Mi
ricordo che sino a pochi anni fa, durante le ferie, ero in grado di staccare la
mente in maniera totale da tutto quello che riguardava il lavoro: non c’era il
cellulare, il periodo di riposo era molto più lungo e concentrato in un unico
periodo, partivo da solo con tutta la mia famiglia.
Con
il passare del tempo le abitudini sono cambiate: non più di una settimana, ma
magari ripetuta più volte durante l’anno. Il telefono cellulare sempre acceso:
con i genitori anziani e i figli soli in casa o in giro per il mondo...non si
sa mai! Ma ne approfittano anche diversi pazienti. Soprattutto poi è l’andare
in vacanza insieme a colleghi che più o meno condivido-
no
la stessa vita, la stessa quotidianità e le stesse problematiche che tra un
bagno e l’altro, un’escursione e l’altra si impongono lunghe discussioni:
politica, cronaca, gossip nazionali e locali, ma gira e rigira si finisce poi
sempre lì...., a parlare di lavoro o di episodi che sono capitati mentre si
lavorava.
Un
argomento che questa estate ha tenuto banco in maniera molto vivace è stato
quello dell’uso delle sigle e degli acronimi nella pratica di ogni giorno. Ho
esordito io raccontando che qualche giorno prima ero stato costretto a
telefonare ad una collega pneumologa che aveva richiesto una visita di
controllo con DAC (diffusione alveolo-capillare) e lì c’ero arrivato, ma poi mi
ero arenato in maniera totale su 6MWt, che la collega mi ha spiegato essere per
six Minute Walking test, vale a dire il test del cammino per sei minuti. E’ partito
un fiume in piena! MM che significava mieloma multiplo scambiato per melanoma
maligno. GAd e DAP rispettivamente disturbo d’ansia generalizzato e disturbo di
attacco di panico. Su questo tema il centro per l’infertilità fa la parte del
leone: MHtFr ( metilentetraidrofola- toreduttasi) e PAi-1 (plasminogen activa-
tor inhibitor 1) ed anche l’urologia non si comporta male con IPP (induratio
penis plastica), TURB (resezione transuretrale di neoformazione vescicale ) e
TURP (resezione transuretrale di prostata) . Voglio terminare la rassegna
restando in ambiente urologico con un episodio, oramai dal sapore aneddotico,
accadutomi ad inizio attività in cui sono stato alle prese con una richiesta di
vB1,vB2,vB3 che il primario chirurgo di allora per telefono mi tradusse nella
prova dei tre bicchieri: test per stabilire il rapporto cronologico dell’ematuria
con la minzione, prova caduta nell’oblio con l’avvento dell’ecografia. Le conclusioni di questa
discussione sono facilmente intuibili ed ognuno tragga le proprie, io ho
risolto il problema lavorando continuamente connesso ad internet, lancio sul
motore di ricerca la sigla e quasi sempre ottengo le risposte, ma è normale
dover arrivare a tanto?
Da
internet a discutere dell’informatica e del suo uso nella nostra attività è un
attimo e qui, come prevedibile, il consenso più o meno unanime che si aveva
nell’argomento precedente si frantuma in diverse fazioni di opinione. C’è
l’entusiasta, chi la considera un male necessario, chi fortemente l’osteggia e
l’avversa:” Mi sembrerebbe di essere un impiegato dell’anagrafe comunale”.” Il
mio cervello si rifiuta .......!”. e su affermazioni di questo tenore potremmo
andare avanti all’infinito, senza poter trovare un minimo di incontro: il risultato
è un no senza possibilità di concertazione e mediazione, anzi, tutti coloro che
hanno iniziato e hanno istituzionalizzato l’uso dell’informatica nella attività
medica, sono da considerare dei “tra- ditori”, come coloro che hanno contribuito
più di tutti a “snaturare” il
ruolo e la figura del medico. Sull’estremo opposto ci sono i colleghi che oramai
ragionano solo in byte e RAM alla velocità espressa in gigaherz: usano un loro
linguaggio, hanno un loro stile e mentre ci parli non sai mai se ti ascoltano o
stanno in quella realtà virtuale che per i più risulta inintelligibile ed
imperscrutabile in quanto fatta di links e blog. Fra tutti, per fortuna, la
fascia più ampia è quella dei medici che lavora con il personal computer in
quanto oramai ne è invalso l’uso e non se ne può fare più a meno: per
raccogliere ed elaborare dati, per gestire la cartella clinica del paziente,
per avere dei numeri su cui poter impostare un audit, per studiare e rimanere
aggiornati. Questa discussione di fatto si è conclusa senza un’opinione
condivisa, molti problemi come era logico aspettarsi sono rimasti aperti: l’investimento
economico e di tempo per la realizzazione di un archivio elettronico, l’interferenza
nel rapporto medico-paziente, la tutela e la segretezza dei dati e delle
informazioni.... ed altri ancora. Dall’uso dell’informatica come strumento di
lavoro, come per esempio per il monitoraggio dei fattori di rischio di malattia
dei nostri pazienti e quindi a parlare delle nostre capacità nel poter prima verificare
e saper poi governare gli stili di vita di costoro, ancora una volta è stato un
attimo.
