“ Voglio vivere ancora a
lungo, perché vede dottore, nonostante tutto, io mi trovo ancora bene e la vita
mi piace“…. Queste sono le parole che P.M. di 88 anni mi ripete
ogni volta che vado nella sua casa a visitarla. Non ci sarebbe nulla di
strano in queste affermazioni, se non fossero fatte da una donna costretta su
una sedia a rotelle da anni e che oramai
passa quasi tutto il suo tempo a vedere la televisione e a contemplare il
panorama che si apre davanti a lei ogni volta che si affaccia al proprio
balcone. Questo è indubbiamente un panorama splendido, con monte Morcino in
prima fila, Lacugnano, monte Malbe ed il Tezio in seconda, all’orizzonte il
Trasimeno con dietro ergersi in maniera quasi sfumata le sagome del monte di
Cetona e dell’Amiata. “ Quello che però
non potrei accettare” aggiunge “ è la perdita della vista! Allora si che vorrei
morire”.
P.M fa parte di quella schiera di pazienti
che, nonostante la malattia, nonostante la disabilità, nonostante il dolore
fisico e morale che provano, riescono sempre a stupirti per come, tutto sommato,
sono riusciti ad adattarsi alla propria condizione di malati. Chiamano il
minimo indispensabile, sopportano tutto in maniera quasi stoica: difficilmente un
lagno od un lamento, tutt’al più qualche sospiro accompagnato da espressioni
come “ Ci vuole pazienza!”. Rifiutano terapie analgesiche potenti e cure che
prevedano il dover “peregrinare” tra ambulatori ed ospedali, ma non stanno
assolutamente ad aspettare in maniera passiva la morte in quanto
vanno comunque avanti, a loro modo, ma vanno avanti. Si sono creati un
loro mondo, un loro vissuto, come
direbbero i fenomenologi, un mondo di non facile comprensione in quanto origina
da una loro esperienza rielaborata dalla loro soggettività con una loro
significanza, quindi, non con un significato uguale per tutti. C’è però molto
da imparare da costoro e a ben riflettere indicano una strada, forse meglio
dire la strada per la soluzione di molti problemi che stanno per travolgere i nostri
sistemi sanitari. Mi spiego meglio. Se chiediamo, sempre a costoro, se si
sentono in buona salute il più delle
volte rispondono in maniera positiva sul loro stato e pertanto senza rendersene
conto hanno completamente stravolto il concetto di salute stesso.
Quest’ultimo cui ci si rifà
di solito, è quello dell’Organizzazione Mondiale della Sanità stilato
nell’ormai remoto 1948:” Non semplicemente l’assenza di malattie ed infermità,
ma uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”. Come è stato
fatto notare nella Conferenza Internazionale ( Is health a state or an ability?
Towards a dinamic concept of health) tenutasi a L’Aia nel dicembre 2009 questa definizione oramai ha perso il suo
valore in quanto esprime un concetto statico del tutto improponibile in un
mondo dove è diventato normalissimo invecchiare convivendo con le patologie croniche.
Il seguitare, pertanto, a dare valore alla completa assenza di malattie significherebbe
decretare la fine della sostenibilità dei nostri servizi sanitari. Non verrebbe poi
considerata la capacità di adattamento dell’essere umano nei confronti delle avversità
della vita siano queste malattie, cataclismi naturali, guerre o disastri: tutta
la storia dell’umanità è una testimonianza di ciò. Non verrebbe dato nemmeno il
giusto valore alla capacità umana di sentirsi funzionale o di star bene anche
con una malattia o con una disabilità. Ecco pertanto che occorre provare a
ridefinire il concetto di salute, sempre secondo gli studiosi della conferenza
olandese, spostandosi verso una concezione
dinamica, basta sulla resilienza e sulla capacità di difendere, mantenere o
recuperare il proprio equilibrio e senso di benessere. Salute quindi come
capacità di adattarsi e autogestirsi.
Particolare importanza,
quindi, al processo di resilienza che in psicologia viene individuata nella
capacità degli uomini di affrontare le avversità della vita, di superarle
venendone fuori rafforzati. Si tratta pertanto di un processo dinamico che
parte da un nuovo modo di valutare il proprio concetto di sé, degli altri e del
mondo che ti circonda. E’ un processo individuale, personale che scaturisce
dalle proprie reazioni difronte agli eventi traumatici della vita e pertanto un percorso che è valido per una persona
potrebbe non esserlo per un'altra in quanto legato al proprio vissuto, alle
proprie concezioni e alla propria cultura di riferimento. Grandissima
importanza quindi al contesto globale, soprattutto culturale e sociale in cui
l’individuo vive. Senza addentrarmi nei concetti di coping e salutogenesi di Lazarus e di Antonovsky,
ritengo utile indicare i passaggi che questi studiosi hanno sottolineato per
vincere le avversità della vita, fronteggiandole
(coping) e strutturando un senso di
coerenza interiore (salutogenesi).
· Realizzare una buona rete sociale che permetta il
supporto ed il sostegno oltre che materiale anche emotivo e morale;
· Riconoscere che il cambiamento è parte della vita per
cui è impossibile pretendere che tutta rimanga immutabile secondo il proprio volere;
· Considerare una crisi come un’occasione di stimolo per
reagire, cercare di trovare dentro di sé
le capacità per superarla;
· Mettere in atto comportamenti di reazione ;
· Sfruttare ogni possibilità per crescere e realizzarsi;
· Trovare sempre uno spazio per coltivare i propri
interessi.
Non so se tutti questi concetti
abbiano interessato P.M. nella rielaborazione della sua disabilità,
probabilmente in gran parte si: ha un figlio pronto a correre in suo aiuto in
qualsiasi momento, trascorre ore a sentire musica e a guardare qualsiasi
documentario televisivo sulle “ meraviglie della natura” come le chiama lei.
Ricorda sempre come durante la guerra aveva dentro di sé la convinzione che ne
sarebbe uscita indenne insieme a suo marito e che con l’aiuto di Dio avrebbe
comunque realizzato la sua famiglia, la sua casa, la propria vita.
“Vede dottore” mi ha detto l’ultima
volta” a me basta affacciarmi al balcone e, anche se le gambe non mi portano
più da nessuna parte, sapesse quanto mondo vedo anche oltre l’orizzonte!”
Mentre mi allontanavo, riflettevo
sulle sue parole. Sarà stata l’immaginazione che superava l’orizzonte, la
capacità di poter comunque vedere oltre gli ostacoli e le barriere che mi è
venuto in mente un poeta che di avversità e di problemi di salute ne ha avuti
tanti, ma con la loro rielaborazione, anche se forse non ha realizzato una
perfetta resilienza, ci ha donato però le più belle pagine della poesia
italiana. Consentitemi di trascrivere per intero quella che senz’altro meglio
delle mie parole indica come e dove può
arrivare “ il fingersi nel pensiero”.
L’infinito
«Sempre caro mi fu
quest'ermo colle,
e questa siepe, che
da tanta parte
dell'ultimo
orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e
mirando, interminati
spazi di là da
quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima
quïete
io nel pensier mi
fingo, ove per poco
il cor non si
spaura. E come il vento
odo stormir tra
queste piante, io quello
infinito silenzio a
questa voce
vo comparando: e mi
sovvien l'eterno,
e le morte
stagioni, e la presente
e viva, e il suon
di lei. Così tra questa
immensità s'annega
il pensier mio:
e il naufragar m'è
dolce in questo mare»
(Giacomo Leopardi)
Nessun commento:
Posta un commento