente recepita e
metabolizzata, ma le crucialità e la sostanza sono state alla portata mia e
senz’altro saranno anche a quella vostra.
L’inizio è immediato e frontale: “ Può il diritto, la regola giuridica,
invadere i mondi vitali, impadronirsi della nuda vita, pretendere anzi che il
mondo debba evadere dalla vita? Gli usi sociali del diritto si sono sempre più
moltiplicati e sfaccettati. Ma questo vuol dir pure che nulla può essergli
estraneo, e che la società deve rassegnarsi ad essere chiusa nella gabbia
d’acciaio di una onnipresente e pervasiva dimensione giuridica?” Tale
riflessione è motivata dalla constatazione che oramai al diritto e di
conseguenza alla legge viene richiesto di pronunciarsi su tutto, anche su
problemi e situazioni di
regolamentazione sociale che non dovrebbero
richiedere questo intervento in quanto pertinenza della religione, della morale , della tradizione e
della storia di una comunità. Lo sviluppo però della scienza e della tecnologia
oltre i confini dell’immaginabile, la perdita dell’omogeneità culturale e delle
tradizioni derivanti dallo stato multietnico e altre evoluzioni della società
hanno di fatto determinato la caduta di questi punti di riferimento. Ed ecco
allora che per superare il disorientamento interiore, il proprio senso d’insicurezza
viene richiesta una legge per ogni
circostanza e problema comportando, però, un vero e proprio “ imperialismo giuridico” con tutte le conseguenze.
Da dopo l’Illuminismo, infatti, il diritto moderno diventa
il sistema che norma e regola l’ordine sociale, uno strumento prodotto da un
organo rappresentativo della volontà del popolo che regola stesso, che annulla
le differenze dei rapporti giuridici
basati sul ceto e istituisce come principio e valore fondante
l’uguaglianza formale annullando pertanto qualsiasi valutazione su gli esseri
umani come “persone” e togliendo quindi qualsiasi riflessione sulla loro esistenza
e storia….” Paradossalmente rende il diritto un artefatto umano che rischia
costantemente di diventare inumano, perché costretto ad ignorare lo scorrere
delle vicende esistenziali e la materialità del corpo”.
Quali sono le risposte possibili per Rodotà ? Il diritto,
soprattutto per le scelte che riguardano in maniera diretta la gestione della
propria vita e del proprio corpo, dovrebbe abbandonare “l’astrattezza” permettendo di poter
affrontare un’analisi caso per caso. Si dovrebbe, cioè, applicare un modello di
regole che alla logica binaria del lecito o illecito, del legale o non legale
preferisca una valutazione calibrata sul problema e sulle circostanze che si
presentano di volta in volta.
Spero di non aver travisato il pensiero di Rodotà: la mia
conoscenza e la mia padronanza del linguaggio in materia sono abbastanza
limitate, per cui il rischio è reale, ma il mio obiettivo è quello di dare
delle risposte con delle argomentazioni che rispecchino le mie idee, se poi
queste dovessero derivare da un fraintendimento, poco importa, questo è comunque il mio pensiero. Anzi, mi spingo
anche oltre, è mia profonda convinzione che sulla gestione di certi problemi,
come quello di M.G., è opportuno che la legge e la norma giuridica restino
fuori il più possibile.
Una volta che c’è la norma di legge, questa va rispettata
e non c’è più quel margine di
discrezionalità individuale che ti
permette di scegliere secondo un’ottica soggettiva che deriva dalla valutazione
di quel caso, in quel contesto, con quella storia.
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