“No dottore! La terapia non me la segni che andrò in
erboristeria a farmela dare…” mi disse G.C., donna di 32 anni dopo avermi
mostrato l’urinocoltura che documentava l’ennesimo episodio di cistite. “ Da quando l’omeopata ha prescritto a mio
figlio quei granuli da sciogliere sotto la lingua, l’allergia non si è vista
più”. “ Dottore! Per fortuna ho smesso
la sua cura a base di antiinfiammatori che mi avevano tutta intossicata.
L’omeopata con delle goccioline che vanno prese dopo averle agitate per un
numero preciso di volte, mi ha risolto per il momento tutti i problemi….”.
Potrei andare avanti per molto con questo tipo di
affermazioni che ho sentito nel mio studio da parte dei miei pazienti. Dapprima
erano episodi sporadici, circoscritti,
ascrivibili ad una tipologia di pazienti abbastanza omogenea e costante:
donne dai 30 ai 50 anni, di solito molto acculturate, di ceto sociale medio
alto e con il proprio stato civile che cambiava
ogni tanto.
Poi gli episodi sono diventati più frequenti ed anche la
tipologia dei pazienti ha iniziato ad
essere meno omogenea, più variegata. Allo stato attuale, infatti, posso
affermare che la schiera dei consumatori delle terapie non convenzionali
comprende tutte le categorie sociali e culturali, è distribuita in ugual misura
fra i due sessi, solo l’età molto avanzata è scarsamente rappresentata. Sembra
paradossale, ma nell’era dell’informatica, della telematica, della robotica e dell’ingegneria genetica,
dei grandi interventi chirurgici, della pillola per tutto.. tutto c’era da
aspettarsi, ma non certo questa esplosione, come la vogliamo chiamare, di
alternativo? Di naturale? Di magico?......Non nascondo che alle parole di G.C.
ho provato un profondo senso di stizza:” Ma guarda ‘sta tipa! Viene da me per
farsi fare una diagnosi e poi mi tradisce con l’erborista”. La stizza andava
man mano aumentando mentre aumentavano le celebrazioni dei presunti successi
terapeutici delle “altre terapie” a
scapito di quelle mie, “scientifiche” e
di documentata efficacia da tanto di lavori e ricerche controllate.
A tanto risentimento che dentro di me covava, dovevo porre
rimedio. La formazione psicoterapica che ho avuto mi ha insegnato, infatti, che
l’aggressività che circola dentro se stessi va in qualche modo affrontata, pena
somatizzazioni anche molto pericolose, pertanto l’ho dapprima lasciata fluire libera per
rintuzzare in maniera energica e talora anche scortese le affermazioni dei miei
pazienti. Dopo un po’, però, ho ritenuto opportuno “sublimare” tale
aggressività, d’altronde sempre dalla psicoterapia s’impara a uscire dai ruoli
e dagli stereotipi, pertanto è venuto quasi automatico e spontaneo
che quella stizza si trasformasse in curiosità e voglia di conoscere e
studiare. Non mi sembra certo il caso di stare ora a raccontare il mio percorso
formativo in omeopatia, ma credo sia molto più utile dire quello che si prova
quando a più di 50 anni di età un medico si affaccia all’universo della
Medicina “alternativa”. Come di fronte a
tutti gli universi sconosciuti si prova: smarrimento, perplessità, insicurezza
e voglia di scappare. Viene spontaneo arroccarsi in maniera scettica sulla
propria posizione oramai consolidata di conoscenze e di operatività, ma la
curiosità ha prevalso e sono andato avanti.
Quando si parla di medicina alternativa, la maggior parte dei medici
pensa ad una cura con un po’ di erbe non meglio identificate che tutt’al più
male non fanno, ma è un riduzionismo incompleto e sbagliato. Non a caso ho usato la parola “universo”, perché ci
troviamo davvero in mezzo a mille galassie con i propri mondi e i propri
pianeti: omeopatia,agopuntura,omotossicologia,fitoterapia,metalloterapia,aromaterapia,
ayurveda e mille altri. Parlando ad esempio di omeopatia,
tutti conoscono l’aforisma: “ Similia similibus curentur”, ma solo gli
addetti ai lavori sanno che sarebbe più corretto parlare al plurale di
omoeopatie in quanto esiste quella unicista, quella pluralista, quella
complessista, quella ortodossa di Hahnemann, quella di Kent, la scuola
francese, la scuola argentina…..ed altre ancora. Il disorientamento massimo lo
abbiamo poi, quando dalla fase cognitiva e teorica si passa alla fase pratica
ed operativa in cui tutta la metodologia ed il ragionamento derivante dalla fisiopatologia che ti è familiare viene
abbandonato in nome della repertorizzazione, vale a dire la scelta di un
rimedio in base ai sintomi che vengono indotti sperimentalmente da quello o quell’altro
principio attivo, somministrato secondo certe diluizioni e dinamizzazioni.