A
questo punto, però, l’intensità delle voci si è attenuata in maniera spontanea,
come se ci fossimo trovati in una situazione di rispetto o di soggezione. Forse
è la consapevolezza, la convinzione che ognuno di noi, su questo fronte, in
qualche modo è carente e deficitario che ci ha fatto abbassare i toni del linguaggio:”
Ha avuto due infarti del miocardio, ma non riesco a fargli assumere la
statina..” “va avanti con il bombolone dell’ossigeno liquido e di nascosto ancora
fuma...”.”Pesa più di un quintale! E’ stata da tre o quattro dietiste, ma non è
calata neanche di un grammo”. Sono queste alcune
delle innumerevoli testimonianze riferite dal gruppo, tutte come dicevo senza
particolare enfasi e vissute con la sensazione dell’ineluttabile del “non ci
posso far nulla”, verbalizzate in maniera frustrata da alcuni e distaccata da
altri. Quello dell’intervento sugli stili di vita dei propri pazienti è un
problema grande, sia per il numero degli interventi, sia per le enormi
conseguenze che ne derivano, ma come è possibile in concreto poter intervenire
al di là della semplice prescrizione ed indicazione? Esiste me- dico che abbia
ricevuto una formazione e una preparazione adeguata? Esistono tecniche di
comunicazione che oramai sono state validate, ma sono alla portata di tutti? si
fa presto a parlare di comunicazione e di counselling, ma è stato mai studiato
quanto le variabili sog- gettive del medico sono determinanti su questo fronte?
Senza arrivare a parlare degli stili di vita del medico, ma quanto il suo
carattere introverso od estroverso, quanto le sue opinioni e i suoi “vissuti”
influiscono nel colloquio, nella modalità di rapportarsi e di prescrivere e
consigliare? E poi? In trenta anni di lavoro quanti miti abbiamo visto cadere o
trasformarsi? vale a dire, quante verità che sembravano assolute e pertanto
degli obiettivi da perseguire si sono rivelate inutili se non addirittura
controproducenti? Pertanto la discussione è andata a finire sull’utilità di
certi atti medici, sul valore di certi interventi e sui criteri di validazione
delle nostre scelte e quindi sulla Medicina Basata sulla evidenza (EBM). su
questo punto l’intensità delle voci ed il tono della conversazione si sono nuovamente
alzati e vivacizzati. Si sono riformate le fazioni contro e a favore. Le
affermazioni di Sachett e Cochrane sono state sommariamente rivisitate e valutate:”
Considerazioni di alto significato teorico e nessuno pratico”. “l’atto medico è
un misto di scienza, di arte, di empiria che difficilmente può essere circoscritto
entro gli angusti confini di regole più o meno rigide”.”Dall’EBM si possono
ricavare informazioni e raccomandazioni per una buona ed appropriata pratica
clinica...”. Indubbiamente la questione epistemologica, il problema del metodo
e del paradigma da cui discende la nostra pratica quotidiana ci investe e
spesso ci sommerge senza che i più se ne rendano conto. Quanti infatti sono
convinti che ci troviamo di fronte ad un mero aspetto teorico, speculativo fine
a se stesso e rimandano il tutto ad una pura riflessione di tipo filosofico non
pertinente con l’attività del medico? Quanti sono consapevoli dell’inferenza
che certe affermazioni hanno sul nostro lavoro quotidiano? Ecco dunque le non
conclusioni delle nostre sudate discussioni sotto il sole d’Agosto. Quello che
è certo però è che il medico oltre a fare il medico deve avere:
1)
Una buona dimestichezza con sigle, acronimi e la lingua inglese.
2)
Una buona conoscenza dell’uso dell’informatica.
3)
Una capacità di interazione e comprensione del paziente da psicologo.
4)
Una buona base filosofica per affrontare il problema del metodo del proprio
lavoro con consapevolezza. Ma siamo sempre convinti di fare la professione giusta?
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