Chiedo scusa ai “veri” omeopati di questa mia sintesi, ma
non ho certo l’obiettivo di illustrare in due pagine l’omeopatia o le altre
medicine non convenzionali, di sostenerne la validità scientifica o meno, ma
volevo esporre alcune mie riflessioni di ordine generale per poi confrontarle
con chi ne è interessato.
Da uomo e da medico ho sempre evitato di esprimere giudizi di
condanna su ciò che non conosco. Potremmo discutere e dissertare una vita sulla
memoria dell’acqua, sull’influenza dei campi magnetici, sulla potenza della
suggestione e del placebo senza arrivare mai ad una conclusione, d’altronde
sono perfettamente d’accordo con Thomas Kuhn e con il principio della
incommensurabilità delle teorie, quando affermano che è impossibile confrontare teorie se queste non si
basano su di un comune riferimento concettuale,
dal momento che il significato delle affermazioni varia con il variare
del contesto nel quale sono inserite. Come potremmo mai far dialogare il metodo positivista della
medicina sperimentale di Claude Bernard con Vata, Pitta e Kapha vale a dire i
tre dosha (energie vitali) dell’Ayurveda? Quale confronto possibile fra
un antidepressivo inibitore della ricaptazione
della serotonina e il fiore di Bach agrimony? Mi sembra giusto a
questo punto ricordare come le lezioni più noiose e penose che mi sia sorbito
siano state quelle in cui i docenti pretendevano di dimostrare la scientificità
della psicoterapia prima e dell’omeopatia dopo. Non c’è niente da fare, a mio
giudizio, i paradigmi sono diversi, i criteri e le ipotesi di partenza sono
diverse, impossibile la conciliazione: come si fa a parlare in maniera
scientifica dell’Es di Freud o dell’archetipo di Jung? Come è possibile parlare
di principio attivo, secondo la farmacologia
scientifica, quando un rimedio omeopatico può essere somministrato ad
una diluizione tale che non lascia traccia di sé ad un’analisi chimica? Come
comportarsi allora, che fare? Io faccio così. Per quello che mi riguarda, non
parlo assolutamente di medicina alternativa, ma di medicina complementare o
integrata; non mi sognerei mai di sospendere l’insulina ad un diabetico o di
non spedire un
paziente dal chirurgo
nel sospetto di un addome acuto, ma lasciando questi casi limite, in
mille altre situazioni non ho nessuna difficoltà o remora mentale a prescrivere
rimedi omeopatici od omotossicologici se i miei pazienti lo desiderano. I
risultati ci sono, non chiedetemi il perché, ma ci sono.
Tutti ci domandiamo come mai la medicina alternativa abbia
tanto consenso tra la gente comune e
come mai si stia diffondendo nonostante alla medicina ufficiale vengano
richieste sempre più le prove di
efficacia e sempre più dei lavori condotti in maniera rigorosa? Senza dubbio
una risposta viene dal fatto che “noi “medici scientifici abbiamo abbandonato
degli spazi che la medicina non convenzionale ha di fatto mantenuto. Forse più
che di spazi conviene parlare di dimensioni, anzi, di quella dimensione terapeutica
che permette lo svolgimento della terapia stessa ancor prima di considerarne l’
efficacia, mi riferisco alla dimensione relazionale e quella simbolica. Il
prendersi cura nel senso etimologico
della parola, la capacità di ascolto, la comprensione olistica del paziente
sono già terapia e certe ritualità, basti pensare alle succussioni, rimandano a
certi vissuti ancestrali e a certi spazi simbolici che sono dentro ognuno di
noi. Permettetemi poi, prima di chiedere perdono del mio peccato di eresia nei
confronti sia della medicina scientifica sia della medicina alternativa, di
rivisitare alcuni concetti dell’epistemologia “moderna” e precisamente del
filosofo della scienza cui mi sento particolarmente vicino :Paul Feyrabend. Non
esiste un metodo scientifico universalmente valido, atemporale ed apodittico. Nella
realtà assistiamo di fatto ad un’anarchia metodologica in quanto la scienza procede e va avanti utilizzando
tutto quello che crede più opportuno anche le pratiche più diverse ed in
conflitto teorico fra di loro. “Qualsiasi cosa va bene, l’importante che
funzioni”. E’ inutile cercare una logica
sui modi in cui la scienza progredisce, una sua storia, la storia della scienza
in quanto “ la storia della scienza è un aspetto di quella storia più grande
che è la storia umana, la quale non ha una logica propria, perché ha sempre
utilizzato e continua ad utilizzare qualsiasi ingegnosità e qualsiasi follia
dell’uomo”.
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